Il viaggio – Audio lettura 3

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Legge Valter Zanardi
«Ecco lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e strade: la gente che vi dimorava era, come per tanti anni era stata lei nella sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di terra, con le sue abitudini e le sue occupazioni: oltre a quello che gli occhi arrivavano a vedere, non esisteva più nulla per quella gente; il mondo era un sogno.»

Prime pubblicazioni: La lettura, ottobre 1910, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.

Il viaggio audiolibro
John Singer Sargent (1856–1925), Canale Veneziano, 1913

Il viaggio

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Da tredici anni Adriana Braggi non usciva più dalla casa antica, silenziosa come una badia, dove giovinetta era entrata sposa. Non la vedevano più nemmeno dietro le vetrate delle finestre i pochi passanti che di tanto in tanto salivano quell’erta via a sdrucciolo e mezza dirupata, così solitaria che l’erba vi cresceva tra i ciottoli a cespugli.

             A ventidue anni, dopo quattro appena di matrimonio, con la morte del marito era quasi morta anche lei per il mondo. Ne aveva ora trentacinque, e vestiva ancora di nero, come il primo giorno della disgrazia; un fazzoletto nero, di seta, le nascondeva i bei capelli castani, non più curati, appena ravviati in due bande e annodati alla nuca. Tuttavia, una serenità mesta e dolce le sorrideva nel volto pallido e delicato.

             Di questa clausura nessuno si maravigliava in quell’alta cittaduzza dell’interno della Sicilia, ove i rigidi costumi per poco non imponevano alla moglie di seguire nella tomba il marito. Dovevano le vedove starsene chiuse così in perpetuo lutto, fino alla morte.

             Del resto, le donne delle poche famiglie signorili, da fanciulle e da maritate, non si vedevano quasi mai per via: uscivano solamente le domeniche, per andare a messa; qualche rara volta per le visite che di tempo in tempo si scambiavano tra loro. Sfoggiavano allora a gara ricchissimi abiti d’ultima moda, fatti venire dalle primarie sartorie di Palermo o di Catania, e gemme e ori preziosi; non per civetteria: andavano serie e invermigliate in volto, con gli occhi a terra, impacciate, strette accanto al marito o al padre o al fratello maggiore. Quello sfoggio era quasi d’obbligo; quelle visite o quei due passi fino alla chiesa erano per loro vere e proprie spedizioni da preparare fin dal giorno avanti. Il decoro del casato poteva scapitarne; e gli uomini se ne impacciavano; anzi, i più puntigliosi erano loro, perché volevano dimostrare così di sapere e potere spendere per le loro donne.

             Sempre sottomesse e obbedienti, queste si paravano com’essi volevano, per non farli sfigurare; dopo quelle brevi comparse, ritornavano tranquille alle cure casalinghe; e, se spose, attendevano a far figliuoli, tutti quelli che Dio mandava (era questa la loro croce); se fanciulle, aspettavano di sentirsi dire un bel giorno dai parenti: eccoti, sposa questo; lo sposavano; quieti e paghi gli uomini di quella supina fedeltà senza amore.

             Soltanto la fede cieca in un compenso oltre la vita poteva far sopportare senza disperazione il lento e greve squallore in cui volgevano le giornate, una dopo l’altra tutte uguali, in quella cittaduzza montana, così silenziosa che pareva quasi deserta, sotto l’azzurro intenso e ardente del cielo, con le straducole anguste, male acciottolate, tra le grezze casette di pietra e calce, coi doccioni di creta e i tubi di latta scoperti.

             A inoltrarsi fin dove quelle straducole terminavano, la vista della distesa ondeggiante delle terre arse dalle zolfare, accorava. Alido il cielo, alida la terra, da cui nel silenzio immobile, addormentato dal ronzio degli insetti, dal fritinnio di qualche grillo, dal canto lontano d’un gallo o dall’abbajare d’un cane, vaporava denso nell’abbagliamento meridiano l’odore di tante erbe appassite, del grassume delle stalle sparso.

             In tutte le case, anche nelle poche signorili, mancava l’acqua; nei vasti cortili, come in capo alle vie, c’erano vecchie cisterne alla mercé del cielo; ma anche d’inverno pioveva poco; quando pioveva era una festa: tutte le donne mettevan fuori conche e buglioli, vaschette e botticine, e stavano poi su gli usci con le vesti di baracane raccolte tra le gambe a vedere l’acqua piovana scorrere a torrenti per i ripidi viottoli, a sentirla gorgogliare nelle grondaje e per entro ai doccioni e ai cannoni delle cisterne. Si lavavano i ciottoli, si lavavano i muri delle case, e tutto pareva respirasse più lieve nella freschezza fragrante della terra bagnata.

