La corona – Audio lettura

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Legge Gaetano Marino
«Le amarezze, le costernazioni, i fastidii che gli venivano dalla sua professione di medico, gli s’erano quasi addormentati in fondo all’anima. Non così il rammarico d’aver compiuto da qualche mese quarant’anni.»

Prime pubblicazioni: L’Illustrazione italiana, 12 maggio 1907, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.

la corona audiolibro
Anonimo, Dressing the Grave with Flowers, Rock & Co. London no. 6 , maggio 1853

La corona

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Il dottor Cima si fermò all’entrata della villetta comunale, che sorgeva sul poggio all’uscita del paese; stette un pezzo a guardare il rustico cancello a una sola banda, sorretto da due pilastri non meno rustici, dietro ai quali si levavano tristi due cipressetti (tristi, quantunque attorno a loro ridessero in ghirlande qua e là, tra il cupo verde, alcune roselline rampicanti); guardò l’erto viale che dal cancello saliva al poggio, alla cui vetta stava tra gli alberi un chiosco che voleva sembrare una pagoda; e aspettò che il desiderio di farsi una giratina per sollievo in quella vecchia villetta quasi abbandonata riuscisse a vincere in lui la rilassatezza delle membra, che il tepore inebriante del primo sole gli aveva cagionato.

             Il fresco d’ombra di quella poggiata a bacìo era saturo di fragranze selvatiche: amare, di prugnole; dense e acute, di mentastri e di salvie. Veniva dagli alberi, come un invito, il cinguettio continuo degli uccellini festanti per il ritorno della dolce primavera. E il dottor Francesco Cima si mise a salire a lenti passi alla villetta, respirando con voluttà quell’aria satura di fragranze, rapito, stordito, quasi vaneggiante in una ebbrezza deliziosa.

             La vista di quelle piante rinverdite, che si beavano smemorate nel sole, lo svolare delle farfalle bianche su i fiori dell’ajuole, davano ai pensieri del dottore, che non potevano esser lieti, un contorno quasi vaporoso, di sogno.

             Com’era bella quella villetta quieta, in cui nessuno veniva a passeggiare!

             – Se fosse mia…

             Ecco: il desiderio, non potendo la mano rapace, allungava un sospiro. E chi sa quanti e quanti non venivano lì a passeggiare appunto per questo, per non sospirare come lui adesso: Se fosse mia!

             Perché è destino delle cose che sono di tutti di non essere poi propriamente di nessuno.

             A ogni passo un palo e una tabella: «Proibito di entrare nelle ajuole»; «Proibito di danneggiare le piante»; «Proibito di cogliere i fiori».

             Si era insomma padroni soltanto di guardare, passando. Ora la proprietà vuol dire «io», non vuol dire «noi». E lì dentro uno solo poteva dir «io»: il giardiniere, che era dunque il padrone vero, e per giunta pagato per esserlo, e vi aveva casa e stato e vendeva per conto suo i fiori, ch’eran di tutti e di nessuno.

             Un trillo, fra tanti, più acuto, ridestò chiara a un tratto nel dottore la memoria d’una villeggiatura lontana, in una vecchia cascina perduta tra gli alberi dell’aperta campagna, lieta della vicinanza del mare. Ah! era ragazzo allora: un ragazzaccio che aveva la passione della caccia. Quanti poveri uccellini aveva uccisi!

             Le amarezze, le costernazioni, i fastidii che gli venivano dalla sua professione di medico, gli s’erano quasi addormentati in fondo all’anima. Non così il rammarico d’aver compiuto da qualche mese quarant’anni. Il più bel tempo della vita era già finito per lui, e purtroppo senza ch’egli potesse dire d’aver goduto mai veramente della giovinezza. E c’era forse da godere nella vita! Oh, sì, poteva, poteva esser bella la vita; poteva una mattinata serena come quella compensare di tante afflizioni e di tante noje.

             Il dottore si fermò, a un pensiero sortogli improvviso: quello di tornare indietro, di correre a casa a prendere la giovane moglie (era sposo da sette mesi), per far godere anche a lei l’incanto di quella passeggiata. Rimase un tratto perplesso, poi riprese ad andare lentamente per il viale.

