L’altro figlio – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Bruna e colorita, dagli occhi neri, sfavillanti, dalle labbra accese, da tutto il corpo solido e svelto, spirava un’allegra fierezza. Aveva sul petto colmo un gran fazzoletto di cotone rosso, a lune gialle, e grossi cerchi d’oro agli orecchi.»

Prime pubblicazioni: La lettura, febbraio 1905, poi in Erma bifronte, Treves, Milano 1906.

L altro figlio audiolibro
Margarita Lozano, Maragrazia episodio “L’altro figlio” dal film Kaos, 1984 di Paolo e Vittorio Taviani.

L’altro figlio

Voce di Giuseppe Tizza

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             –    C’è Ninfarosa?

             –    C’è. Bussate.

             La vecchia Maragrazia bussò, e poi si calò a sedere pian piano sul logoro scalino davanti la porta.

             Era la sua sedia naturale; quello, come tant’altri davanti le porte delle casupole di Farnia. Lì seduta, o dormiva o piangeva in silenzio. Qualcuno, passando, le buttava in grembo un soldo o un tozzo di pane; ella si scoteva appena dal sonno o dal pianto; baciava il soldo o il pane; si segnava, e riprendeva a piangere o a dormire.

             Pareva un mucchio di cenci. Cenci unti e grevi, sempre gli stessi, d’estate e d’inverno, strappati, sbrindellati, senza più colore e impregnati di sudor puzzolente e di tutto il sudicio delle strade. La faccia giallastra era un fitto reticelo di rughe, in cui le palpebre sanguinavano, rovesciate, bruciate dal continuo lacrimare; ma, tra quelle rughe e quel sangue e quelle lagrime, gli occhi chiari apparivano come lontani, quelli d’un’infanzia senza memorie. Ora, spesso, qualche mosca le si attaccava, vorace, a quegli occhi; ma ella era così sprofondata e assorta nella sua pena, che non l’avvertiva nemmeno; non la cacciava. I pochi capelli, aridi, spartiti sul capo, le terminavano in due nodicini pendenti su gli orecchi, i cui lobi erano strappati dal peso degli orecchini massicci a pendaglio portati in gioventù. Dal mento, giù giù fin sotto la gola, la floscia giogaja era divisa da un solco nero che le sprofondava nel petto cavo.

             Le vicine, messe a sedere su l’uscio, non le badavano più. Stavano quasi tutto il giorno lì, e chi rattoppava panni, chi sceglieva legumi, chi faceva la calza, e insomma, tutte occupate in qualche lavoro; conversavano davanti a quelle loro casupole basse, che prendevano luce dall’uscio; case e stalle insieme, dal pavimento acciottolato come la strada; e di qua la mangiatoja, dove qualche asinello o qualche mula scalpitavano, tormentati dalle mosche; di là, il tetto alto, monumentale; e poi una lunga cassapanca nera, d’abete o di faggio, che pareva una bara; e due o tre seggiole impagliate; la madia; e poi, attrezzi rurali. Su le pareti grezze, fuligginose, per unico ornamento, certe stampacce da un soldo, che volevano raffigurare i santi del paese. Per la strada intanfata di fumo e di stalla ruzzavano ragazzi cotti dal sole, alcuni ignudi nati, altri con la sola carnicina, a brendoli, sudicia; e le galline razzolavano, e grugnivano, soffiando col grifo tra la spazzatura, i porcellini cretacei.

             Quel giorno si parlava della nuova comitiva d’emigranti che la mattina dopo doveva partire per l’America.

             –    Parte Saro Scoma, – diceva una. – Lascia la moglie e tre figliuoli.

             –    Vito Scordìa, – soggiungeva un’altra, – ne lascia cinque e la moglie gravida.

             –    È vero che Carmine Ronca, – domandava una terza, – se lo porta con sé il figliuolo di dodici anni, che già andava alla zolfara? Oh Santa Maria, il ragazzo, almeno, avrebbe potuto lasciarglielo alla moglie. Come farà quella povera cristiana, ora, a darsi ajuto?

             –    Che pianto, che pianto, – gridava lamentosamente una quarta più là, – tutta la notte, in casa di Nunzia Ligreci! Il figlio Nico, tornato appena da soldato, vuol partire anche lui!

             Udendo queste notizie, la vecchia Maragrazia si turava la bocca con lo scialle per non scoppiare in singhiozzi. La foga del dolore le rompeva però dagli occhi sanguigni, in lagrime senza fine.

             Da quattordici anni erano partiti anche a lei per l’America due figliuoli; le avevano promesso di ritornare dopo quattro o cinque anni; ma avevano fatto fortuna laggiù, specialmente uno, il maggiore, e si erano dimenticati della vecchia mamma. Ogni qual volta una nuova comitiva d’emigranti partiva da Farnia, ella si recava da Ninfarosa, perché le scrivesse una lettera, che qualcuno dei partenti doveva per carità consegnare nelle mani dell’uno o dell’altro di quei figliuoli. Poi seguiva per un lungo tratto dello stradone polveroso la comitiva, che si recava, sovraccarica di sacchi e di fagotti, alla stazione ferroviaria della prossima città, fra le madri, le spose e le sorelle che piangevano e strillavano, disperate; e, camminando, guardava affitto affitto gli occhi di questo o di quel giovane emigrante che simulava una romorosa allegria per soffocare la commozione e stordire i parenti che lo accompagnavano.

             – Vecchia matta, – qualcuno le gridava. – O perché mi guardate così? Vorreste cavarmi gli occhi?