             Gli uomini, tanto o quanto, trovavano nella varia vicenda degli affari, nella lotta dei partiti comunali, nel Caffè o nel Casino di compagnia, la sera, da distrarsi in qualche modo; ma le donne, in cui fin dall’infanzia s’era costretto a isterilire ogni istinto di vanità, sposate senz’amore, dopo avere atteso come serve alle faccende domestiche sempre le stesse, languivano miseramente con un bambino in grembo o col rosario in mano, in attesa che l’uomo, il padrone, rincasasse.

             Adriana Braggi non aveva amato affatto il marito.

             Debolissimo di complessione e in continuo orgasmo per la cagionevole salute, quel marito l’aveva oppressa e torturata quattr’anni, geloso fin anche del fratello maggiore, a cui sapeva d’aver fatto, sposando, un grave torto, anzi un vero tradimento. Ancora, là, di tutti i figli maschi d’ogni famiglia uno solo, il maggiore, doveva prendere moglie, perché le sostanze del casato non andassero sparpagliate tra molti eredi.

             Cesare Braggi, il fratello maggiore, non aveva mai dato a vedere d’essersi avuto a male di quel tradimento; forse perché il padre, morendo poco prima di quelle nozze, aveva disposto che il capo della famiglia rimanesse lui e che il secondogenito ammogliato gli dovesse obbedienza intera.

             Entrando nella casa antica dei Braggi, Adriana aveva provato una certa umiliazione nel sapersi così soggetta al cognato. La sua condizione era diventata doppiamente penosa e irritante, allorché il marito stesso, nella furia della gelosia, le aveva lasciato intendere che Cesare aveva già avuto in animo di sposar lei. Non aveva saputo più come contenersi di fronte al cognato; e tanto più il suo imbarazzo era cresciuto, quanto meno il cognato aveva fatto pesare la sua potestà su lei, accolta fin dal primo giorno con cordiale franchezza di simpatia e trattata come una vera sorella.

             Era di modi gentili, e nel parlare e nel vestire e in tutti i tratti d’una squisita signorilità naturale, che né il contatto della ruvida gente del paese, né le faccende a cui attendeva, né le abitudini di rilassata pigrizia, a cui quella vuota e misera vita di provincia induceva per tanti mesi dell’anno, avevano potuto mai, non che arrozzire, ma neppure alterare d’un poco.

             Ogni anno, del resto, per parecchi giorni, spesso anche per più d’un mese, s’allontanava dalla cittaduzza e dagli affari. Andava a Palermo, a Napoli, a Roma, a Firenze, a Milano, a tuffarsi nella vita, a prendere – com’egli diceva – un bagno di civiltà. Ritornava da quei viaggi ringiovanito nell’anima e nel corpo.

             Adriana, che non aveva mai dato un passo fuori del paese natale, nel vederlo rientrare così nella vasta casa antica, ove il tempo pareva stagnasse in un silenzio di morte, provava ogni volta un segreto turbamento indefinibile.

             Il cognato recava con sé l’aria d’un mondo, che lei non riusciva nemmeno a immaginare.

             E il turbamento le cresceva, udendo le stridule risate del marito, che di là ascoltava il racconto delle saporite avventure occorse al fratello; diventava sdegno, ribrezzo poi, la sera, allorché il marito, dopo quei racconti del fratello, veniva a trovarla in camera, acceso, sovreccitato, smanioso. Lo sdegno, il ribrezzo erano per il marito, e tanto più forti quanto più ella vedeva invece il cognato pieno di rispetto, anzi di riverenza per lei.

             Morto il marito, Adriana aveva provato un’angoscia piena di sgomento al pensiero di restar sola con lui in quella casa. Aveva, sì, i due piccini che in quei quattro anni le erano nati; ma, benché madre, non era riuscita a superare, di fronte al cognato, la sua nativa timidezza di fanciulla. Questa timidezza, veramente, non era stata mai in lei ritrosia; ma ora sì; e ne incolpava il marito geloso, che l’aveva oppressa con la più sospettosa e obliqua sorveglianza.