             No. Quell’incanto era per lui solo. Sarebbe stato anche per la moglie, forse, se lei fosse venuta senza il suo invito, a passeggiare da sola. Insieme, l’incanto sarebbe svanito, per tutt’e due. Ecco, era già svanito anche per lui, solamente a pensarci. L’amaro di quella sottile malinconia, dianzi avvertito appena, gli saliva ora alla gola.

             Non che avesse da ridire minimamente su la moglie. Tanto buona, poverina! Ma aveva circa diciotto anni meno di lui; appena ventidue; ed egli, già coi capelli grigi su le tempie e la barba brizzolata.

             Sette mesi addietro, sposando, aveva sperato che la stima affettuosa, dimostratagli durante il breve fidanzamento, avrebbe potuto cangiarsi presto in amore, facilmente. Bastava ch’ella si accorgesse appena che, nonostante quella canizie su le tempie, egli la amava come un fanciullo. Non aveva amato mai, prima di lei, alcun’altra donna.

             Sogni! L’amore, il vero amore (egli lo sentiva bene) in sua moglie non era ancor nato, non sarebbe forse mai nato. Gli sorrideva, gli dimostrava in tanti modi di volergli bene, ma così, come per dovere.

             Ora, non sarebbe stato forse tanto aspro per lui il cordoglio, se un certo puntiglio non glie l’avesse segretamente esacerbato, impedendogli di fare anche su la sua giovane compagna quelle riflessioni un po’ amare ma piene di bonaria indulgenza, con le quali era pur solito di scusare e compatire tant’altre cose nella vita.

             Da ragazza, sua moglie, s’era innamorata, col fervore dei diciott’anni, d’un giovanetto, studente di liceo, morto di tifo. Lo sapeva, perché era stato chiamato come medico, allora, proprio lui al letto di quel giovane. E sapeva ch’ella era stata lì lì per impazzire dal dolore; che s’era chiusa in una camera, al bujo, per molte settimane, senza voler vedere nessuno; che non era più uscita di casa; che avrebbe voluto farsi monaca. Uh, se n’erano dette tante, in paese! L’intera cittadinanza s’era commossa al caso crudele di quell’amore di due giovani spezzato dalla morte, perché egli, il povero morto, era nelle grazie di tutti per la vivacità dell’ingegno, per le gentili fattezze, per i modi gioviali e garbati; e lei, lei che lo piangeva disperatamente, era ritenuta con ragione una delle più belle ragazze del paese.

             Quando, dopo circa un anno, forzata dai parenti, s’era presentata in qualche radunanza, la sua vista, il suo contegno, l’aria mesta del volto, i mesti sorrisi avevano destato in tutti, e specialmente nei giovani, una fervida ammirazione, una vivissima tenerezza. Essere amato da lei, scuoterla da quel fascino doloroso, richiamarla alla vita, all’amore, alla giovinezza, era diventato il sogno, l’ambizione d’ogni giovanotto.

             Ma lei si era ostinata in quel suo lutto. Ostentazione, no; ma, a poco a poco, qualcuno aveva cominciato a susurrare malignamente che ella, pur così umile e modesta, doveva provare un certo compiacimento del proprio cordoglio, essendosi accorta ch’esso la rendeva a tutti più cara, più ammirevole. Forse chi diceva così, parlava per dispetto o per gelosia. La prova ch’ella non intendeva, con quelle gramaglie, d’essere maggiormente desiderata, era nel fatto che in pochi mesi aveva rifiutato quattro o cinque profferte di matrimonio, serie profferte dei migliori giovani del paese.

             Erano passati quasi due anni dalla sciagura, e nessuno più ormai, dopo quei rifiuti così recisi, s’attentava a chiederla in isposa, quando s’era fatto avanti lui, il dottor Cima, quantunque sconsigliato dagli amici; e – sissignori – era stato accolto, lui, subito.

