Legge Valter Zanardi.
«Ammazzare il cane a un contadino siciliano? Ma si guardassero bene dal rifar la prova! Ammazzare il cane a un contadino siciliano voleva dire farsi ammazzare senza remissione. Che aveva da perdere colui?»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 13 marzo 1913, poi in Un cavallo nella luna, Treves Milano 1918.
La vendetta del cane
Legge Valter Zanardi
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Senza sapere né come né perché, Jaco Naca s’era trovato un bel giorno padrone di tutta la poggiata a solatio sotto la città, da cui si godeva la veduta magnifica dell’aperta campagna svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, lontano, dopo tanto verde, azzurro nella linea dell’orizzonte.
Un signore forestiere, con una gamba di legno che gli cigolava a ogni passo, gli s’era presentato, tre anni addietro, tutto in sudore, in un podere nella vallatella di Sant’Anna infetta dalla malaria, ov’egli stava in qualità di garzone, ingiallito dalle febbri, coi brividi per le ossa e le orecchie ronzanti dal chinino; e gli aveva annunziato che da minuziose ricerche negli archivi era venuto a sapere che quella poggiata lì, creduta finora senza padrone, apparteneva a lui: se gliene voleva vendere una parte, per certi suoi disegni ancora in aria, gliel’avrebbe pagata secondo la stima d’un perito.
Rocce erano, nient’altro; con, qua e là, qualche ciuffo d’erba, ma a cui neppure le pecore, passando, avrebbero dato una strappata.
Intristito dal veleno lento del male che gli aveva disfatto il fegato e consunto le carni, Jaco Naca quasi non aveva provato né meraviglia né piacere per quella sua ventura, e aveva ceduto a quello zoppo forestiere gran parte di quelle rocce per una manciata di soldi. Ma quando poi, in meno d’un anno, aveva veduto levarsi lassù due villini, uno più grazioso dell’altro, con terrazze di marmo e verande coperte di vetri colorati, come non s’erano mai viste da quelle parti: una vera galanteria! e ciascuno con un bel giardinetto fiorito e adorno di chioschi e di vasche dalla parte che guardava la città, e con orto e pergolato dalla parte che guardava la campagna e il mare; sentendo vantar da tutti, con ammirazione e con invidia, l’accorgimento di quel segnato lì, venuto chi sa da dove, che certo in pochi anni col fitto dei dodici quartierini ammobigliati in un luogo così ameno si sarebbe rifatto della spesa e costituito una bella rendita; s’era sentito gabbato e frodato: l’accidia cupa, di bestia malata, con cui per tanto tempo aveva sopportato miseria e malanni, gli s’era cangiata d’improvviso in un’acredine rabbiosa, per cui tra smanie violente e lagrime d’esasperazione, pestando i piedi, mordendosi le mani, strappandosi i capelli, s’era messo a gridar giustizia e vendetta contro quel ladro gabbamondo.
Purtroppo è vero che, a voler scansare un male, tante volte, si rischia d’intoppare in un male peggiore. Quello zoppo forestiere, per non aver più la molestia di quelle scomposte recriminazioni, sconsigliatamente s’era indotto a porger sottomano a Jaco Naca qualche giunta al prezzo della vendita: poco; ma Jaco Naca, naturalmente, aveva sospettato che quella giunta gli fosse porta così sottomano perché colui non si riteneva ben sicuro del suo diritto e volesse placarlo; gli avvocati non ci sono per nulla; era ricorso ai tribunali. E intanto che quei pochi quattrinucci della vendita se n’andavano in carta bollata tra rinvìi e appelli, s’era dato con rabbioso accanimento a coltivare il residuo della sua proprietà, il fondo del valloncello sotto quelle rocce, ove le piogge, scorrendo in grossi rigagnoli su lo scabro e ripido declivio della poggiata, avevano depositato un po’ di terra.
Lo avevano allora paragonato a un cane balordo che, dopo essersi lasciato strappar di bocca un bel cosciotto di montone, ora rabbiosamente si rompesse i denti su l’osso abbandonato da chi s’era goduta la polpa.
Un po’ d’ortaglia stenta, una ventina di non meno stenti frutici di mandorlo che parevano ancora sterpi tra i sassi, erano sorti laggiù nel valloncello angusto come una fossa, in quei due anni d’accanito lavoro; mentre lassù, aerei davanti allo spettacolo di tutta la campagna e del mare, i due leggiadri villini splendevano al sole, abitati da gente ricca, che Jaco Naca naturalmente s’immaginava anche felice. Felice, non foss’altro, del suo danno e della sua miseria.