             – No, bello, te li invidio! – gli rispondeva la vecchia. – Perché tu li vedrai i miei figliuoli. Di’ loro come m’hai lasciata; che non mi ritroveranno più, se tardano ancora.

             Intanto là le comari del vicinato seguitavano a fare il conto di quelli che partivano il giorno appresso. A un tratto un vecchio dalla barba e dai capelli lanosi, che se n’era stato finora zitto ad ascoltare, steso a pancia all’aria e fumando a pipa in fondo alla straducola, rizzò il capo che teneva appoggiato a una bardella d’asino, e, posandosi le grosse mani rocciose sul petto:

             –    S’io fossi re, – disse, e sputò, – s’io fossi re, nemmeno una lettera farei più arrivare a Farnia da laggiù.

             –    Evviva Jaco Spina! – esclamò allora una delle vicine. – E come farebbero qua le povere mamme, le spose, senza notizie e senz’ajuto?

             –    Sì! Ne mandano assai! – brontolò il vecchio, e sputò di nuovo. – Le madri, a far le serve, e le spose vanno a male. Ma perché i guaj che trovano laggiù non li dicono, nelle loro lettere? Solo il bene dicono, e ogni lettera è per questi ragazzacci ignoranti come la chioccia: – pio pio pio – se li chiama e porta via tutti quanti! Dove son più le braccia per lavorare le nostre terre? A Farnia, ormai, siamo rimasti noi soli: vecchi, femmine e bambini. E ho la terra e me la vedo patire. Con un solo pajo di braccia che posso fare? E ne partono ancora, ne partono! Pioggia in faccia e vento alle spalle, dico io. Si rompano il collo, maledetti !

             A questo punto, Ninfarosa schiuse la porta, e parve spuntasse il sole in quella stradetta.

             Bruna e colorita, dagli occhi neri, sfavillanti, dalle labbra accese, da tutto il corpo solido e svelto, spirava un’allegra fierezza. Aveva sul petto colmo un gran fazzoletto di cotone rosso, a lune gialle, e grossi cerchi d’oro agli orecchi. I capelli corvini, lucidi, ondulati, volti indietro senza scriminatura le si annodavano voluminosamente sulla nuca attorno a uno spadino d’argento. Nel mento rotondo, una fossetta acuta nel mezzo le dava una grazia maliziosa e provocante.

             Vedova d’un primo marito, dopo appena due anni di matrimonio, era stata abbandonata dal secondo, partito per l’America cinque anni addietro. Di notte nessuno doveva saperlo – dalla porticina posta sul dietro della casa dov’era l’orto, qualcuno (un pezzo grosso del paese) veniva a visitarla. Perciò le vicine, oneste e timorate, la vedevano di mal’occhio, quantunque in segreto poi la invidiassero. Gliene volevano anche, perché in paese si diceva che, per vendicarsi dell’abbandono del secondo marito, aveva scritto parecchie lettere anonime agli emigrati in America, calunniando e infamando alcune povere donne.

             –    Chi predica così? – disse, scendendo su la via. – Ah, Jaco Spina! Meglio, zio Jaco, se restiamo a Farnia noi soli! Zapperemo noi donne la terra.

             –    Voi donne, – brontolò di nuovo il vecchio con voce catarrosa, – per una cosa sola siete buone.

             E sputò.

             –    Per che cosa, zio Jaco? Dite forte.

             –    Piangere e un’altra cosa.

             –    E dunque per due, allegramente! Io non piango però, vedete?

             –    Eh, lo so, figlia. Non piangesti neppure quando ti morì il primo marito!

             –    Ma se morivo prima io, zio Jaco, – ribatté pronta Ninfarosa, – non avrebbe forse ripreso moglie, lui? Dunque! Vedete chi piange qua per tutti? Maragrazia.

             –    Questo dipende, – sentenziò Jaco Spina, sdrajandosi di nuovo a pancia all’aria, – perché la vecchia ha acqua da buttar via, e la butta anche dagli occhi.

             Le vicine risero. Maragrazia si scosse ed esclamò:

             – Due figli ho perduto, belli come il sole, e volete che non pianga?

             –    Belli davvero, oh! E da piangerli, – disse Ninfarosa. – Nuotano nell’abbondanza, laggiù, e vi lasciano morire qua, mendica.

             –    Loro sono i figli e io sono la mamma, – replicò la vecchia. – Come possono capirla la mia pena?

             –    Ih! Io non so poi che tante lagrime e tanta pena, – riprese Ninfarosa, – quando voi stessa, a quel che dicono, li faceste scappar via per disperati.

             –    Io? – esclamò Maragrazia, dandosi un pugno sul petto e sorgendo in piedi, trasecolata. – Io? Chi l’ha detto?

             –    Chi si sia, l’ha detto.

             –    Infamità! Io? ai figli miei? io, che…

             –    Lasciatela perdere! – la interruppe una delle vicine. – Non vedete che scherza?

             Ninfarosa prolungò la risata, ondeggiando dispettosamente su le anche; poi, per rifar la vecchia della celia crudele, le domandò con voce affettuosa.

             – Su, su, nonnetta mia, che volete?

             Maragrazia si cacciò in seno la mano tremolante e ne trasse fuori un foglietto di carta tutto gualcito e una busta; mostrò l’uno e l’altra, con aria supplichevole, a Ninfarosa, e disse:

             –    Se vuoi farmi la solita carità…

             –    Ancora una lettera?

             –    Se vuoi…

             Ninfarosa sbuffò; ma poi, sapendo che non se la sarebbe levata d’addosso, la invitò a entrare.