             Cesare Braggi, con squisita premura, aveva allora invitato la madre di lei a venirsene a stare con la figliuola vedova. E a poco a poco Adriana, liberata dall’esosa tirannia del marito, con la compagnia della madre, aveva potuto, se non acquistare al tutto la pace, tranquillare alquanto lo spirito. S’era dedicata con intero abbandono alla cura dei figliuoli, prodigando loro quell’amore e quelle tenerezze che non avevano potuto trovare uno sfogo nel matrimonio disgraziato.

             Ogni anno Cesare aveva seguitato a fare il suo viaggio d’un mese nel Continente, recando doni al ritorno così a lei, come alla nonna e ai nipotini, per i quali aveva sempre avuto le più delicate premure paterne.

             La casa, senza il presidio d’un uomo, faceva paura alle donne, segnatamente la notte. Nei giorni ch’egli era assente, pareva ad Adriana che il silenzio, divenuto più profondo, più cupo, tenesse come sospesa sulla casa una grande ignota sciagura; e con infinito sbigottimento udiva stridere la carrucola dell’antica cisterna in capo all’erta via solitaria, se un soffio di vento veniva a scuoterne la fune. Ma poteva egli, per riguardo a due donne e a due piccini che in fondo non gli appartenevano, privarsi di quell’unico svago dopo un anno di lavoro e di noja? Avrebbe potuto non curarsi né tanto né poco di loro, vivere per sé, libero, poiché il fratello gli aveva impedito di formarsi una famiglia sua; e invece – come non riconoscerlo? – tolte quelle brevi vacanze, era tutto dedito alla casa e ai nipotini orfani.

             Col tempo, s’era addormentato ogni rammarico nel cuore di Adriana. I figliuoli crescevano, e lei godeva che crescessero con la guida di quello zio. La sua dedizione era divenuta ormai totale, cosicché si maravigliava se il cognato o i figliuoli si opponevano a qualche cura soverchia che si dava di loro. Le pareva di non far mai abbastanza. E a che avrebbe dovuto pensare, se non a loro?

             Era stato per lei un gran dolore la morte della madre: era venuta a mancarle l’unica compagnia. Da un pezzo parlava con lei come una sorella; tuttavia, con la madre accanto, lei poteva pensarsi ancora giovane, qual’era difatti. Sparita la madre, con quei due figliuoli ormai giovinetti, uno di sedici, l’altro di quattordici anni, già alti quasi quanto lo zio, cominciò a sentirsi e a considerarsi vecchia.

             Era in quest’animo, allorché per la prima volta le avvenne di avvertire un vago malessere, una stanchezza, un’oppressione un po’ a una spalla, un po’ al petto; un certo dolor sordo che le prendeva talvolta anche tutto il braccio sinistro e che di tratto in tratto diventava lancinante e le toglieva il respiro.

             Non ne mosse lamento; e forse nessuno lo avrebbe mai saputo, se un giorno a tavola ella non avesse avuto l’assalto d’uno di quei fitti spasimi improvvisi.

             Fu chiamato il vecchio medico di casa, il quale fin da principio restò costernato dal ragguaglio di quei sintomi. La costernazione crebbe dopo un lungo e attento esame dell’inferma.

             Il male era alla pleura. Ma di che natura? Il vecchio medico, con l’ajuto d’un collega, tentò una puntura esplorativa, senza alcun esito. Poi, notando un certo indurimento nelle glandule sopra e sottoscapolari, consigliò al Braggi di condurre subito la cognata a Palermo, lasciando intendere chiaramente che temeva fosse un tumore interno, forse irrimediabile.

             Partire subito non fu possibile. Adriana, dopo tredici anni di clausura, era affatto sprovvista d’abiti per comparire in pubblico e per viaggiare. Bisognò scrivere a Palermo per provvederla con la massima sollecitudine.

             Cercò d’opporsi in tutti i modi, assicurando il cognato e i figliuoli che non si sentiva poi così male. Un viaggio? Solo a pensarci, le venivano i brividi. Era poi giusto il tempo che Cesare soleva prendersi le sue vacanze d’un mese. Partendo con lui, gli avrebbe tolto la libertà, ogni piacere. No, no, non voleva a nessun patto! E poi, come, a chi avrebbe lasciato i figliuoli? a chi affidare la casa? Metteva avanti tutte queste difficoltà; ma il cognato e i figliuoli gliele abbattevano con una risata. Si ostinava a dire che il viaggio le avrebbe fatto certo più male. Oh, buon Dio, se non sapeva più neppure come fossero fatte le strade! Non avrebbe saputo muovervi un passo! Per carità, per carità, la lasciassero in pace!