E per far dispetto a questa gente e vendicarsi almeno così del forestiere, quando non aveva potuto più altro, aveva trascinato laggiù nella fossa un grosso cane da guardia; lo aveva legato a una corta catena confitta per terra, lasciato lì, giorno e notte, morto di fame, di sete e di freddo.
– Grida per me!
Di giorno, quand’egli stava attorno all’orto a zappettare, divorato dal rancore, con gli occhi truci nel terreo giallore della faccia, il cane per paura stava zitto. Steso per terra, col muso allungato su le due zampe davanti, al più, sollevava gli occhi e traeva qualche sospiro o un lungo sbadiglio mugolante, fino a slogarsi le mascelle, in attesa di qualche tozzo di pane ch’egli ogni tanto gli tirava come un sasso, divertendosi anche talvolta a vederlo smaniare, se il tozzo ruzzolava più là di quanto teneva la catena. Ma la sera, appena rimasta sola laggiù, e poi per tutta la nottata, la povera bestia si dava a guaire, a uggiolare, a sguagnolare, così forte e con tanta intensità di doglia e tali implorazioni d’ajuto e di pietà, che tutti gl’inquilini delle due ville si svegliavano e non potevano più riprender sonno.
Da un piano all’altro, dall’uno all’altro quartierino, nel silenzio della notte, si sentivano i borbottìi, gli sbuffi, le imprecazioni, le smanie di tutta quella gente svegliata nel meglio del sonno; i richiami e i pianti dei bimbi impauriti, il tonfo dei passi a piedi scalzi o lo strisciar delle ciabatte delle mamme accorrenti.
Era mai possibile seguitare così? E da ogni parte eran piovuti reclami al proprietario, il quale, dopo aver tentato più volte e sempre invano, con le buone e con le cattive, d’ottenere da quel tristo che finisse d’infliggere il martirio alla povera bestia, aveva dato il consiglio di rivolgere al municipio un’istanza firmata da tutti gl’inquilini.
Ma anche quell’istanza non aveva approdato a nulla. Correva, dai villini al posto ove il cane stava incatenato, la distanza voluta dai regolamenti: se poi, per la bassura di quel valloncello e per l’altezza dei due villini, i guaiti pareva giungessero da sotto le finestre, Jaco Naca non ci aveva colpa: egli non poteva insegnare al cane ad abbajare in un modo più grazioso per gli orecchi di quei signori; se il cane abbajava, faceva il suo mestiere; non era vero ch’egli non gli desse da mangiare; gliene dava quanto poteva; di levarlo di catena non era neanche da parlarne, perché, sciolto, il cane se ne sarebbe tornato a casa, e lui lì aveva da guardarsi quei suoi beneficii che gli costavano sudori di sangue. Quattro sterpi? Eh, non a tutti toccava la ventura d’arricchirsi in un batter d’occhio alle spalle d’un povero ignorante!
– Niente, dunque? Non c’era da far niente?
E una notte di quelle, che il cane s’era dato a mugolare alla gelida luna di gennajo più angosciosamente che mai, all’improvviso, una finestra s’era aperta con fracasso nel primo dei due villini, e due fucilate n’eran partite, con tremendo rimbombo, a breve intervallo. Tutto il silenzio della notte era come sobbalzato due volte con la campagna e il mare, sconvolgendo ogni cosa; e in quel generale sconvolgimento, urla, gridi disperati! Era il cane che aveva subito cangiato il mugolìo in un latrato furibondo, e tant’altri cani delle campagne vicine e lontane s’erano dati anch’essi a latrare a lungo, a lungo. Tra il frastuono, un’altra finestra s’era schiusa nel secondo villino, e una voce irata di donna e una vocetta squillante di bimba non meno irata, avevano gridato verso quell’altra finestra da cui erano partite le fucilate:
– Bella prodezza! Contro la povera bestia incatenata!
– Brutto cattivo!
– Se ha coraggio, contro il padrone dovrebbe tirare!
– Brutto cattivo!
– Non le basta che stia lì quella povera bestia a soffrire il freddo, la fame, la sete? Anche ammazzata? Che prodezza! Che cuore!