             La sua casa non era come quelle del vicinato. La vasta camera, un po’ buja quando la porta era chiusa, perché prendeva luce allora soltanto da una finestra ferrata che s’apriva su la porta stessa, era imbiancata, ammattonata, pulita e ben messa, con una lettiera di ferro, un armadio, un cassettone dal piano di marmo, un tavolino impiallacciato di noce: mobilia modesta, ma di cui tuttavia si capiva che Ninfarosa non avrebbe potuto da sola pagarsi il lusso, coi suoi guadagni molto incerti di sarta rurale.

             Prese la penna e il calamajo, posò il foglietto gualcito sul piano del cassettone e si dispose a scrivere, lì in piedi.

             –    Dite su, sbrigatevi !

             –    Cari figli,  – cominciò a dettare la vecchia.

             –    Io non ho più occhi per piangere…  – seguitò Ninfarosa, con un sospiro di stanchezza.

             E la vecchia:

             –    Perché gli occhi miei sono abbruciati di vedervi almeno per l’ultima volta…

             –    Avanti, avanti! – la incitò Ninfarosa. – Questo gliel’avrete scritto, a dir poco, una trentina di volte.

             –    E tu scrivi. E la verità, cuore mio, non vedi? Dunque, scrivi: Cari figli…

             –    Daccapo?

             –    No. Adesso un’altra cosa. Ci ho pensato tutta stanotte. Senti: Cari figli, la povera vecchia mamma vostra vi promette e giura… così, vi promette e giura davanti a Dio che, se voi ritornate a Farnia, vi cederà in vita il suo casalino.

             Ninfarosa scoppiò a ridere:

             –    Pure il casalino? Ma che volete che se ne facciano, se già sono ricchi, di quei quattro muri di creta e canne che crollano a soffiarci su?

             –    E tu scrivi, – ripetè la vecchia, ostinata. – Valgono più quattro pietruzze in patria, che tutto un regno fuorivia. Scrivi, scrivi.

             –    Ho scritto. Che altro volete aggiungere?

             –    Ecco, questo: che la vostra povera mamma, cari figli, ora che l’inverno è alle porte, trema di freddo; vorrebbe farsi un vestitino e non può; che vogliate farle la carità di mandarle almeno una carta da cinque lire, per…

             –    Basta basta basta! – fece Ninfarosa, ripiegando il foglietto e cacciandolo dentro la busta. – Ho bell’e scritto. Basta.

             –    Anche per le cinque lire? – domandò, investita da quella furia inattesa, la vecchia.

             –    Tutto, anche per le cinque lire, gnorsì.

             –   Scritto bene… tutto? – Auff! Vi dico di sì!

             – Pazienza… abbi un po’ di pazienza con questa povera vecchia, figlia mia, – disse Maragrazia. – Che vuoi? Sono mezzo stolida, ora. Dio ti paghi la carità, e la Bella Madre Santissima.

             Prese la lettera e se la cacciò in seno. Aveva pensato d’affidarla al figlio di Nunzia Ligreci, che si recava a Rosario di Santa Fé, dov’erano i suoi figliuoli; e s’avviò per portargliela.

             Già le donne, sopravvenuta la sera, erano rientrate in casa e quasi tutte le porte si chiudevano. Per le straducole anguste non passava più un’anima. Il lampionajo andava in giro, con la scala in collo, per accendere i rari lampioncini a petrolio, che rendevano più triste col loro scarso lume piagnucoloso la vista malcerta e il silenzio di quelle viuzze abbandonate.

             La vecchia Maragrazia andava curva, premendosi con una mano sul seno la lettera da mandare ai figliuoli, come per comunicare a quel pezzo di carta il suo calore materno. Con l’altra, o si grattava a una spalla, o si grattava in testa. A ogni nuova lettera, le rinasceva prepotente la speranza, che con quella sarebbe alla fine riuscita a commuovere e a richiamare a sé i figliuoli. Certo, leggendo quelle sue parole, pregne di tutte le lagrime versate per loro in quattordici anni, i suoi figliuoli belli, i suoi dolci figliuoli non avrebbero più saputo resistere.

             Ma questa volta, veramente, non era molto soddisfatta della lettera che recava in seno. Le pareva che Ninfarosa l’avesse buttata giù troppo in fretta, e non era neanche ben sicura che ci avesse proprio messo l’ultima parte, delle cinque lire per il vestitino. Cinque lire! Che guasto avrebbero fatto ai suoi figliuoli, già ricchi, cinque lire, per vestire le carni della loro vecchia mamma infreddolita?

             Attraverso le porte chiuse delle casupole, le giungevano intanto le grida di qualche madre che piangeva la prossima partenza del figliuolo.

             – Oh figli ! figli ! – gemeva allora tra sé Maragrazia, premendosi più forte la lettera sul seno. – Con che cuore potete partire? Promettete di ritornare; poi non ritornate più… Ah, povere vecchie, non credete alle loro promesse! I vostri figliuoli, come i miei, non ritorneranno più… non ritorneranno più…

             A un tratto, si fermò sotto un lampioncino, sentendo romor di passi per la viuzza. Chi era?

             Ah, era il nuovo medico condotto, quel giovine venuto da poco, ma che presto – a quanto dicevano – sarebbe andato via, non perché avesse fatto cattiva prova, ma perché malvisto dai pochi signorotti del paese. Tutti i poveri, invece, avevano preso subito a volergli bene. Sembrava un ragazzo, a vederlo; eppure era proprio vecchio di senno, e dotto: faceva restar tutti a bocca aperta, quando parlava. Dicevano che anche lui voleva partire per l’America. Ma non aveva più la mamma, lui: era solo!

             – Signor dottore, – pregò^ Maragrazia, – vorrebbe farmi una carità?

