Con altri occhi – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Esaminandone il volto, Anna notò subito quanto dissomigliasse dal suo; e le sorse a un tempo dal cuore la domanda, come mai il marito che aveva amato quella donna, quella giovinetta certo bella per lui, si fosse poi potuto innamorare di lei così diversa.»

Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 28 luglio 1901, poi in Erma bifronte, Treves Milano 1906.

Con altri occhi audiolibro
Leonardo da Vinci, Particolare di Ritratto di Dama (Belle Ferronnière), ca. 1495 – 1499

Con altri occhi

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Dall’ampia finestra, aperta sul giardinetto pensile della casa, si vedeva come posato sull’azzurro vivo della fresca mattina un ramo di mandorlo fiorito, e si udiva, misto al roco quatto chioccolio della vaschetta in mezzo al giardino, lo scampanio festivo delle chiese lontane e il garrire delle rondini ebbre d’aria e di sole.

             Nel ritrarsi dalla finestra sospirando, Anna s’accorse che il marito quella mattina s’era dimenticato di guastare il letto, come soleva ogni volta, perché i servi non s’avvedessero che non s’era coricato in camera sua. Poggiò allora i gomiti sul letto non toccato, poi vi si stese con tutto il busto, piegando il bel capo biondo su i guanciali e socchiudendo gli occhi, come per assaporare nella freschezza del lino i sonni che egli soleva dormirvi. Uno stormo di rondini sbalestrate guizzarono strillando davanti alla finestra.

             «Meglio se ti fossi coricato qui», mormorò tra sé, e si rialzò stanca.

             Il marito doveva partire quella sera stessa, ed ella era entrata nella camera di lui per preparargli l’occorrente per il viaggio.

             Neil’aprire l’armadio, sentì come uno squittio nel cassetto interno e subito si ritrasse, impaurita. Tolse da un angolo della camera un bastone dal manico ricurvo e, tenendosi stretta alle gambe la veste, prese il bastone per la punta e si provò ad aprire con esso, così discosta, il cassetto. Ma, nel tirare, invece del cassetto, venne fuori agevolmente dal bastone una lucida lama insidiosa. Non se l’aspettava; n’ebbe ribrezzo e si lasciò cadere di mano il fodero dello stocco.

             In quel punto, un altro squittio la fece voltare di scatto, in dubbio se anche il primo fosse partito da qualche rondine sguizzante davanti la finestra.

             Scostò con un piede l’arma sguainata e trasse in fuori tra i due sportelli aperti il cassetto pieno d’antichi abiti smessi del marito. Per improvvisa curiosità si mise allora a rovistare in esso e, nel riporre una giacca logora e stinta, le avvenne di tastare negli orli sotto il soppanno come un cartoncino, scivolato lì dalla tasca in petto sfondata; volle vedere che cosa fosse quella carta caduta lì chi sa da quanti anni e dimenticata; e così per caso Anna scoprì il ritratto della prima moglie del marito.

             Impallidendo, con la vista intorbidata e il cuore sospeso, corse alla finestra, e vi rimase a lungo, attonita, a mirare l’immagine sconosciuta, quasi con un senso di sgomento.

             La voluminosa acconciatura del capo e la veste d’antica foggia non le fecero notare in prima la bellezza di quel volto; ma appena potè coglierne le fattezze, astraendole dall’abbigliamento che ora, dopo tanti anni, appariva goffo, e fissarne specialmente gli occhi, se ne sentì quasi offesa e un impeto d’odio le balzò dal cuore al cervello: odio di postuma gelosia; l’odio misto di sprezzo che aveva provato per colei nell’innamorarsi dell’uomo ch’era adesso suo marito, dopo undici anni dalla tragedia coniugale che aveva distrutto d’un colpo la prima casa di lui.

             Anna aveva odiato quella donna non sapendo intendere come avesse potuto tradire l’uomo ora da lei adorato e, in secondo luogo, perché i suoi parenti s’erano opposti al matrimonio suo col Brivio, come se questi fosse stato responsabile dell’infamia e della morte violenta della moglie infedele.

             Era lei, sì, era lei, senza dubbio! la prima moglie di Vittore: colei che s’era uccisa!

             Ne ebbe la conferma dalla dedica scritta sul dorso del ritratto: Al mio Vittore, Almira sua – 11 novembre 1873.