             Quando da Palermo arrivarono gli abiti e i cappelli, fu per i due figliuoli un tripudio.

             Entrarono esultanti con le grosse scatole avvolte nella tela cerata, in camera della madre, gridando, strepitando, ch’ella dovesse subito subito provarseli. Volevano veder bella la loro mammina, come non la avevano veduta mai. E tanto dissero, tanto fecero, che dovette arrendersi e contentarli.

             Erano abiti neri, da lutto anche quelli, ma ricchissimi e lavorati con meravigliosa maestria. Ormai ignara affatto di mode, inesperta, non sapeva da che parte prenderli per vestirsene. Dove e come agganciare i tanti uncinelli che trovava qua e là? Quel colletto, oh Dio, così alto? E quelle maniche, con tanti sbuffi… Usavano adesso così? Dietro l’uscio, intanto, tempestavano i figliuoli, impazienti:

             – Mamma, fatto? Ancora?

             Come se la mamma di là stesse ad abbigliarsi per una festa! Non pensavano più alla ragione per cui quegli abiti erano arrivati; non ci pensava più, veramente, nemmeno lei, in quel momento.

             Quando, tutta confusa, accaldata, levò gli occhi e si vide nello specchio dell’armadio, provò un’impressione violentissima, quasi di vergogna. Quell’abito, disegnandole con procacissima eleganza i fianchi e il seno, le dava la sveltezza e l’aria d’una fanciulla. Si sentiva già vecchia: si ritrovò d’un tratto in quello specchio, giovane, bella; un’altra!

             – Ma che! ma che! Impossibile! – gridò, storcendo il collo e levando una mano per sottrarsi a quella vista.

             I figliuoli, udendo l’esclamazione, cominciarono a picchiare più forte all’uscio con le mani, coi piedi, a sospingerlo, gridandole che aprisse, che si facesse vedere.

             Ma che! no! Si vergognava. Era una caricatura! No, no.

             Ma quelli minacciarono di buttar l’uscio a terra. Dovette aprire.

             Restarono anch’essi, i figliuoli, abbagliati dapprima da quella trasformazione improvvisa. La mamma cercava di schermirsi, ripetendo: – Ma no, lasciatemi! ma che! impossibile! siete matti? – quando sopravvenne il cognato. Oh, per pietà! Tentò di scappare, di nascondersi, come se egli l’avesse sorpresa nuda. Ma i figliuoli la tenevano; la mostrarono allo zio che rideva di quella vergogna.

             – Ma se ti sta proprio bene! – disse egli, alla fine, ritornando serio. – Su, lasciati vedere.

             Si provò ad alzare il capo.

             – Mi pare d’essere mascherata…

             – Ma no! Perché? Ti sta invece benissimo. Voltati un poco… così, di fianco… Obbedì, sforzandosi di parer calma; ma il seno, ben disegnato dall’abito, le si sollevava al frequente respiro che tradiva l’interna agitazione cagionata da quell’esame attento e tranquillo di lui, espertissimo conoscitore.

             –   Va proprio bene. E i cappelli?

             –   Certe ceste! – esclamò Adriana, quasi sgomenta.

             –   Eh sì, usano grandissimi.

             – Come farò a mettermeli in capo? bisognerà che mi pettini in qualche altro modo.

             Cesare tornò a guardarla, calmo, sorridente; disse:

             – Ma sì, hai tanti capelli…

             –    Sì, sì, brava mammina! Pettinati subito! – approvarono i figliuoli. Adriana sorrise mestamente.

             –    Vedete che mi fate fare? – disse, rivolgendosi anche al cognato. La partenza fu stabilita per la mattina appresso.

             Sola con lui!

             Lo seguiva in uno di quei viaggi, a cui un tempo pensava con tanto turbamento. E un solo timore aveva adesso: quello di apparire turbata a lui che le stava davanti, tutto intento a lei, ma tranquillo come sempre.

             Questa tranquillità di lui, naturalissima, avrebbe fatto stimare a lei indegno il suo turbamento e tale da doverne arrossire, ove ella, con una finzione quasi cosciente, appunto per non doverne aver vergogna e raffidarsi di se medesima, non gli avesse dato un’altra cagione: la novità stessa del viaggio, l’assalto di tante impressioni strane alla sua anima chiusa e schiva. E attribuiva lo sforzo che faceva su se stessa per dominare quel turbamento (il quale tuttavia, così interpretato, non avrebbe avuto nulla di riprovevole) alla convenienza di non darsi a vedere tanto nuova delle cose e maravigliata, di fronte a uno che, per esser da tanti anni esperto di tutto e padrone sempre di sé, avrebbe potuto provarne fastidio e dispiacere. Anche ridicola, infatti, avrebbe potuto apparire, alla sua età, per quella maraviglia quasi infantile che le ferveva negli occhi.