             Il giovane dottore si fermò sotto il lampioncino, frastornato. Pensava, andando, e non s’era accorto della vecchia.

             – Chi siete? Ah, voi…

             Si ricordò d’aver veduto più volte quel mucchio di cenci davanti alle porte delle casupole.

             –    Vorrebbe farmi la carità, – ripetè Maragrazia, – di leggermi questa letterina che debbo mandare ai miei figliuoli?

             –    Se ci vedo… – disse il dottore, ch’era miope, rassettandosi sul naso le lenti.

             Maragrazia trasse dal seno la lettera; gliela porse e restò in attesa ch’egli cominciasse a leggerle le parole dettate a Ninfarosa: – Cari figli…  – Ma che! Il medico, o non ci vedeva, o non riusciva a decifrar la scrittura: accostava agli occhi il foglietto, lo allontanava per vederlo meglio al lume del lampioncino, lo rovesciava di qua, di là… Alla fine, disse:

             –    Ma che è?

             –    Non si legge? – domandò timidamente Maragrazia. Il dottore si mise a ridere.

             –    Ma qua non c’è scritto nulla, – disse. – Quattro sgorbii, tirati giù con la penna, a zig – zag. Guardate.

             –    Come! – esclamò la vecchia, restando.

             –    Ma sì, guardate. Nulla. Non c’è scritto proprio nulla.

             –    Possibile? – fece la vecchia – Ma come? Se gliel’ho dettata io, a Ninfarosa, parola per parola! E l’ho vista che scriveva…

             – Avrà finto, – disse il medico stringendosi nelle spalle. Maragrazia rimase come un ceppo; poi si diede un gran pugno sul petto:

             – Ah, infamacela! – proruppe. – E perché m’ha ingannata così? Ah, per questo, dunque, i miei figli non mi rispondono! Dunque, nulla! mai nulla ha scritto loro di tutto quello che io le ho dettato… Per questo! Dunque non ne sanno niente i figli miei, del mio stato? che io sto morendo per loro? E, io li incolpavo, signor dottore, mentr’era lei, quest’infamaccia qua, che si è sempre burlata di me… Oh Dio! oh Dio! E come si può fare un simile tradimento a una povera madre, a una povera vecchia come me? O oh, che cosa! oh…

             Il giovane dottore, commosso e indignato, si provò dapprima a quietarla un poco; si fece dire chi fosse quella Ninfarosa, dove stesse di casa, per farle il giorno dopo una strapazzata, come si meritava. Ma la vecchia badava ancora a scusare i figliuoli lontani del lungo silenzio, straziata dal rimorso d’averli incolpati per tanti anni dell’abbandono, sicurissima ora ch’essi sarebbero ritornati, volati a lei se una sola di quelle tante lettere, ch’ella aveva creduto di mandar loro, fosse stata scritta veramente e fosse loro pervenuta.

             Per troncare quella scena, il dottore dovette prometterle che la mattina seguente avrebbe scritto lui una lunga lettera per quei figliuoli:

             – Su, su, non vi disperate così! Verrete domattina da me. A dormire, adesso! Andate a dormire.

             Ma che dormire! Circa due ore dopo, il dottore, ripassando per quella straducola, la ritrovò ancora lì, che piangeva, inconsolabile, accosciata sotto il lampioncino. La rimproverò, la fece levare, le ingiunse d’andar subito a casa, subito, perché era notte.

             –    Dove state?

             –    Ah, signor dottore… Ho un casalino, qua sotto, all’uscita del paese. Avevo detto a quell’infamaccia di scrivere ai figli miei che lo avrei loro ceduto in vita, se volevano ritornare. S’è messa a ridere, svergognata! perché sono quattro muretti di creta e canne. Ma io…

             –    Va bene, va bene, – troncò di nuovo il dottore. – Andate a dormire! Domani scriveremo anche del casalino. Su, venite, v’accompagno.

             –    Dio La benedica, signor dottore! Ma che dice? Accompagnarmi, vossignoria? Vada, vada avanti; io sono vecchierella e vado piano.

             Il dottore le diede la buona notte, e s’avviò. Maragrazia gli tenne dietro, a distanza; poi, arrivata al portoncino, in cui lo vide entrare, si fermò, si tirò sul capo lo scialle, s’avvolse bene, e sedette su lo scalino lì davanti la porta, per passarvi tutta la notte, in attesa.

             All’alba, dormiva, quando il dottore, ch’era mattiniero, uscì per le prime visite. Essendo il portoncino a un solo battente, nell’aprirlo, si vide cadere ai piedi la vecchia dormente, che vi stava appoggiata.

             – Ohe! Voi! Vi siete fatta male?

             –    Vo… vossignoria mi perdoni, – balbettò Maragrazia, ajutandosi, con ambo le mani, avviluppate nello scialle, a rizzarsi.

             –    Avete passato qua la notte?

             –    Sissignore… È niente, ci sono avvezza, – si scusò la vecchia. – Che vuole, signorino mio? Non mi so dar pace… non mi so dar pace del tradimento di quella scellerata! Mi verrebbe d’ammazzarla, signor dottore! Poteva dirmi che le seccava scrivere, sarei andata da un altro; sarei venuta da vossignoria, che è tanto buono…

             –    Sì, aspettate un po’ qua, – disse il dottore. – Ora passerò io da questa buona femmina. Poi scriveremo la lettera; aspettate.

             E andò di fretta dove la vecchia la sera avanti gli aveva indicato. Gli avvenne per caso di domandare proprio a Ninfarosa, che si trovava già in istrada, l’indirizzo di colei a cui voleva parlare.