             Passata la prima sorpresa però, tutti s’erano spiegata la ragione di quella vittoria. Ella aveva detto di sì, perché il dottore non era più giovane, e nessuno dunque avrebbe potuto supporre ch’ella lo sposasse per amore, per vero amore: aveva detto di sì, perché egli stesso non avrebbe certamente preteso d’essere amato come un giovanotto, e si sarebbe contentato di quell’affetto quieto e tepido, fatto di stima, di gratitudine e di devozione.

             Che così fosse veramente, non aveva tardato a comprenderlo anche lui. Ne aveva tanto sofferto; ne soffriva tanto tuttora; doveva fare più volte al giorno sforzi violenti su se stesso, ora per frenare uno scatto, ora per non tradire il rammarico acerbo. Era una vera tortura sentirsi tuttavia giovane nel cuore, e non poterlo dire, non poterlo dimostrare, per paura di perdere anche la stima e la gratitudine di lei, accordate solo a questo patto: reprimere ogni impulso di quell’amore che per lui era il primo e sarebbe stato l’ultimo.

             Mah! giovane ancora, anzi bambino, per una sola donna egli avrebbe potuto essere ormai: per la sua vecchia mamma, se non fosse morta da tre anni! Lei, sì, avrebbe sentito bene con lui l’incanto di quella mattinata deliziosa; e, senza pensarci due volte, egli sarebbe corso a prenderla a casa, la sua santa vecchierella, per farla ristorare al tepore di quel primo sole. L’avrebbe trovata certamente rannicchiata in un cantuccio, col rosario in mano, a pregare per tutti i malati ch’egli aveva in cura.

             Sorrise con dolce mestizia il dottor Cima a questa immagine, scrollando lievemente il capo, mentre saliva al vialetto più alto della villa sul poggio. Pregando per tutti i malati ch’egli aveva in cura, la sua santa vecchierella non dimostrava molta fiducia in lui e nella sua scienza. Glielo aveva domandato scherzosamente una volta, ed ella gli aveva subito risposto che non pregava per questo, ma perché Dio lo ajutasse a salvare i suoi malati.

             –    E dunque tu credi, che senza l’ajuto di Dio… Non lo aveva lasciato finire.

             –    Che dici? L’ajuto di Dio ci vuol sempre, figliuolo!

             E pregava, pregava da mane a sera; tanto che egli, quasi quasi, avrebbe desiderato di non aver molti clienti, per non stancare troppo le labbra di lei.

             Tornò a sorridere. Col ricordo della madre, i suoi pensieri avevano ripreso i contorni vaporosi del sogno; l’incanto gli s’era rifatto.

             Glielo ruppe improvvisamente il nuovo giardiniere, che si trovava lassù a sarchiare in un pratello.

             –    Oh, eccomi qua, signor dottore! M’ha cercato a lungo?

             –    Io no, veramente…

             –    E pronta, sa? bell’e pronta fin dalle otto.

             E, così dicendo, gli si fece avanti col berretto in mano e la fronte imperlata di sudore.

             –    Se vuol vederla, è qua, nella pagoda. Andiamo subito.

             –    Veder che cosa? – domandò il dottore, restando. – Io non so…

             –    Come, signor dottore! La corona.

             –    La corona?

             Il giardiniere lo guardò, restando anche lui, non meno stupito. * – Scusi, non ne abbiamo 12, oggi?

             –    Ebbene?

             –    Non mi ha mandato la serva l’altro jeri, a ordinarmi per oggi una corona?

             –    Io?… per il 12?… Ah, già… – disse allora il dottore, fingendo di ricordarsi. – Ho mandato… già… ho mandato la serva…

             –    Rose e violette, non si ricorda? – e il giardiniere tornò a sorridere della smemorataggine del signor dottore. – E pronta da stamani alle otto! Venga a vederla.

             Per fortuna si mosse avanti e così non poté notare l’alterazione improvvisa del volto del dottore, che lo seguì come un automa, con gli occhi attoniti, foschi, la bocca aperta, aperte le mani.