             Si costringeva pertanto a frenare l’ilare ansia febbrile dello sguardo e a non voltare continuamente il capo da un finestrino all’altro, come aveva la tentazione di fare per non perdere nulla delle tante cose, su cui i suoi occhi, così in fuga, si posavano un attimo per la prima volta. Si costringeva a nascondere la maraviglia, a dominare quella curiosità, che pure le avrebbe giovato tener desta e accesa, per vincere con essa lo stordimento e la vertigine che il rombar cadenzato delle ruote e quella fuga illusoria di siepi e d’alberi e di colli le cagionavano.

             Andava in treno per la prima volta. A ogni tratto, a ogni giro di ruota, aveva l’impressione di penetrare, d’avanzarsi in un mondo ignoto, che d’improvviso le si creava nello spirito con apparenze che, per quanto le fossero vicine, pur le sembravano come lontane e le davano, insieme col piacere della loro vista, anche un senso di pena sottilissima e indefinibile: la pena ch’esse fossero sempre esistite oltre e fuori dell’esistenza e anche dell’immaginazione di lei; la pena d’essere tra loro estranea e di passaggio, e ch’esse senza di lei avrebbero seguitato a vivere per sé con le loro proprie vicende.

             Ecco lì le umili case di un villaggio: tetti e finestre e porte e scale e strade: la gente che vi dimorava era, come per tanti anni era stata lei nella sua cittaduzza, chiusa lì in quel punto di terra, con le sue abitudini e le sue occupazioni: oltre a quello che gli occhi arrivavano a vedere, non esisteva più nulla per quella gente; il mondo era un sogno: tanti e tanti lì nascevano e lì crescevano e morivano, senza aver visto nulla di quel che ora andava a veder lei in quel suo viaggio, che era così poco a petto della grandezza del mondo, e che tuttavia a lei sembrava già tanto.

             Nel volgere gli occhi, incontrava a quando a quando lo sguardo e il sorriso del cognato, che le domandava:

             – Come ti senti?

             Gli rispondeva con un cenno del capo:

             – Bene.

             Più d’una volta il cognato venne a sederlesi accanto per mostrarle e nominarle un paese lontano, ov’era stato, e quel monte là dal profilo minaccioso, tutti gli aspetti di maggior rilievo che si figurava dovessero più vivamente richiamare l’attenzione di lei. Non intendeva che tutte le cose, anche le minime, quelle che per lui erano le più comuni, destavano intanto in lei un tumulto di sensazioni nuove; e che le indicazioni, le notizie ch’egli le dava, anziché accrescere, diminuivano e raffreddavano quella fervida, fluttuante immagine di grandezza, ch’ella, smarrita, con quel sentimento di pena indefinibile, si creava alla vista di tanto mondo ignoto.

             Nel tumulto interno delle sensazioni, inoltre, la voce di lui, anziché far luce, le cagionava quasi un arresto bujo e violento, pieno di fremiti pungenti; e allora quel sentimento di pena si faceva più acuto in lei, più distinto. Si vedeva meschina nella sua ignoranza; e avvertiva un oscuro e quasi ostile rincrescimento della vista di tutte quelle cose che ora, troppo tardi per lei, all’improvviso, le riempivano gli occhi e le entravano nell’anima.

             A Palermo, scendendo il giorno dopo dalla casa del clinico primario dopo la lunghissima visita, comprese bene dallo sforzo che faceva il cognato per nascondere la profonda costernazione, dalla premura affettata con cui ancora una volta aveva voluto farsi insegnare il modo di usare la medicina prescritta e dall’aria con cui il medico gli aveva risposto; comprese bene che questi aveva dato su lei sentenza di morte, e che quella mistura di veleni da prendere a gocce con molta precauzione, due volte al giorno prima dei pasti, non era altro che un inganno pietoso o il viatico di una lenta agonia.