             – Eccomi qua, sono io, signor dottore, – gli rispose, ridendo e arrossendo, Ninfarosa; e lo invitò a entrare.

             Aveva veduto passare più volte per la stradetta quel giovane medico dall’aspetto quasi infantile, e com’era sempre sana, e non avrebbe saputo fingere di star male per chiamarlo, ora si mostrò contenta, pur nella sorpresa, ch’egli fosse venuto da sé per parlare con lei. Appena seppe di che si trattava, e lo vide turbato e severo, si piegò, procace, verso di lui, col volto dolente per il dispiacere ch’egli si prendeva senza ragione, via! e, appena poté, senza commettere la sconvenienza d’interromperlo:

             – Ma scusi tanto, signor dottore, – disse, socchiudendo i begli occhi neri. – Lei s’affligge sul serio per quella vecchia matta? Qua in paese la conoscono tutti, signor dottore, e non le bada più nessuno. Lei domandi a chi vuole, e tutti le diranno che è matta, proprio matta, da quattordici anni, sa? da che le sono partiti quei due figliuoli per l’America. Non vuole ammettere che essi si siano scordati di lei, com’è la verità, e s’ostina a scrivere, a scrivere… Ora, tanto per contentarla, capisce? io fingo… così, di farle la lettera; quelli che partono, poi, fingono di prendersela per recapitarla. E lei, poveraccia, s’illude. Ma se tutti dovessimo fare come lei, a quest’ora, signor dottore mio, non ci sarebbe più mondo. Guardi, anch’io che Le parlo sono stata abbandonata da mio marito… Sissignore! E sa che coraggio ha avuto questo bel galantuomo? di mandarmi un ritratto di lui e della sua bella di laggiù! glielo posso far vedere… Stanno tutti e due con le teste, l’una appoggiata all’altra, e le mani afferrate così, permette? mi dia la mano… così! E ridono, ridono in faccia a chi li guarda: in faccia a me, vuol dire. Ah, signor dottore, tutta la pietà è per chi parte; e per chi resta niente! Ho pianto anch’io, si sa, nei primi tempi; ma poi mi sono fatta una ragione, e ora… ora tiro a campare e a spassarmela anche, se mi capita, visto che il mondo è fatto così!

             Turbato dall’affabilità provocante, dalla simpatia che quella bella donna gli dimostrava, il giovane dottore abbassò gli occhi e disse:

             –    Ma perché voi, forse, avrete da vivere. Quella poverina, invece…

             –    Ma che! Quella? – rispose vivacemente Ninfarosa. – Avrebbe da vivere anche lei, ih! bella seduta e servita in bocca. Se volesse. Non vuole.

             – Come? – domandò il dottore, alzando gli occhi, meravigliato. Ninfarosa, nel vedergli quel bel faccino stupito, scoppiò a ridere, scoprendo i denti forti e bianchi, che davano al suo sorriso la bellezza splendida della salute.

             –    Masi! – disse. – Non vuole, signor dottore! Ha un altro figlio qua, l’ultimo, che la vorrebbe con sé e non le farebbe mancare mai nulla.

             –    Un altro figlio? Lei?

             –    Sissignore. Si chiama Rocco Trupìa. Non vuole saperne.

             –    E perché?

             –    Perché è proprio matta, non glielo dico? Piange giorno e nòtte per quei due

             che l’hanno abbandonata, e non vuole accettare neanche un tozzo di pane da quest’altro, che la prega a mani giunte. Dagli estranei, sì.

             Non volendo un’altra volta mostrarsi stupito, per nascondere il turbamento crescente il dottore s’accigliò e disse:

             –    Forse l’avrà trattata male, codesto figlio.

             –    Non credo, – disse Ninfarosa. – Brutto, sì: sempre ingrugnato; ma non cattivo. E lavoratore, poi! Lavoro, moglie e figliuoli: non conosce altro. Se vossignoria si vuol levare questa curiosità, non ha da camminare molto. Guardi, seguitando per questa via, appena a un quarto di miglio, uscito dal paese, troverà a destra quella che chiamano la Casa della Colonna. Sta lì. Ha in affitto una bella chiusa, che gli rende bene. Ci vada, e vedrà che è come le dico io.

             Il dottore si levò. Ben disposto da quella conversazione, allettato dalla dolce mattinata di settembre, e più che mai incuriosito sul caso di quella vecchia, disse:

             – Ci vado davvero.

             Ninfarosa si recò le mani dietro la nuca per rassettarsi i capelli attorno allo spadino d’argento, e sogguardando il dottore con gli occhi che le ridevano, promettenti:

             – Buona passeggiata, allora, – disse. – E serva sua!

             Superata l’erta, il dottore si fermò, per riprender fiato. Poche altre povere casette di qua e di là e il paese finiva; la viuzza immetteva nello stradone provinciale, che correva diritto e polveroso per più d’un miglio sul vasto altipiano, tra le campagne: terre di pane, per la maggior parte, gialle ora di stoppie. Un magnifico pino marittimo sorgeva a sinistra, come un gigantesco ombrello, meta ai signorotti di Farnia delle consuete loro passeggiate vespertine. Una lunga giogaja di monti azzurrognoli limitava, in fondo in fondo, l’altipiano; dense nubi candenti, bambagiose, stavano dietro ad essi come in agguato: qualcuna se ne staccava, vagava lenta pel cielo, passava sopra Monte Mirotta, che sorgeva dietro Farnia. A quel passaggio, il monte s’invaporava d’un’ombra cupa, violacea, e subito si rischiarava. La quiete silentissima della mattina era rotta di tratto in tratto dagli spari dei cacciatori al passo delle tortore o alla prima entrata delle allodole; seguiva a quegli spari un lungo, furibondo abbajare dei cani di guardia.

