Pensaci, Giacomino! – Audio lettura 4

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Legge Lorenzo Pieri
«Ridano, ridano pure di lui tutti i maligni! Che risate facili! che risate sciocche! Perché non capiscono… Perché non si mettono al suo posto… Avvertono soltanto il comico, anzi il grottesco, della sua situazione, senza saper penetrare nel suo sentimento!… Ebbene, che glie n’importa? Egli è felice.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 23 febbraio 1910, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.

Pensaci, Giacomino - Video
Salvo Randone, Pensaci, Giacomino!, 1986

Pensaci, Giacomino!

Legge Lorenzo Pieri

Da Spreaker.com

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             Da tre giorni il professore Agostino Toti non ha in casa quella pace, quel riso, a cui crede ormai di aver diritto.

             Ha circa settant’anni, e dir che sia un bel vecchio, non si potrebbe neanche dire: piccoletto, con la testa grossa, calva, senza collo, il torso sproporzionato su due gambettine da uccello… Sì, sì: il professor Toti lo sa bene, e non si fa la minima illusione, perciò, che Maddalena, la bella mogliettina, che non ha ancora ventisei anni, lo possa amare per se stesso.

             È vero che egli se l’è presa povera e l’ha inalzata: figliuola del bidello del liceo, è diventata moglie d’un professore ordinario di scienze naturali, tra pochi mesi con diritto al massimo della pensione; non solo, ma ricco anche da due anni per una fortuna impensata, per una vera manna dal cielo: una eredità di quasi duecentomila lire, da parte d’un fratello spatriato da tanto tempo in Rumenia e morto celibe colà.

             Non per tutto questo però il professor Toti crede d’aver diritto alla pace e al riso. Egli è filosofo: sa che tutto questo non può bastare a una moglie giovine e bella.

             Se l’eredità fosse venuta prima del matrimonio, egli magari avrebbe potuto pretendere da Maddalenina un po’ di pazienza, che aspettasse cioè la morte di lui non lontana per rifarsi del sacrifizio d’aver sposato un vecchio. Ma son venute troppo tardi, ahimè! quelle duecentomila lire, due anni dopo il matrimonio, quando già… quando già il professor Toti filosoficamente aveva riconosciuto, che non poteva bastare a compensare il sacrifizio della moglie la sola pensioncina ch’egli le avrebbe un giorno lasciata.

             Avendo già concesso tutto prima, il professor Toti crede d’aver più che mai ragione di pretendere la pace e il riso ora, con l’aggiunta di quell’eredità vistosa. Tanto più, poi, in quanto egli – uomo saggio veramente e dabbene – non si è contentato di beneficar la moglie, ma ha voluto anche beneficare… sì, lui, il suo buon Giacomino, già tra i più valenti alunni suoi al liceo, giovane timido, onesto, garbatissimo, biondo, bello e ricciuto come un angelo.

             Ma sì, ma sì – ha fatto tutto, ha pensato a tutto il vecchio professore Agostino Toti. Giacomino Delisi era sfaccendato, e l’ozio lo addolorava e lo avviliva; ebbene, lui, il professor Toti, gli ha trovato posto nella Banca Agricola, dove ha collocato le duecentomila lire dell’eredità.

             C’è anche un bambino, ora, per casa, un angioletto di due anni e mezzo, a cui egli si è dedicato tutto, come uno schiavo innamorato. Ogni giorno, non gli par l’ora che finiscano le lezioni al liceo per correre a casa, a soddisfare tutti i capriccetti del suo piccolo tiranno. Veramente, dopo l’eredità, egli avrebbe potuto mettersi a riposo, rinunziando a quel massimo della pensione, per consacrare tutto il suo tempo al bambino. Ma no! Sarebbe stato un peccato! Dacché c’è, egli vuol portare fino all’ultimo quella sua croce, che gli è stata sempre tanto gravosa! Se ha preso moglie proprio per questo, proprio perché recasse un beneficio a qualcuno ciò che per lui è stato un tormento tutta la vita!