             Eppure, appena, ancora un po’ stordita e disgustata dal diffuso odore dell’etere nella casa del medico, uscì dall’ombra della scala sulla via, nell’abbagliamento del sole al tramonto, sotto un cielo tutto di fiamma che dalla parte della marina lanciava come un immenso nembo sfolgorante sul Corso lunghissimo; e vide tra le vetture entro quel baglior d’oro il brulichio della folla rumorosa, dai volti e dagli abiti accesi da riflessi purpurei, i guizzi di luce, gli sprazzi colorati, quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi delle botteghe; la vita, la vita, la vita soltanto si sentì irrompere in subbuglio nell’anima per tutti i sensi commossi ed esaltati quasi per un’ebbrezza divina; né potè avere alcuna angustia, neppure un fuggevole pensiero per la morte prossima e inevitabile, per la morte ch’era pure già dentro di lei, appiattata là, sotto la scapola sinistra, dove più acute a tratti sentiva le punture. No, no, la vita, la vita! E quel subbuglio interno che le sconvolgeva lo spirito, le faceva impeto intanto alla gola, ove non sapeva che cosa, quasi un’antica pena sommossa dal fondo del suo essere le si era a un tratto ingorgata, ed ecco la forzava alle lagrime, pur fra tanta gioja.

             –    Niente… niente… – disse al cognato, con un sorriso che le s’illuminò vividissimo negli occhi attraverso le lagrime. – Mi par d’essere… non so… Andiamo, andiamo…

             –    All’albergo?

             –    No… no…

             –    Andiamo allora a cenare allo «Chalet» a mare, al Foro Italico; ti piace?

             –    Sì, dove vuoi.

             –    Benissimo. Andiamo! Poi vedremo il passeggio al Foro; sentiremo la musica…

             Montarono in vettura e andarono incontro a quel nembo sfolgorante, che accecava.

             Ah, che serata fu quella per lei, nello «Chalet» a mare, sotto la luna, alla vista di quel Foro illuminato, corso da un continuo fragore di vetture scintillanti, tra l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini! Smarrita come in un incanto sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi interamente, l’angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si sentiva lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno.

             L’impressione di questa lontananza infinita la riebbe più intensa la mattina seguente, percorrendo in vettura gli sterminati viali deserti del parco della Favorita, perché, a un certo punto, con un lunghissimo sospiro poté quasi rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur senza rompere l’incanto né turbare l’ebbrezza di quel sogno nel sole, tra quelle piante che parevano assorte anch’esse in un sogno senza fine.

             E, senza volerlo, si voltò a guardare il cognato, e gli sorrise, per gratitudine.

             Subito però quel sorriso le destò una viva e profonda tenerezza per sé condannata a morire, ora, ora che le si schiudevano davanti agli occhi stupiti tante bellezze maravigliose, una vita, quale anche per lei avrebbe potuto essere, qual era per tante creature che lì vivevano. E sentì che forse era stata una crudeltà farla viaggiare.

             Ma poco dopo, quando la vettura finalmente si fermò in fondo a un viale remoto, ed ella, sorretta da lui, ne scese per vedere da vicino la fontana d’Ercole; lì, davanti a quella fontana, sotto il cobalto del cielo così intenso che quasi pareva nero attorno alla fulgida statua marmorea del semidio su l’alta colonna sorgente in mezzo all’ampia conca, chinandosi a guardare l’acqua vitrea, su cui natava qualche foglia, qualche cuora verdastra che riflettevano l’ombra sul fondo; e poi, a ogni lieve ondulio di quell’acqua, vedendo vaporare come una nebbiolina sul volto impassibile delle sfingi che guardano la conca, quasi un’ombra di pensiero si sentì anche lei passare sul volto che come un alito fresco veniva da quell’acqua; e subito a quel soffio un gran silenzio di stupore le allargò smisuratamente lo spirito; e, come se un lume d’altri cieli le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì d’attingere in quel punto quasi l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella profondità dell’anima misteriosa, e d’aver vissuto, e che le poteva bastare, perché era stata in un attimo, in quell’attimo, eterna.

             Propose al cognato di ripartire quello stesso giorno. Voleva ritornarsene a casa, per lasciarlo libero, dopo quei quattro giorni sottratti alle sue vacanze. Un altro giorno egli avrebbe perduto per riaccompagnarla; poi poteva riprendere la via, la sua corsa annuale per paesi più lontani, oltre quell’infinito mare turchino. Senza timore poteva, che di sicuro lei non sarebbe morta così presto, in quel mese delle sue vacanze.

             Non gli disse tutto questo; lo pensò soltanto; e lo pregò che fosse contento di ricondurla al paese.

             –    Ma no, perché? – le rispose egli. – Ormai ci siamo; tu verrai con me a Napoli. Consulteremo là, per maggior sicurezza, qualche altro medico.