             Una corona? La moglie, di nascosto, aveva ordinato una corona? Sì, il giorno 12 appunto cadeva l’anniversario della morte di quel ragazzo. Ancora, dopo tre anni? Pur essendo adesso sua moglie? Gli mandava di nascosto una corona… Moglie già d’un altro! Lei, così timida; lei, così modesta, tanto ardire! Tanto dunque lo amava? tanto viva era ancora la memoria di lui nel suo cuore? E perché aveva sposato un altro, allora? Se il suo cuore era ancora di quello, e sempre di quello sarebbe stato? Perché? perché?

             Così tra sé farneticando, il dottore seguitava ad andar dietro al giardiniere. Voleva vederla, quella corona; sì, vederla per accertarsi bene, con gli occhi suoi, che sua moglie era capace di un tale inganno, d’un tal tradimento.

             Quando la vide, là nella pagoda, in un angolo, ritta su una tavola di ferro, appoggiata alla parete, gli parve che fosse per lui, e restò a mirarla a lungo.

             Il giardiniere, interpretando a suo modo quell’ammirazione:

             – Bella, eh? – domandò. – E tutte rose e violette – fresche, sa? colte all’alba. Pochine, cento lire, signor dottore! Sa che fatica metterle insieme a una a una tutte queste violette? E le rose? D’inverno, perché rare; quand’è stagione, perché le vogliono tutti… pochine cento lire! Me ne deve dare almeno altre venti.

             Il dottore si provò a parlare, ma sentì che gli mancava la voce; aprì le labbra a uno squallido sorriso, e si sforzò a dire:

             –    Io… pagartela, eh? Poche, cento lire… Rose e violette, già… cento venti? Eccole qua.

             –    Grazie, signor dottore, – s’affrettò a rispondere il giardiniere, prendendo il denaro. – Creda che le merita…

             –    Tienla qua, – troncò il dottore, rimettendo in tasca il portafogli. – Se viene la serva, non gliela dare. Verrò a prenderla io.

             E uscì dalla pagoda; scese per il viale; svoltò; appena si vide solo, nascosto, si fermò, strinse le pugna e contrasse tutto il volto in uno spasimo di riso:

             – Gliel’ho pagata io…

             Che doveva fare adesso? Prendere la moglie, senza farle male, e ricondurla alla casa del padre: ecco, sì, questo si meritava! E che andasse a piangere lontano quel suo ragazzo morto, senza rubar così l’amore d’un galantuomo, ch’ella aveva, se non altro, il dovere di rispettare. Né amore, né rispetto? Ah, ella aveva rifiutato i giovani e s’era preso uno, per lei vecchio, perché costui l’amore, via!, non si sarebbe neppur sognato dì pretenderlo, coi capelli già grigi, con la barba già brizzolata; ma avrebbe anche chiuso un occhio, e anche tutti e due, su la sua pena antica; non si sarebbe avuto a male di nulla, il vecchio! Però di soppiatto gliela mandava, la corona! Meno male! Eh già, moglie d’un altro, non aveva stimato conveniente andar lei, di persona. Per quanto vecchio il marito, via, sarebbe stato un po’ troppo! Aveva mandato la serva a ordinar la corona, in prova del costante amore; e la avrebbe fatta appendere dalla serva alla tomba di quel suo povero amore.

             Ah, com’era stata ingiusta veramente la morte di quel ragazzo! Se fosse vissuto, quel ragazzo, se avesse avuto il tempo di divenire uomo, di divenire esperto e istrutto anche lui di tutte le sagge perfidie della vita, e la avesse sposata lui, la sua cara fanciulla innamorata; si sarebbe accorta bene costei, che altro è fare all’amore dalla finestra, a diciott’anni, altro è vivere nella dura realtà quotidiana, quando già le prime fiamme si sono ammorzate e comincia il tedio dei giorni uguali, e la stanchezza, e nascono i primi dissapori, e il giovane marito comincia a esser sazio e stufo della moglie e pensa già di tradirla… Ah, come avrebbe desiderato ch’ella avesse potuto fare per qualche tempo, con quel ragazzo là, una siffatta esperienza! Allora sì, questo vecchio…

             Serrò più volte le pugna fino ad affondarsi le unghie nelle palme; poi si guardò le mani che gli tremolavano, e alla fine si riscosse traendo un lungo sospiro.