             Anna aveva notizie molto vaghe della morta: sapeva soltanto che il marito, scoperto il tradimento, l’aveva costretta, con l’impassibilità di un giudice, a togliersi la vita.

             Ora ella si richiamò con soddisfazione alla mente questa condanna del marito, irritata da quel «mio» e da quel «sua» della dedica, come se colei avesse voluto ostentare così la strettezza del legame che reciprocamente aveva unito lei e Vittore, unicamente per farle dispetto.

             A quel primo lampo d’odio, guizzato dalla rivalità per lei sola ormai sussistente, seguì nell’anima di Anna la curiosità femminile di esaminare i lineamenti di quel volto, ma quasi trattenuta dalla strana costernazione che si prova alla vista di un oggetto appartenuto a qualcuno tragicamente morto; costernazione ora più viva, ma a lei non ignota, poiché n’era compenetrato tutto il suo amore per il marito appartenuto già a quell’altra donna.

             Esaminandone il volto, Anna notò subito quanto dissomigliasse dal suo; e le sorse a un tempo dal cuore la domanda, come mai il marito che aveva amato quella donna, quella giovinetta certo bella per lui, si fosse poi potuto innamorare di lei così diversa.

             Sembrava bello, molto più bello del suo anche a lei quel volto che, dal ritratto, appariva bruno. Ecco: e quelle labbra si erano congiunte nel bacio alle labbra di lui; ma perché mai a gli angoli della bocca quella piega dolorosa? e perché così mesto lo sguardo di quegli occhi intensi? Tutto il volto spirava un profondo cordoglio; e Anna ebbe quasi dispetto della bontà umile e vera che quei lineamenti esprimevano, e quindi un moto di repulsione e di ribrezzo, sembrandole a un tratto di scorgere nello sguardo di quegli occhi la medesima espressione degli occhi suoi allorché, pensando al marito, ella si guardava nello specchio, la mattina, dopo essersi acconciata.

             Ebbe appena il tempo di cacciarsi in tasca il ritratto: il marito si presentò, sbuffando, sulla soglia della camera.

             – Che hai fatto? Al solito? Hai rassettato? Oh povero me! Ora non trovo più nulla!

             Vedendo poi lo stocco sguainato per terra:

             – Ah! Hai anche tirato di scherma con gli abiti dell’armadio?

             E rise di quel suo riso che partiva soltanto dalla gola, quasi qualcuno gliel’avesse vellicata; e, ridendo così, guardò la moglie, come se domandasse a lei il perché del suo proprio riso. Guardando, batteva di continuo le palpebre celerissimamente su gli occhietti acuti, neri, irrequieti.

             Vittore Brivio trattava la moglie come una bambina non d’altro capace che di quell’amore ingenuo e quasi puerile di cui si sentiva circondato, spesso con fastidio, e al quale si era proposto di prestar solo attenzione di tempo in tempo, mostrando anche allora una condiscendenza quasi soffusa di lieve ironia, come se volesse dire: «Ebbene, via! per un po’ diventerò anch’io bambino con te: bisogna fare anche questo, ma non perdiamo troppo tempo!».

             Anna s’era lasciata cadere ai piedi la vecchia giacca in cui aveva trovato il ritratto. Egli la raccattò infilzandola con la punta dello stocco, poi chiamò dalla finestra nel giardino il servotto che fungeva anche da cocchiere e che in quel momento attaccava al biroccio il cavallo. Appena il ragazzo si presentò in maniche di camicia nel giardino davanti alla finestra, il Brivio gli buttò in faccia sgarbatamente la giacca infilzata, accompagnando l’elemosina con un: «Tieni, è per te!».

             – Così avrai meno da spazzolare – aggiunse, rivolto alla moglie, – e da rassettare, speriamo!

             E di nuovo emise quel suo riso stentato battendo più e più volte le palpebre.

             Altre volte il marito s’era allontanato dalla città e non per pochi giorni soltanto, partendo anche di notte come quella volta; ma Anna, ancora sotto l’impressione della scoperta di quel ritratto, provò una strana paura di restar sola, e lo disse, piangendo, al marito.

             Vittore Brivio, frettoloso nel timore di non fare a tempo e tutto assorto nel pensiero dei suoi affari, accolse con mal garbo quel pianto insolito della moglie.

             –   Come! Perché? Via, via, bambinate!

             E andò via di furia, senza neppur salutarla.