             Sposando con quest’unico intento, di beneficare una povera giovine, egli ha amato la moglie quasi paternamente soltanto. E più che mai paternamente s’è messo ad amarla, da che è nato quel bambino, da cui quasi quasi gli piacerebbe più d’esser chiamato nonno, che papà. Questa bugia incosciente sui puri labbruzzi del bambino ignaro gli fa pena; gli pare che anche il suo amore per lui ne resti offeso. Ma come si fa? Bisogna pure che si prenda con un bacio quell’appellativo dalla boccuccia di Nini, quel «papà» che fa ridere tutti i maligni, i quali non sanno capire la tenerezza sua per quell’innocente, la sua felicità per il bene che ha fatto e che seguita a fare a una donna, a un buon giovinetto, al piccino, e anche a sé – sicuro! – anche a sé – la felicità di vivere quegli ultimi anni in lieta e dolce compagnia, camminando per la fossa così, con un angioletto per mano.

             Ridano, ridano pure di lui tutti i maligni! Che risate facili! che risate sciocche! Perché non capiscono… Perché non si mettono al suo posto… Avvertono soltanto il comico, anzi il grottesco, della sua situazione, senza saper penetrare nel suo sentimento!… Ebbene, che glie n’importa? Egli è felice.

             Se non che, da tre giorni…

             Che sarà accaduto? La moglie ha gli occhi gonfii e rossi di pianto; accusa un forte mal di capo; non vuole uscir di camera.

             – Eh, gioventù!… gioventù!… – sospira il professor Toti, scrollando il capo con un risolino mesto e arguto negli occhi e sulle labbra. – Qualche nuvola… qualche temporaletto…

             E con Nini s’aggira per casa, afflitto, inquieto, anche un po’ irritato, perché… via, proprio non si merita questo, lui, dalla moglie e da Giacomino. I giovani non contano i giorni: ne hanno tanti ancora innanzi a sé… Ma per un povero vecchio è grave perdita un giorno! E sono ormai tre, che la moglie lo lascia così per casa, come una mosca senza capo, e non lo delizia più con quelle ariette e canzoncine cantate con la vocetta limpida e fervida, e non gli prodiga più quelle cure, a cui egli è ormai avvezzo.

             Anche Nini è serio serio, come se capisca che la mamma non ha testa da badare a lui. Il professore se lo conduce da una stanza all’altra, e quasi non ha bisogno di chinarsi per dargli la mano, tant’è piccolino anche lui; lo porta innanzi al pianoforte, tocca qua e là qualche tasto, sbuffa, sbadiglia, poi siede, fa galoppare un po’ Nini su le ginocchia, poi torna ad alzarsi: si sente tra le spine. Cinque o sei volte ha tentato di forzar la mogliettina a parlare.

             – Male, eh? ti senti proprio male?

             Maddalenina seguita a non volergli dir nulla: piange; lo prega di accostar gli scuri del balcone e di portarsi Nini di là: vuole star sola e al bujo.

             – Il capo, eh?

             Poverina, le fa tanto male il capo… Eh, la lite dev’essere stata grossa davvero!

             Il professor Toti si reca in cucina e cerca d’abbordar la servetta, per avere qualche notizia da lei; ma fa larghi giri, perché sa che la servetta gli è nemica; sparla di lui, fuori, come tutti gli altri, e lo mette in berlina, brutta scema! Non riesce a saper nulla neanche da lei.

             E allora il professor Toti prende una risoluzione eroica: reca Nini dalla mamma e la prega che glielo vesta per benino.

             –    Perché? – domanda ella.

             –    Lo porto a spassino, – risponde lui. – Oggi è festa… Qua s’annoja, povero bimbo!

             La mamma non vorrebbe. Sa che la trista gente ride vedendo il vecchio professore col piccino per mano; sa che qualche malvagio insolente è arrivato finanche a dirgli: – Ma quanto gli somiglia, professore, il suo figliuolo!

             Il professor Toti però insiste.

             – No, a spassino, a spassino…

             E si reca col bimbo in casa di Giacomino Delisi. Questi abita insieme con una sorella nubile, che gli ha fatto da madre. Ignorando la ragione del beneficio, la signorina Agata era prima molto grata al professor Toti; ora invece – religiosissima com’è – lo tiene in conto d’un diavolo, né più né meno, perché ha indotto il suo Giacomino in peccato mortale.

             Il professor Toti deve aspettare un bel po’, col piccino, dietro la porta, dopo aver sonato. La signorina Agata è venuta a guardar dalla spia ed è scappata. Senza dubbio, è andata ad avvertire il fratello della visita, e ora tornerà a dire che Giacomino non è in casa.