– Brutto cattivo!
E la finestra s’era richiusa con impeto d’indignazione.
Aperta era rimasta quell’altra, ove l’inquilino, che forse s’aspettava l’approvazione di tutti i vicini, ecco che, ancor vibrante della violenza commessa, si aveva in cambio la sferzata di quell’irosa e mordace protesta femminile. Ah sì? ah sì? E per più di mezz’ora, lì seminudo, al gelo della notte, come un pazzo, costui aveva imprecato non tanto alla maledettissima bestia che da un mese non lo lasciava dormire, quanto alla facile pietà di certe signore che, potendo a piacer loro dormire di giorno, possono perdere senza danno il sonno della notte, con la soddisfazione per giunta… eh già, con la soddisfazione di sperimentar la tenerezza del proprio cuore, compatendo le bestie che tolgono il riposo a chi si rompe l’anima a lavorare dalla mattina alla sera. E l’anima diceva, per non dire altra cosa.
I commenti, nei due villini, durarono a lungo quella notte; s’accesero in tutte le famiglie vivacissime discussioni tra chi dava ragione all’inquilino che aveva sparato, e chi alla signora che aveva preso le difese del cane.
Tutti erano d’accordo che quel cane era insopportabile; ma anche d’accordo ch’esso meritava compassione per il modo crudele con cui era trattato dal padrone. Se non che, la crudeltà di costui non era soltanto contro la bestia, era anche contro tutti coloro a cui, per via di essa, toglieva il riposo della notte. Crudeltà voluta; vendetta meditata e dichiarata. Ora, la compassione per la povera bestia faceva indubbiamente il giuoco di quel manigoldo; il quale, tenendola così a catena e morta di fame e di sete e di freddo, pareva sfidasse tutti, dicendo:
– Se avete coraggio, per giunta, ammazzatela!
Ebbene, bisognava ammazzarla, bisognava vincere la compassione e ammazzarla, per non darla vinta a quel manigoldo!
Ammazzarla? E non si sarebbe fatta allora scontare iniquamente alla povera bestia la colpa del padrone? Bella giustizia! Una crudeltà sopra la crudeltà, e doppiamente ingiusta, perché si riconosceva che la bestia non solo non aveva colpa ma anzi aveva ragione di lagnarsi così! La doppia crudeltà di quel tristaccio si sarebbe rivolta tutta contro la bestia, se anche quelli che non potevano dormire si mettevano contro di essa e la uccidevano! D’altra parte, però, se non c’era altro mezzo d’impedire che colui martoriasse tutti?
– Piano, piano, signori, – era sopravvenuto ad ammonire il proprietario dei due villini, la mattina dopo, con la sua gamba di legno cigolante. – Per amor di Dio, piano, signori!
Ammazzare il cane a un contadino siciliano? Ma si guardassero bene dal rifar la prova! Ammazzare il cane a un contadino siciliano voleva dire farsi ammazzare senza remissione. Che aveva da perdere colui? Bastava guardarlo in faccia per capire che, con la rabbia che aveva in corpo, non avrebbe esitato a commettere un delitto.
Poco dopo, infatti, Jaco Naca, con la faccia più gialla del solito e col fucile appeso alla spalla, s’era presentato davanti ai due villini e, rivolgendosi a tutte le finestre dell’uno e dell’altro, poiché non gli avevano saputo indicare da quale propriamente fossero partite le fucilate, aveva masticato la sua minaccia, sfidando che si facesse avanti chi aveva osato attentare al suo cane.
Tutte le finestre eran rimaste chiuse; soltanto quella dell’inquilina che aveva preso le difese del cane e ch’era la giovine vedova dell’intendente delle finanze, signora Crinelli, s’era aperta, e la bambina dalla voce squillante, la piccola Rorò, unica figlia della signora, s’era lanciata alla ringhiera col visino in fiamme e gli occhioni sfavillanti per gridare a colui il fatto suo, scotendo i folti ricci neri della tonda testolina ardita.
Jaco Naca, in prima, sentendo schiudere quella finestra, s’era tratto di furia il fucile dalla spalla; ma poi, vedendo comparire una bambina, era rimasto con un laido ghigno sulle labbra ad ascoltarne la fiera invettiva, e alla fine con acre mutria le aveva domandato:
– Chi ti manda, papà? Digli che venga fuori lui: tu sei piccina!