             Il dottore andava di buon passo per lo stradone, guardando di qua e di là le terre aride, che aspettavano le prime piogge per esser lavorate. Ma le braccia mancavano, e spirava da tutte quelle campagne un senso profondo di tristezza e d’abbandono.

             Ecco laggiù la Casa della Colonna, detta così perché sostenuta a uno spigolo da una colonna d’antico tempio greco, corrosa e smozzicata. Era una catapecchia, veramente; una roba, come i contadini di Sicilia chiamano le loro abitazioni rurali. Protetta, dietro, da una fitta siepe di fichidindia, aveva davanti due grossi pagliai a cono.

             – Oh, della roba!  – chiamò il dottore, che aveva paura dei cani, fermandosi davanti a un cancelletto di ferro arrugginito e cadente.

             Venne un ragazzotto di circa dieci anni, scalzo, con una selva di capelli rossastri, scoloriti dal sole, e un pajo d’occhi verdognoli, da bestiola forastica.

             –    C’è il cane? – gli domandò il dottore.

             –    C’è; ma non fa niente: conosce, – rispose il ragazzo.

             –    Sei figlio di Rocco Trupìa, tu?

             –    Sissignore.

             –    Dov’è tuo padre?

             –    Scarica il concime, di là, con le mule.

             Sul murello davanti la roba stava seduta la madre, che pettinava la figliuola maggiore, la quale poteva aver presso a dodici anni, seduta su un secchio di latta capovolto, con un bambinello di pochi mesi su le ginocchia. Un altro bambino ruzzava per terra, tra le galline che non lo temevano, a dispetto d’un bel gallo che, impettito, drizzava il collo e scoteva la cresta.

             – Vorrei parlare con Rocco Trupìa, – disse il giovane dottore alla donna. – Sono il nuovo medico del paese.

             La donna rimase un tratto a guardarlo, turbata, non comprendendo che cosa potesse volere quel medico da suo marito. Si cacciò la camicia ruvida dentro il busto, che le era rimasto aperto da che aveva finito d’allattare il piccino, se lo abbottonò e si levò in piedi per offrire una sedia. Il medico non la volle, e si chinò a carezzare il bamboccetto per terra, mentre l’altro ragazzo scappava a chiamare il padre.

             Poco dopo s’intese lo scalpiccio di grossi scarponi imbullettati, e, di tra i fichidindia, apparve Rocco Trupìa, che camminava curvo, con le gambe larghe, ad arco, e una mano alla schiena, come la maggior parte dei contadini.

             Il naso largo, schiacciato, e la troppa lunghezza del labbro superiore, raso, rilevato, gli davano un aspetto scimmiesco; era rosso di pelo, e aveva la pelle del viso pallida e sparsa di lentiggini; gli occhi verdastri, affossati, gli guizzavano a tratti di torvi sguardi, sfuggenti.

             Sollevò una mano per spingere un po’ indietro su la fronte la berretta nera, a calza, in segno di saluto.

             –    Bacio le mani a vossignoria. Che comandi ha da darmi?

             –    Ecco, ero venuto – cominciò il medico, – per parlarvi di vostra madre. Rocco Trupìa si turbò:

             –    Sta male?

             – No, – s’affrettò a soggiungere quello. – Sta al solito; ma così vecchia, capirete, lacera, senza cure…

             Man mano che il dottore parlava, il turbamento di Rocco Trupìa cresceva. Alla fine, non potè più reggere, e disse:

             –    Signor dottore, mi deve dare qualche altro comando? Sono pronto a servirla. Ma se vossignoria è venuto qua per parlarmi di mia madre, Le chiedo licenza, me ne torno al lavoro.

             –    Aspettate… So che non manca per voi, – disse il medico per trattenerlo. – M’hanno detto che voi, anzi…

             –    Venga qua, signor dottore, – saltò su a dire Rocco Trupìa improvvisamente, additando la porta della roba.  – Casa da poverelli, ma se vossignoria fa il medico, chi sa quante altre ne avrà vedute. Le voglio mostrare il letto pronto sempre e apparecchiato per quella… buona vecchia: è mia madre, non posso chiamarla altrimenti. Qua c’è mia moglie, ci sono i miei figliuoli: possono attestarle com’io abbia loro comandato di servire, di rispettare quella vecchia come Maria Santissima. Perché la mamma è santa, signor dottore! Che ho fatto io a questa madre? Perché deve svergognarmi così davanti a tutto il paese e lasciar credere di me chi sa che cosa? Io sono cresciuto, signor dottore, coi parenti di mio padre, è vero, fin da bambino; non dovrei rispettarla come madre, perché essa è stata sempre dura con me; eppure l’ho rispettata e le ho voluto bene. Quando quei suoi figliacci partirono per l’America, subito corsi da lei per prendermela e portarmela qua, come la regina della mia casa. Nossignore! Deve far la mendica, per il paese, deve dare questo spettacolo alla gente e quest’onta a me! Signor dottore, Le giuro che se qualcuno di quei suoi figliacci ritorna a Farnia, io lo ammazzo per quest’onta e per tutte le amarezze che da quattordici anni soffro per loro: lo ammazzo, com’è vero che sto parlando con Lei, in presenza di mia moglie e di questi quattro innocenti!

             Fremente, più che mai sbiancato in volto, Rocco Trupìa si forbì la bocca schiumosa col braccio. Gli occhi gli s’erano iniettati di sangue. Il giovane dottore rimase a guardarlo, sdegnato.