             Eccola. Vestita di nero, cerea, con le occhiaje livide, stecchita, arcigna, appena aperta la porta, investe, tutta vibrante, il professore.

             – Ma come… scusi… viene a cercarlo pure in casa adesso?… E che vedo! anche col bambino? ha condotto anche il bambino?

             Il professor Toti non s’aspetta una simile accoglienza; resta intronato; guarda la signorina Agata, guarda il piccino, sorride, balbetta:

             –    Per… perché?… che è?… non posso… non… posso venire a…

             –    Non c’è! – s’affretta a rispondere quella, asciutta e dura. – Giacomino non c’è.

             –    Va bene, – dice, chinando il capo, il professor Toti. – Ma lei, signorina… mi scusi… Lei mi tratta in un modo che… non so! Io non credo d’aver fatto né a suo fratello, né a lei…

             –    Ecco, professore, – lo interrompe, un po’ rabbonita, la signorina Agata. – Noi, creda pure, le siamo… le siamo riconoscentissimi; ma anche lei dovrebbe comprendere…

             Il professor Toti socchiude gli occhi, torna a sorridere, alza una mano e poi si tocca parecchie volte con la punta delle dita il petto, per significarle che, quanto a comprendere, lasci fare a lui.

             –    Sono vecchio, signorina, – dice, – e comprendo… tante cose comprendo io! e guardi, prima di tutte, questa: che certe furie bisogna lasciarle svaporare, e che, quando nascono malintesi, la miglior cosa è chiarire… chiarire, signorina, chiarire francamente, senza sotterfugi, senza riscaldarsi… Non le pare?

             –    Certo, sì… – riconosce, almeno così in astratto, la signorina Agata.

             –    E dunque, – riprende il professor Toti, – mi lasci entrare e mi chiami Giacomino.

             –    Ma se non c’è!

             –    Vede? No. Non mi deve dire che non c’è. Giacomino è in casa, e lei me lo deve chiamare. Chiariremo tutto con calma… glielo dica: con calma! Io sono vecchio e comprendo tutto, perché sono stato anche giovane, signorina. Con calma, glielo dica. Mi lasci entrare.

             Introdotto nel modesto salotto, il professor Toti siede con Nini tra le gambe, rassegnato ad aspettare anche qua un bel pezzo, che la sorella persuada Giacomino.

             – No, qua, Nini… buono! – dice di tratto in tratto al bimbo, che vorrebbe andare a una mensoletta, dove luccicano certi gingilli di porcellana; e intanto si scapa a pensare che diamine può essere accaduto di così grave in casa sua, senza ch’egli se ne sia accorto per nulla. Maddalenina è così buona! Che male può ella aver fatto, da provocare un così aspro e forte risentimento, qua, anche nella sorella di Giacomino?

             Il professor Toti, che ha creduto finora a una bizza passeggera, comincia a impensierirsi e a costernarsi sul serio.

             Oh, ecco Giacomino finalmente! Dio, che viso alterato! che aria rabbuffata! Eh come? Ah, questo no! Scansa freddamente il bambino che gli è corso incontro gridando con le manine tese:

             – «Giamì! Giamì!».

             –    Giacomino! – esclama, ferito, con severità, il professor Toti.

             –    Che ha da dirmi, professore? – s’affretta a domandargli quello, schivando di guardarlo negli occhi.

             –    Io sto male… Ero a letto… Non sono in grado di parlare e neanche di sostener la vista d’alcuno…

             –    Ma il bambino?!

             –    Ecco, – dice Giacomino; e si china a baciare Nini.

             –    Ti senti male? – riprende il professor Toti, un po’ racconsolato da quel bacio. – Lo supponevo. E son venuto per questo. Il capo, eh? Siedi, siedi… Discorriamo. Qua, Nini… Senti che «Giamì» ha la bua? Sì, caro, la bua… qua, povero «Giamì»… Sta’ bonino; ora andiamo via. Volevo domandarti – soggiunge, rivolgendosi a Giacomino, – se il direttore della Banca Agricola ti ha detto qualche cosa.

             –    No, perché? – fa Giacomino, turbandosi ancor più.