Da quel giorno, la violenza dei sentimenti in contrasto nell’animo di quella gente, da un canto arrabbiata per il sonno perduto, dall’altro indotta per la misera condizione di quel povero cane a una pietà subito respinta dall’irritazione fierissima verso quel villanzone che se ne faceva un’arma contro di loro, non solo turbò la delizia di abitare in quei due villini tanto ammirati, ma inasprì talmente le relazioni degli inquilini tra loro che, di dispetto in dispetto, presto si venne a una guerra dichiarata, specialmente tra quei due che per i primi avevano manifestato gli opposti sentimenti: la vedova Crinelli e l’ispettore scolastico cavalier Barsi, che aveva sparato.
Si malignava sotto sotto, che la nimicizia tra i due non era soltanto a causa del cane, e che il cavalier Barsi ispettore scolastico sarebbe stato felicissimo di perdere il sonno della notte, se la giovane vedova dell’intendente delle finanze avesse avuto per lui un pochino pochino della compassione che aveva per il cane. Si ricordava che il cavalier Barsi, nonostante la ripugnanza che la giovane vedova aveva sempre dimostrato per quella sua figura tozza e sguajata, per quei suoi modi appiccicaticci come l’unto delle sue pomate, s’era ostinato a corteggiarla, pur senza speranza, quasi per farle dispetto, quasi per il gusto di farsi mortificare e punzecchiare a sangue non solo dalla giovane vedova, ma anche dalla figlietta di lei, da quella piccola Rorò che guardava tutti con gli occhioni scontrosi, come se credesse di trovarsi in un mondo ordinato apposta per l’infelicità della sua bella mammina, la quale soffriva sempre di tutto e piangeva spesso, pareva di nulla, silenziosamente. Quanta invidia, quanta gelosia e quanto dispetto entravano nell’odio del cavalier Barsi ispettore scolastico per quel cane?
Ora, ogni notte, sentendo i mugolìi della povera bestia, mamma e figliuola, abbracciate strette strette nel letto come a resistere insieme allo strazio di quei lunghi lagni, stavano nell’aspettativa piena di terrore, che la finestra del villino accanto si schiudesse e che, con la complicità delle tenebre, altre fucilate ne partissero.
– Mamma, oh mamma, – gemeva la bimba tutta tremante, – ora gli spara! Senti come grida? Ora lo ammazza!
– Ma no, sta’ tranquilla, – cercava di confortarla la mammina, – sta’ tranquilla, cara, che non lo ammazzerà! Ha tanta paura del villano! Non hai visto che non ha osato d’affacciarsi alla finestra? Se egli ammazza il cane, il villano ammazzerà lui. Sta’ tranquilla!
Ma Rorò non riusciva a tranquillarsi. Già da un pezzo, della sofferenza di quella bestia pareva si fosse fatta una fissazione. Stava tutto il giorno a guardarla dalla finestra giù nel valloncello, e si struggeva di pietà per essa. Avrebbe voluto scendere laggiù a confortarla, a carezzarla, a recarle da mangiare e da bere; e più volte, nei giorni che il villano non c’era, lo aveva chiesto in grazia alla mamma. Ma questa, per paura che quel tristo sopravvenisse, o per timore che la piccina scivolasse giù per il declivio roccioso, non gliel’aveva mai concesso.
Glielo concesse alla fine, per far dispetto al Barsi, dopo l’attentato di quella notte. Sul tramonto, quando vide andar via con la zappa in collo Jaco Naca, pose in mano a Rorò per le quattro cocche un tovagliolo pieno di tozzi di pane e con gli avanzi del desinare, e le raccomandò di star bene attenta a non mettere in fallo i piedini, scendendo per la poggiata. Ella si sarebbe affacciata alla finestra a sorvegliarla.
S’affacciarono con lei tanti e tant’altri inquilini ad ammirare la coraggiosa Rorò che scendeva in quel triste fossato a soccorrere la bestia. S’affacciò anche il Barsi alla sua, e seguì con gli occhi la bimba, crollando il capo e stropicciandosi le gote raschiose con una mano sulla bocca. Non era un’aperta sfida a lui tutta quella carità ostentata? Ebbene: egli la avrebbe raccolta, quella sfida. Aveva comperato la mattina una certa pasta avvelenata da buttare al cane, una di quelle notti, per liberarsene zitto zitto. Gliel’avrebbe buttata quella notte stessa. Intanto rimase lì a godersi fino all’ultimo lo spettacolo di quella carità e tutte le amorose esortazioni di quella mammina che gridava dalla finestra alla sua piccola di non accostarsi troppo alla bestia, che poteva morderla, non conoscendola.