             L’impeto della prima impressione era caduto. Stette un pezzo a guardare innanzi a sé, vide poco discosto un sediletto e andò a sedervisi meccanicamente.

             Ebbene, e questo vecchio, – seguitò a pensare, – non intendeva forse di regolarsi anche lui come un ragazzaccio? fare una scenata? uno scandalo? Oh, allora tutti quelli che avevano indovinato così facilmente la ragione per cui egli era stato subito accolto: «Uno scandalo?» avrebbero esclamato. «Eh, via, in fin dei conti perché? Per una corona da morto… Certo ogni anno la poverina, per il giorno 12, aveva mandato una corona al camposanto. Il nuovo giardiniere non lo sapeva. Quell’anno, anche quell’anno ella naturalmente, se n’era ricordata… Naturalmente, sì, perché il povero dottore, via, non aveva potuto farglielo dimenticare. Se n’era ricordata, e non aveva saputo resistere alla tentazione. Certo, oh, certo aveva fatto male… Ma il sentimento non ragiona! Si trattava d’un morto, alla fin fine!».

             Così tutti avrebbero pensato.

             E allora che doveva far lui? Lasciar correre? fingere di non saper nulla? ritornar su, dal giardiniere, a dirgli che desse alla serva quella corona, trattenuta lì perché gli servisse da prova?

             Ah, no, questo no! Avrebbe dovuto anche farsi restituire il danaro pagato, raccomandare a colui di star zitto…

             E allora? andare a casa, a domandare inutili spiegazioni alla moglie? rinfacciarle il sotterfugio, l’inganno, e punirla?

             Come sarebbe stato meschino! Più meschino ancora che a far lo scandalo…

             Era grave, il fatto, ma per il suo cuore che n’era rimasto ferito; grave anche per il ridicolo che gliene sarebbe potuto venire, se il caso si fosse risaputo, perché provava il poco rispetto che sua moglie aveva per lui. Egli doveva vincere il proprio cuore, dirgli che aveva un bel sentirsi giovane, quando tutti lo credevano vecchio. Un giovanotto, sì, avrebbe potuto anche fare uno scandalo; lui, vecchio, no; doveva mostrarsi superiore, lui, e imporre altrimenti alla moglie il rispetto.

             Si alzò, con gran calma, ma con un senso d’indolenzimento in tutte le membra. Gli uccelletti della villa seguitavano a cinguettare, festanti. Dov’era più l’incanto di poco prima?

             Il dottore lasciò la villa e s’avviò per ritornare a casa. Quando giunse al portone, però, addio calma! Aveva un affanno da cavallo; e non sapeva come avrebbe fatto a salir la scala, con quelle gambe che gli tremavano. L’idea di riveder la moglie, adesso… Doveva esser più triste del solito, ella, in quel giorno… Ma forse avrebbe saputo dissimular bene la tristezza: era già abituata, rassegnata. Ed egli la amava, oh miseria! la amava tanto, tanto… e sentiva, in fondo, ch’ella meritava d’essere amata; sì, perché era buona anche, buona come appariva da quelle pure fattezze delicate, da quei profondi occhi neri, vellutati, nel pallor bruno del volto.

             Venne ad aprirgli la serva. La vista di costei lo sconcertò. Era a parte del segreto, quella vecchia, complice dell’inganno. Stava da tanti anni a servizio nella casa paterna della moglie, era affezionatissima a questa; e forse non avrebbe parlato; certo però non avrebbe saputo apprezzare né fors’anche comprendere ciò che egli aveva già divisato di fare. Sarebbe stata a ogni modo una testimonia volgare. Ed egli voleva che quanto stava per fare rimanesse segreto tra lui e la moglie.

             Entrò diviato alla camera di lei.