             –    Perché jeri gli ho parlato di te, – risponde con un risolino misterioso il professor Toti. – Il tuo stipendio non è molto grasso, figliuol mio. E sai che una mia parolina…

             Giacomino si torce su la sedia, stringe le pugna fino ad affondarsi le unghie nel palmo delle mani.

             –    Professore, io la ringrazio, – dice, – ma mi faccia il favore, la carità, di non incomodarsi più per me, ecco!

             –    Ah sì? – risponde il professor Toti con quel risolino ancora su la bocca. – Bravo! Non abbiamo più bisogno di nessuno, eh? Ma se io volessi farlo per mio piacere? Caro mio, ma se non debbo più curarmi di te, di chi vuoi che mi curi io? Sono vecchio, Giacomino! E ai vecchi – badiamo, che non siano egoisti! – ai vecchi, che hanno tanto stentato, come me, a prendere uno stato, piace di vedere i giovani, come te meritevoli, farsi avanti nella vita per loro mezzo; e godono della loro allegria, delle loro speranze, del posto ch’essi prendono man mano nella società. Io poi per te… via, tu lo sai… ti considero come un figliuolo… Che cos’è? Piangi?

             Giacomino ha nascosto infatti il volto tra le mani e sussulta come per un impeto di pianto che vorrebbe frenare. Nini lo guarda sbigottito, poi, rivolgendosi al professore, dice:

             – «Giamì, bua»…

             Il professore si alza e fa per posare una mano su la spalla di Giacomino; ma questi balza in piedi, quasi ne provi ribrezzo, mostra il viso scontraffatto come per una fiera risoluzione improvvisa, e gli grida esasperatamente:

             – Non mi s’accosti! Professore, se ne vada, la scongiuro, se ne vada! Lei mi sta facendo soffrire una pena d’inferno! Io non merito codesto suo affetto e non lo voglio, non lo voglio… Per carità, se ne vada, si porti via il bambino e si scordi che io esisto!

             Il professor Toti resta sbalordito; domanda:

             –    Ma perché?

             –    Glielo dico subito! – risponde Giacomino. – Io sono fidanzato, professore! Ha capito? Sono fidanzato!

             Il professor Toti vacilla, come per una mazzata sul capo; alza le mani; balbetta:

             –    Tu? fi… fidanzato?

             –    Sissignore, – dice Giacomino. – E dunque, basta… basta per sempre! Capirà che non posso più… vederla qui…

             –    Mi cacci via? – domanda, quasi senza voce, il professor Toti.

             –    No! – s’affretta a rispondergli Giacomino, dolente. – Ma è bene che lei… che lei se ne vada, professore…

             Andarsene? Il professore casca a sedere su la seggiola. Le gambe gli si sono come stroncate sotto. Si prende la testa tra le mani e geme:

             –    Oh Dio! Ah che rovina! Dunque per questo? Oh povero me! Oh povero me! Ma quando? come? senza dirne nulla? con chi ti sei fidanzato?

             –    Qua, professore… da un pezzo… – dice Giacomino. – con una povera orfana, come me… amica di mia sorella…

             Il professor Toti lo guarda, inebetito, con gli occhi spenti, la bocca aperta, e non trova la voce per parlare.

             – E… e… e si lascia tutto… così… e… e non si pensa più a… a nulla… non si… non si tien più conto di nulla…

             Giacomino si sente rinfacciare con queste parole l’ingratitudine, e si ribella, fosco:

             –    Ma scusi! che mi voleva schiavo, lei?

             –    Io, schiavo? – prorompe, ora, con uno schianto nella voce, il professor Toti. – Io? E lo puoi dire? Io che ti ho fatto padrone della mia casa? Ah, questa, questa sì che è vera ingratitudine! E che forse t’ho beneficato per me? che ne ho avuto io, se non il dileggio di tutti gli sciocchi che non sanno capire il sentimento mio? Dunque non lo capisci, non lo hai capito neanche tu, il sentimento di questo povero vecchio, che sta per andarsene e che era tranquillo e contento di lasciar tutto a posto, una famigliuola bene avviata, in buone condizioni… felice? Io ho settant’anni; io domani me ne vado, Giacomino! Che ti sei levato di cervello, figliuolo mio! Io vi lascio tutto, qua… Che vai cercando? Non so ancora, non voglio saper chi sia la tua fidanzata; se l’hai scelta tu, sarà magari un’onesta giovine, perché tu sei buono…; ma pensa che… pensa che… non è possibile che tu abbia trovato di meglio, Giacomino, sotto tutti i riguardi… Non ti dico soltanto per l’agiatezza assicurata… Ma tu hai già la tua famigliuola, in cui non ci sono che io solo di più, ancora per poco… io che non conto per nulla… Che fastidio vi do io? Io sono come il padre… Io posso anche, se volete… per la vostra pace… Ma dimmi com’è stato? che è accaduto? come ti s’è voltata la testa, così tutt’a un tratto? Dimmelo! dimmelo…