             –    Ma ecco, – poi disse, – perché vostra madre non vuole accettare l’ospitalità che le offrite: per codesto odio che nutrite contro i vostri fratelli! E chiaro.

             –    Odio? – fece Rocco Trupìa, serrando le pugna indietro e protendendosi. –

             Ora sì, odio, signor dottore, per quello che hanno fatto patire alla loro madre e a me! Ma prima, quando erano qua, io li amavo e rispettavo come fratelli maggiori. E loro invece, due Caini per me! Ma senta: non lavoravano, e lavoravo io per tutti; venivano qua a dirmi che non avevano da cucinare la sera; che la mamma se ne sarebbe andata a letto digiuna, e io davo; s’ubriacavano, scialacquavano con le donnacce, e io davo; quando partirono per l’America, mi svenai per loro. Qua c’è mia moglie che glielo può dire.

             –    E allora perché? – disse di nuovo, quasi a se stesso, il dottore. Rocco Trupìa ruppe in un ghigno:

             –    Perché? Perché mia madre dice che non sono suo figlio!

             –    Come?

             –   Signor dottore, se lo faccia spiegare da lei. Io non ho tempo da perdere: gli uomini di là mi aspettano con le mule cariche di concime. Debbo lavorare e… guardi, mi sono tutto rimescolato. Se lo faccia dire da lei. Bacio le mani.

             E Rocco Trupìa se n’andò curvo, com’era venuto, con le gambe larghe, ad arco, e la mano alla schiena. Il dottore lo seguì con gli occhi per un tratto, poi si voltò a guardare i piccini, ch’eran rimasti come basiti, e la moglie. Questa congiunse le mani e, agitandole un poco e socchiudendo amaramente gli occhi, emise il sospiro delle rassegnate:

             –   Lasciamo fare a Dio!

             Ritornato in paese, il dottore volle venir subito in chiaro di quel caso così strano, da parer quasi inverosimile; e ritrovando la vecchia ancora seduta su lo scalino davanti alla porta della sua casa, come l’aveva lasciata, la invitò a salire con una certa asprezza nella voce.

             –   Sono stato a parlare con vostro figlio, alla Casa della Colonna, – poi le disse. – Perché mi avete nascosto che avevate qua quest’altro figlio?

             Maragrazia Io guardò, dapprima smarrita, poi quasi atterrita; si passò le mani tremanti su la fronte e sui capelli, e disse:

             –    Ah, signorino: io sudo freddo, se vossignoria mi parla di quel figlio. Non me ne parli, per carità!

             –    Ma perché – le domandò, adirato, il dottore. – Che v’ha fatto? Dite su!

             –    Nulla, m’ha fatto, – s’affrettò a rispondere la vecchia. – Questo debbo riconoscerlo, in coscienza! Anzi, m’è sempre venuto appresso, rispettoso… Ma io… vede come tremo, signorino mio, appena ne parlo? Non ne posso parlare! Perché quello lì, signor dottore, non è figlio mio!

             Il giovane medico perdette la pazienza, proruppe:

             –   Ma come non è figlio vostro? Che dite? Siete stolida o matta davvero? Non l’avete fatto voi?

             La vecchia chinò il capo, a questa sfuriata, socchiuse gli occhi sanguigni, rispose:

             –    Sissignore. E sono stolida, forse. Matta, no. Dio volesse! Non penerei più tanto. Ma certe cose vossignoria non le può sapere, perché è ancora ragazzo. Io ho i capelli bianchi, sto a penare da tanto tempo io, e n’ho viste! n’ho viste! Ho visto cose, signorino mio, che vossignoria non si può nemmeno immaginare.

             –    Che avete visto, insomma? Parlate! – la incitò il dottore.

             –    Cose nere! cose nere! – sospirò la vecchia scotendo il capo. – Vossignoria non era allora neanche nella mente di Dio e io le ho viste con questi occhi che hanno pianto da allora lagrime di sangue. Ha sentito parlare vossignoria d’un certo Canebardo?

             –    Garibaldi? – domandò il medico, stordito.

             –    Sissignore, che venne dalle nostre parti e fece ribellare a ogni legge degli uomini e di Dio campagne e città? N’ha sentito parlare?

             –    Sì, sì, dite! Ma come c’entra Garibaldi?