             –    No, no, per carità, Cesare! Lasciami ritornare a casa. E inutile!

             –    Perché? Nient’affatto. Sarà meglio. Per maggior sicurezza.

             –    Non basta quello che abbiamo saputo qua? Non ho nulla; mi sento bene, vedi? Farò la cura. Basterà.

             Egli la guardò serio e disse:

             – Adriana, desidero così.

             E allora ella non poté più replicare: vide in sé la donna del suo paese che non deve mai replicare a ciò che l’uomo stima giusto e conveniente; pensò che egli volesse per sé la soddisfazione di non essersi contentato d’un solo consulto, la soddisfazione che gli altri, là in paese, domani, alla morte di lei, potessero dire: «Egli fece di tutto per salvarla; la portò a Palermo, anche a Napoli…». O forse era in lui veramente la speranza che un altro medico di più lontano, più bravo, riconoscesse curabile il male, scoprisse un rimedio per salvarla? O forse… ma sì, questo era da credere piuttosto: sapendola irremissibilmente perduta, egli voleva, poiché si trovava in viaggio con lei, procurarle quell’ultimo e straordinario svago, come un tenue compenso alla crudeltà della sorte.

             Ma ella aveva orrore, ecco, orrore di tutto quel mare da attraversare. Solo a guardarlo, con questo pensiero, si sentiva mozzare il fiato, quasi avesse dovuto attraversarlo a nuoto.

             – Ma no, vedrai, – la rassicurò egli, sorridendo. – Non avvertirai neppure d’esserci, di questa stagione. Vedi com’è tranquillo? E poi vedrai il piroscafo… Non sentirai nulla.

             Poteva ella confessargli l’oscuro presentimento che la angosciava alla vista di quel mare, che cioè, se fosse partita, se si fosse staccata dalle sponde dell’isola che già le parevano tanto lontane dal suo paesello e così nuove; in cui già tanta agitazione, e così strana, aveva provato; se con lui si fosse avventurata ancor più lontano, con lui sperduta nella tremenda, misteriosa lontananza di quel mare, non sarebbe più ritornata alla sua casa, non avrebbe più rivalicato quelle acque, se non fosse morta? No, neanche a se stessa poteva confessarlo questo presentimento; e credeva anche lei a quell’orrore del mare, per il solo fatto che prima non lo aveva mai neppur veduto da lontano; e, doverci ora andar sopra…

             S’imbarcarono quella sera stessa per Napoli.

             Di nuovo, appena il piroscafo si mosse dalla rada e uscì dal porto, passato Io stordimento per il trambusto e il rimescolio di tanta gente che saliva e scendeva per il pontile, vociando, e lo stridore delle grue sulle stive; vedendo a grado a grado allontanarsi e rimpiccolirsi ogni cosa, la gente su lo scalo, che seguitava ad agitare in saluto i fazzoletti, la rada, le case, finché tutta la città non si confuse in una striscia bianca, vaporosa, qua e là trapunta da pallidi lumi sotto la chiostra ampia dei monti grigi rossigni; di nuovo si sentì smarrire nel sogno, in un altro sogno maraviglioso, che le faceva però sgranare gli occhi di sgomento, quanto più, su quel piroscafo, pur grande, sì, ma forse fragile se vibrava tutto così ai cupi tonfi cadenzati delle eliche, entrava nelle due immensità sterminate del mare e del cielo.

             Egli sorrise di quello sgomento e, invitandola ad alzarsi e passandole con una intimità che finora non s’era mai permessa un braccio sotto il braccio, per sorreggerla, la condusse a vedere di là, su la coperta stessa, i lucidi possenti stantuffi d’acciajo che movevano quelle eliche. Ma ella, già turbata di quel contatto insolito, non poté resistere a quella vista e più al fiato caldo, al tanfo crasso che vaporavano di là, e fu per mancare e reclinò e quasi appoggiò il capo sulla spalla di lui. Si contenne subito, quasi atterrita di quella voglia istintiva d’abbandono a cui stava per cedere.

             E di nuovo egli, con maggior premura, le chiese:

             – Ti senti male?