             La moglie era davanti la specchiera a pettinarsi. Di tra le braccia alzate sul capo, le scorse nello specchio il volto, incontrò lo sguardo di lei, che esprimeva sorpresa di vederlo in casa a quell’ora insolita.

             –    Sono ritornato, – disse, – per invitarti a uscire con me.

             –    Ora? – domandò lei, voltandosi, senz’abbassare le braccia che reggevano sul capo il volume dei bellissimi capelli neri, ancora sciolti; e gli sorrise languidamente.

             Egli si turbò quasi fino alle lagrime a quel pallido sorriso, come se vi avesse scorto una profonda pietà di lui, dell’amore che le portava, del dolore ch’ella ancora non indovinava, ma che tra poco avrebbe saputo.

             –    Sì, ora, – rispose. – E tanto bello, fuori… Sbrigati. Andremo alla villetta, anche più lontano, in campagna… Prenderemo una vettura…

             –    Perché? – domandò lei, quasi senza volerlo. – Giusto oggi?

             Egli temette, a questa domanda, che lo sguardo lo tradisse. Stentava già tanto a mantenere calma la voce.

             – Non ti andrebbe, oggi? – disse. – Ma ti farà bene, vedrai. Sbrigati, sbrigati. Voglio così.

             Si mosse per uscire dalla camera. Sulla soglia si voltò:

             – T’aspetto nello studio.

             Poco dopo, ella era pronta. Ah, per questo lo ubbidiva sempre, buona buona; faceva sempre ciò che egli voleva e com’egli voleva: soltanto sul cuore di lei, eh, lì no, egli non aveva alcun potere. Una timida opposizione aveva tentato appena: – Giusto oggi?  – ma pure, ecco, con tutta l’angoscia che in quel giorno doveva aver dentro, aveva ubbidito, era pronta ad andare a passeggio, in campagna, dove lui voleva.

             Uscirono; attraversarono per un tratto a piedi il paese, poi egli prese a nolo una vettura, e ordinò al vetturino di fermarsi davanti la villetta comunale. Qua, smontò lui solo, pregando la moglie d’attenderlo un poco.

             Quando, dopo circa un quarto d’ora, ella, già turbata e costernata, lo vide ridiscendere dalla villetta, seguito dal giardiniere che reggeva su le braccia la corona, fu per mancare. Ma egli la sostenne con lo sguardo.

             – Al camposanto! – ordinò al vetturino, rimontando subito in carrozza. Appena questa si mosse, ella ruppe in un pianto irrefrenabile, recandosi il

             fazzoletto su gli occhi e sulla bocca.

             – Non piangere, – diss’egli allora, piano. – Non ho voluto dirti nulla a casa; non vorrei dirti nulla neanche adesso. Ti prego, non piangere. L’ho saputo per caso. M’ero recato là alla villetta a passeggiare; e il giardiniere me l’ha detto, credendo che l’avessi ordinata io, questa corona. Non piangere, su! Andiamo a deporla insieme, vedi?

             Ella stette con gli occhi nascosti nel fazzoletto, finché la vettura non si fermò davanti al cancello del camposanto.

             Egli la ajutò a scendere, poi prese la corona ed entrò con lei nel recinto.

             – Sai, dov’è?

             Ella fe’ cenno di no, col capo.

             – Vieni! – diss’egli, incamminandosi per il primo viale a manca, e guardando a una a una tutte le tombe, che vi erano allineate.

             Era la penultima di quel viale. Egli allora si scoprì il capo, depose la corona su la pietra tombale, si ritrasse pian piano e, senza farsi scorgere da lei, s’allontanò, come per darle tempo di recitare una preghiera. Ma ella restò lì, muta, senza poter nemmeno staccare il fazzoletto dagli occhi. Non un pensiero, non una lagrima per il morto. Come smarrita, si voltò a un tratto a cercare il marito, lo chiamò, come finora non l’aveva mai chiamato; gli s’appese al braccio, convulsa:

             – Perdonami! Perdonami! Portami via!

La corona – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
La corona – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
La corona – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri

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