             E il professor Toti s’accosta a Giacomino e vuol prendergli un braccio e scuoterglielo; ma quegli si restringe tutto in sé, quasi rabbrividendo, e si schermisce.

             –    Professore! – grida. – Ma come non capisce, come non s’accorge che tutta codesta sua bontà…

             –    Ebbene?

             –    Mi lasci stare! non mi faccia dire! Come non capisce che certe cose si possono far solo di nascosto, e non son più possibili alla luce, con lei che sa, con tutta la gente che ride?

             –    Ah, per la gente? – esclama il professore. – E tu…

             –    Mi lasci stare! – ripete Giacomino, al colmo dell’orgasmo, scotendo in aria le braccia. – Guardi! Ci sono tant’altri giovani che han bisogno d’ajuto, professore!

             Il Toti si sente ferire fin nell’anima da queste parole, che sono un’offesa atroce e ingiusta per sua moglie; impallidisce, allividisce, e tutto tremante dice:

             – Maddalenina è giovine, ma è onesta, perdio! e tu lo sai! Maddalenina ne può morire… perché è qui, è qui, il suo male, nel cuore… dove credi che sia? È qui, è qui, ingrato! Ah, la insulti, per giunta? E non ti vergogni? e non ne senti rimorso di fronte a me? Puoi dirmi questo in faccia? tu? Credi che ella possa passare, così, da uno all’altro, come niente? madre di questo piccino? Ma che dici? Come puoi parlar così?

             Giacomino lo guarda trasecolato, allibito.

             – Io? – dice. – Ma lei piuttosto, professore, scusi, lei, lei, come può parlare così? Ma dice sul serio?

             Il professor Toti si stringe ambo le mani su la bocca, strizza gli occhi, squassa il capo e rompe in un pianto disperato. Nini anche lui, allora, si mette a piangere. Il professore lo sente, corre a lui, lo abbraccia.

             – Ah, povero Nini mio… ah che sciagura, Nini mio, che rovina! E che sarà della tua mamma ora? e che sarà di te, Nini mio, con una mammina come la tua, inesperta, senza guida… Ah, che baratro!

             Solleva il capo, e, guardando tra le lagrime Giacomino:

             – Piango, – dice, – perché mio è il rimorso; io t’ho protetto, io t’ho accolto in casa, io le ho parlato sempre tanto bene di te, io… io le ho tolto ogni scrupolo d’amarti… e ora che ella ti amava sicura… madre di questo piccino… tu…

             S’interrompe e, fiero, risoluto, convulso:

             – Bada, Giacomino! – dice. – Io son capace di presentarmi con questo piccino per mano in casa della tua fidanzata!

             Giacomino, che suda freddo, pur su la brace ardente, nel sentirlo parlare e piangere così, a questa minaccia giunge le mani, gli si fa innanzi e scongiura:

             –    Professore, professore, ma lei vuol dunque proprio coprirsi di ridicolo?

             –    Di ridicolo? – grida il professore. – E che vuoi che me n’importi, quando vedo la rovina d’una povera donna, la rovina tua, la rovina d’una creatura innocente? Vieni, vieni, andiamo, su via, Nini, andiamo!

             Giacomino gli si para davanti:

             –    Professore, lei non lo farà!

             –    Io lo farò! – gli grida con viso fermo il professor Toti. – E per impedirti il matrimonio son anche capace di farti cacciare dalla Banca! Ti do tre giorni di tempo.

             E, voltandosi su la soglia, col piccino per mano:

             – Pensaci, Giacomino! Pensaci!

Pensaci, Giacomino! – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Pensaci, Giacomino! – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Pensaci, Giacomino! – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
Pensaci, Giacomino! – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri

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