             –    C’entra, perché vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena… Tra gli altri, ce n’era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi, capo-brigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere, – diceva, – per vedere se la carabina era parata bene. Costui si buttò in campagna, dalle nostre parti. Passò per Farnia, con una banda che s’era formata, di contadini; ma non era contento, ne voleva altri, e uccideva tutti quelli che non volevano seguirlo. Io ero maritata da pochi anni e avevo già quei due figliucci, che ora sono laggiù, in America, sangue mio! Stavamo nelle terre del Pozzetto, che mio marito, sant’anima, teneva a mezzadria. Cola Camizzi passò di là e si trascinò via anche lui, mio marito, a viva forza. Due giorni dopo, me lo vidi ritornare come un morto; non pareva più lui; non poteva parlare, con gli occhi pieni di quello che aveva veduto, e si nascondeva le mani, poveretto, per il ribrezzo di ciò ch’era stato costretto a fare… Ah, signorino mio, mi si voltò il cuore in petto, quando me lo vidi davanti così: «Nino mio!», gli gridai (sant’anima!) «Nino mio, che hai fatto?». Non poteva parlare. «Te ne sei scappato? E se ti riafferrano, ora? T’ammazzeranno!» Il cuore, il cuore mi parlava. Ma egli, zitto, sedette vicino al fuoco, sempre con le mani nascoste, così, sotto la giacca, gli occhi da insensato, e stette un pezzo a guardare verso terra, poi disse: «Meglio morto!». Non disse altro. Stette tre giorni nascosto; al quarto uscì: eravamo poverelli, bisognava che lavorasse. Uscì per lavorare. Venne la sera; non tornò… Aspettai, aspettai, ah Dio! Ma già lo sapevo, me l’ero immaginato. Pure pensavo: «Chi sa! forse non l’hanno ammazzato; forse se lo sono ripreso!». Venni a sapere, dopo sei giorni, che Cola Camizzi si trovava con la sua banda nel feudo di Montelusa, che era dei Padri Liguorini, scappati via. Ci andai, come una pazza. C’erano, dal Pozzetto, più di sei miglia di strada. Era una giornata di vento, signorino mio, come non ne ho più viste in vita mia. Si vede il vento? Eppure quel giorno si vedeva! Pareva che tutte le anime degli assassinati gridassero vendetta agli uomini e a Dio. Mi misi in quel vento, tutta strappata, ed esso mi portò: gridavo più di lui. Volai: ci avrò messo appena un’ora ad arrivare al convento, che stava lassù, lassù, tra tante pioppe nere. C’era un gran cortile, murato. Vi s’entrava per una porticina piccola piccola, da una parte, mezzo nascosta, ricordo ancora, da un gran cespo di capperi radicato su, nel muro. Presi una pietra, per bussare più forte; bussai, bussai; non mi volevano aprire; ma tanto bussai, che finalmente m’aprirono. Ah, che vidi!

             A questo punto, Maragrazia si levò in piedi, stravolta dall’orrore, con gli occhi sanguigni sbarrati, e allungò una mano con le dita artigliate dal ribrezzo. Le mancò la voce in prima, per proseguire.

             – In mano… – poi disse, – in mano… quegli assassini…

             S’arrestò di nuovo, come soffocata, e agitò quella mano, quasi volesse lanciare qualcosa.

             –    Ebbene? – domandò il dottore, allibito.

             –    Giocavano là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò. Gettai un grido che mi stracciò la gola e il petto, un grido così forte, che quegli assassini ne tremarono; ma, come Cola Camizzi mi mise le mani al collo per farmi tacere, uno di loro gli saltò addosso, furioso; e allora, quattro, cinque, dieci, prendendo ardire da quello, gli s’avventarono contro, se lo presero in mezzo. Erano sazii, rivoltati anche loro della tirannia feroce di quel mostro, signor dottore, e io ebbi la soddisfazione di vederlo scannato lì, sotto gli occhi miei, dai suoi stessi compagni, cane assassino!

             La vecchia s’abbandonò su la seggiola, sfinita, ansimante, agitata tutta da un tremito convulso.

             Il giovane medico stette a guardarla, raccapricciato, col volto atteggiato di pietà, di ribrezzo e di orrore. Ma passato il primo stupore, come poté ricomporre le idee, non seppe comprendere che nesso quella truce storia potesse avere col caso di quell’altro figlio; e glielo domandò.

             –    Aspetti, – rispose la vecchia, appena poté riprender fiato. – Quello che prima si ribellò, quello che prese le mie difese, si chiamava Marco Trupìa.

             –    Ah! – esclamò il medico. – Dunque, questo Rocco…

             –    Suo figlio, – rispose Maragrazia. – Ma pensi, signor dottore, se io potevo esser la moglie di quell’uomo dopo quanto avevo visto! Mi volle per forza; tre mesi mi tenne con sé, legata, imbavagliata, perché io gridavo, lo mordevo… Dopo tre mesi, la giustizia venne a scovarlo là, e lo richiuse in galera, dove morì poco dopo. Ma rimasi incinta. Ah, signorino mio, Le giuro che mi sarei strappate le viscere: mi pareva che stessi a covarci un mostro! Sentivo che non me lo sarei potuto vedere tra le braccia. Al solo pensiero che avrei dovuto attaccarmelo al petto, gridavo come una pazza. Fui per morire, quando lo misi alla luce. Mi assisteva mia madre, sant’anima, che non me lo fece neanche vedere: lo portò subito dai parenti di lui, che lo allevarono… Ora non Le pare, signor dottore, ch’io possa dire davvero ch’egli non è figlio mio?

             Il giovane dottore stette un pezzo senza rispondere, assorto a pensare; poi disse:

             –    Ma lui, in fondo, vostro figlio, che colpa ha?

             –    Nessuna! – rispose subito la vecchia. – E quando mai, difatti, le mie labbra hanno detto una parola sola contro di lui? Mai, signor dottore! Anzi… Ma che ci posso fare, se non resisto a vederlo neanche da lontano! È tutto suo padre, signorino mio; nelle fattezze, nella corporatura, finanche nella voce… Mi metto a tremare, appena lo vedo, e sudo freddo! Non sono io, si ribella il sangue, ecco! Che ci posso fare?

             Attese un po’, asciugandosi gli occhi col dorso delle mani; poi, temendo che la comitiva degli emigranti partisse da Farnia senza la lettera per i suoi figliuoli veri, per i suoi figliuoli adorati, si fece coraggio e disse al dottore ancora assorto:

             – Se vossignoria volesse farmi la carità che mi ha promesso…

             E come il dottore, riscotendosi, le disse che era pronto, si accostò con la seggiola alla scrivania e, ancora una volta, con la stessa voce di lagrime, cominciò a dettare:

             – Cari figli…

L’altro figlio – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
L’altro figlio – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
L’altro figlio – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
L’altro figlio – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

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