             Col capo, non trovando la voce, gli rispose di no. E andarono tutti e due, così a braccio, verso la poppa, a guardar la lunga scia fervida fosforescente sul mare già divenuto nero sotto il cielo polverato di stelle, in cui il tubo enorme della ciminiera esalava con continuo sbocco il fumo denso e lento, quasi arroventato dal calore della macchina. Finché, a compir l’incanto, non sorse dal mare la luna; dapprima tra i vapori dell’orizzonte come una lugubre maschera di fuoco che spuntasse minacciosa a spiare in un silenzio spaventevole quei suoi dominii d’acqua; poi a mano a mano schiarendosi, restringendosi precisa nel suo niveo fulgore che allargò il mare in un argenteo palpito senza fine. E allora più che mai Adriana sentì crescersi dentro l’angoscia e lo sgomento di quella delizia che la rapiva e la traeva irresistibilmente a nascondere, esausta, la faccia sul petto di lui.

             Fu a Napoli, in un attimo, nell’uscire da un caffè-concerto, ove avevano cenato e passato la sera. Solito egli, nei suoi viaggi annuali, a uscire di notte da quei ritrovi con una donna sotto il braccio, nel porgerlo ora a lei, colse all’improvviso sotto il gran cappello nero piumato il guizzo d’uno sguardo acceso, e subito, quasi senza volerlo, diede col braccio al braccio di lei una stretta rapida e forte contro il suo petto. Fu tutto. L’incendio divampò.

             Là, al bujo, nella vettura che li riconduceva all’albergo, allacciati, con la bocca su la bocca insaziabilmente, si dissero tutto, in pochi momenti, tutto quello che egli or ora, in un attimo, in un lampo, al guizzo di quello sguardo aveva indovinato: tutta la vita di lei in tanti anni di silenzio e di martirio. Ella gli disse come sempre, sempre, senza volerlo, senza saperlo, lo avesse amato; e lui quanto da giovinetta la aveva desiderata, nel sogno di farla sua, così, sua! sua!

             Fu un delirio, una frenesia, a cui diedero una violenta lena instancabile la brama di compensarsi in quei pochi giorni sotto la condanna mortale di lei, di tutti quegli anni perduti, di soffocato ardore e di nascosta febbre; il bisogno d’accecarsi, di perdersi, di non vedersi quali finora l’uno per l’altra erano stati per tanti anni, nelle composte apparenze oneste, laggiù, nella cittaduzza dai rigidi costumi, per cui quel loro amore, le loro nozze domani sarebbero apparse come un inaudito sacrilegio.

             Che nozze? No! Perché lo avrebbe costretto a quell’atto quasi sacrilego per tutti? perché lo avrebbe legato a sé che aveva ormai tanto poco da vivere? No, no: l’amore, quell’amore frenetico e travolgente, in quel viaggio di pochi giorni; viaggio d’amore, senza ritorno; viaggio d’amore verso la morte.

             Non poteva più ritornare laggiù, davanti ai figliuoli. Lo aveva ben presentito, partendo; lo sapeva che, passando il mare, sarebbe finita per lei. E ora, via, via, voleva andar via, più su, più lontano, così in braccio a lui, cieca, fino alla morte.

             E così passarono per Roma, poi per Firenze, poi per Milano, quasi senza veder nulla. La morte, annidata in lei, con le sue trafitture, li fustigava, e fomentava l’ardore.

             –    Niente! – diceva a ogni assalto, a ogni morso. – Niente. E porgeva la bocca, col pallore della morte sul volto.

             –    Adriana, tu soffri…

             –    No, niente! Che m’importa?

             L’ultimo giorno, a Milano, poco prima di partire per Venezia, si vide nello specchio, disfatta. E quando, dopo il viaggio notturno, le si aprì nel silenzio dell’alba la visione di sogno, superba e malinconica, della città emergente dalle acque, comprese che era giunta al suo destino; che lì il suo viaggio doveva aver fine.

             Volle tuttavia avere il suo giorno di Venezia. Fino alla sera, fino alla notte, per i canali silenziosi, in gondola. E tutta la notte rimase sveglia, con una strana impressione di quel giorno: un giorno di velluto.

             Il velluto della gondola? il velluto dell’ombra di certi canali? Chi sa! Il velluto della bara.

             Com’egli, la mattina seguente, scese dall’albergo per andare a impostare alcune lettere per la Sicilia, ella entrò nella camera di lui: scorse sul tavolino una busta lacerata; riconobbe i caratteri del maggiore dei suoi figliuoli: si portò quella busta alle labbra e la baciò disperatamente; poi entrò nella sua camera; trasse dalla borsa di cuojo la boccetta con la mistura dei veleni intatta; si buttò sul letto disfatto e la bevve d’un sorso.

Il viaggio – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Il viaggio – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Il viaggio – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Il viaggio – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri

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