Il cane abbajava, difatti, vedendo appressarsi la bimba e, trattenuto dalla catena, balzava in qua e in là, minacciosamente. Ma Rorò, col tovagliolo stretto per le quattro cocche nel pugno, andava innanzi sicura e fiduciosa che quello, or ora, certamente, avrebbe compreso la sua carità. Ecco, già al primo richiamo scodinzolava, pur seguitando ad abbajare; e ora, al primo tozzo di pane, non abbajava più. Oh poverino, poverino, con che voracità ingojava i tozzi uno dopo l’altro! Ma ora, ora veniva il meglio… E Rorò, senza la minima apprensione, stese con le due manine la carta coi resti del desinare sotto il muso del cane che, dopo aver mangiato e leccato a lungo la carta, guardò la bimba, dapprima quasi meravigliato, poi con affettuosa riconoscenza. Quante carezze non gli fece allora Rorò, a mano a mano sempre più rinfrancata e felice della sua confidenza corrisposta: quante parole di pietà non gli disse; arrivò finanche a baciarlo sul capo, provandosi ad abbracciarlo mentre di lassù la mamma, sorridendo e con le lagrime agli occhi, le gridava che tornasse su. Ma il cane ora avrebbe voluto ruzzare con la bimba: s’acquattava, poi springava smorfiosamente, senza badare agli strattoni della catena, e si storcignava tutto, guaendo, ma di gioja.
Non doveva pensare Rorò, quella notte, che il cane se ne stesse tranquillo perché lei gli aveva recato da mangiare e lo aveva confortato con le sue carezze? Una sola volta, per poco, a una cert’ora, s’intesero i suoi latrati; poi, più nulla. Certo il cane, sazio e contento, dormiva. Dormiva, e lasciava dormire.
– Mamma, – disse Rorò, felice del rimedio finalmente trovato. – Domattina, di nuovo, mamma, è vero?
– Sì, sì, – le rispose la mamma, non comprendendo bene, nel sonno.
E la mattina dopo, il primo pensiero di Rorò fu d’affacciarsi a vedere il cane che non s’era inteso tutta la notte.
Eccolo là: steso di fianco per terra, con le quattro zampe diritte, stirate, come dormiva bene! E nel valloncello non c’era nessuno: pareva ci fosse soltanto il gran silenzio che, per la prima volta, quella notte, non era stato turbato.
Insieme con Rorò e con la mammina, gli altri inquilini guardavano anch’essi stupiti quel silenzio di laggiù e quel cane che dormiva ancora, lì disteso, a quel modo. Era dunque vero che il pane, le carezze della bimba avevano fatto il miracolo di lasciar dormire tutti e anche la povera bestia?
Solo la finestra del Barsi restava chiusa.
E poiché il villano ancora non si vedeva laggiù, e forse per quel giorno, come spesso avveniva, non si sarebbe veduto, parecchi degli inquilini persuasero la signora Crinelli ad arrendersi al desiderio di Rorò di recare al cane – com’ella diceva – la colazione.
– Ma bada, piano, – la ammonì la mamma. – E poi su, senza indugiarti, eh? Seguitò a dirglielo dalla finestra, mentre la bimba scendeva con passetti lesti, ma cauti, tenendo la testina bassa e sorridendo tra sé per la festa che s’aspettava dal suo grosso amico che dormiva ancora.
Giù, sotto la roccia, tutto raggruppato come una belva in agguato, era intanto Jaco Naca, col fucile. La bimba, svoltando, se lo trovò di faccia, all’improvviso, vicinissimo; ebbe appena il tempo di guardarlo con gli occhi spaventati: rintronò la fucilata, e la bimba cadde riversa, tra gli urli della madre e degli altri inquilini, che videro con raccapriccio rotolare il corpicciuolo giù per il pendio, fin presso al cane rimasto là, inerte, con le quattro zampe stirate.
La vendetta del cane – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
La vendetta del cane – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
La vendetta del cane – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
La vendetta del cane – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri
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