             Anna sussultò al rumore della porta ch’egli si chiuse dietro con impeto; rimase col lume in mano nella saletta e sentì raggelarsi le lagrime negli occhi. Poi si scosse e si ritirò in fretta nella sua camera, per andar subito a letto.

             Nella camera già in ordine ardeva il lampadino da notte.

             –   Va’ pure a dormire – disse Anna alla cameriera che la attendeva. – Fo da me. Buona notte.

             Spense il lume, ma invece di posarlo, come soleva, su la mensola, lo posò sul tavolino da notte, presentendo – pur contro la propria volontà – che forse ne avrebbe avuto bisogno più tardi. Cominciò a svestirsi in fretta, tenendo gli occhi fissi a terra, innanzi a sé. Quando la veste le cadde attorno ai piedi, pensò che il ritratto era là e con viva stizza si sentì guardata e commiserata da quegli occhi dolenti, che tanta impressione le avevano fatto. Si chinò risolutamente a raccogliere dal tappeto la veste e la posò senza ripiegarla, su la poltrona a pie del letto, come se la tasca che nascondeva il ritratto e il viluppo della stoffa dovessero e potessero impedirle di ricostruirsi l’immagine di quella morta.

             Appena coricata, chiuse gli occhi e s’impose di seguire col pensiero il marito per la via che conduceva alla stazione ferroviaria. Se l’impose per astiosa ribellione al sentimento che tutto quel giorno l’aveva tenuta vigile a osservare, a studiare il marito. Sapeva donde quel sentimento le era venuto e voleva scacciarlo da sé.

             Nello sforzo della volontà, che le produceva una viva sovreccitazione nervosa, si rappresentò con straordinaria evidenza la via lunga, deserta nella notte, rischiarata dai fanali verberanti il lume tremulo sul lastrico che pareva ne palpitasse: a pie d’ogni fanale, un cerchio d’ombra; le botteghe, tutte chiuse; ed ecco la vettura che conduceva Vittore. Come se l’avesse aspettata al varco, si mise a seguirla fino alla stazione: vide il treno lugubre, sotto la tettoja a vetri; una gran confusione di gente in quell’interno vasto, fumido, mal rischiarato, cupamente sonoro, – ecco il treno partiva; e, come se veramente lo vedesse allontanare e sparire nelle tenebre, rientrò d’un subito in sé, aprì gli occhi nella camera silenziosa e provò un senso angoscioso di vuoto, come se qualcosa le mancasse dentro.

             Sentì allora confusamente, smarrendosi, che da tre anni forse, dal momento in cui era partita dalla casa paterna, ella era in quel vuoto, di cui ora soltanto cominciava ad assumer coscienza. Non se n’era accorta prima; perché lo aveva riempito solo di sé, del suo amore, quel vuoto; se ne accorgeva ora, perché in tutto quel giorno, aveva tenuto quasi sospeso il suo amore, per vedere, per osservare, per giudicare.

             «Non mi ha neppure salutata!», pensò; e si mise a piangere di nuovo, quasi che questo pensiero fosse determinatamente la cagione del pianto.

             Sorse a sedere sul letto: ma subito arrestò la mano tesa, nel levarsi, per prendere dalla veste il fazzoletto. Via, era ormai inutile vietarsi di rivedere, di riosservare quel ritratto! Lo prese. Riaccese il lume.

             Come se la era raffigurata diversamente quella donna! Contemplandone ora la vera effigie, provava rimorso dei sentimenti che la immaginaria le aveva suggeriti. Si era raffigurata una donna, piuttosto grassa è rubiconda, con gli occhi lampeggianti e ridenti, inclinata al riso, a gli spassi volgari. E invece, ora, eccola: una giovinetta che dalle pure fattezze spirava un’anima profonda e addolorata; diversa sì, da lei, ma non nel senso sguajato di prima: al contrario; anzi quella bocca pareva non avesse dovuto mai sorridere, mentre la sua tante volte e lietamente aveva riso; e certo, se bruno quel volto (come dal ritratto appariva), di un’aria men ridente del suo, biondo e roseo.

             Perché, perché così triste?

             Un pensiero odioso le balenò in mente, e subito staccò gli occhi dall’immagine di quella donna, scorgendovi d’improvviso un’insidia non solo alla sua pace, al suo amore che pure in quel giorno aveva ricevuto più d’una ferita, ma anche alla sua orgogliosa dignità di donna onesta che non s’era mai permesso neppure il più lontano pensiero contro il marito. Colei aveva avuto un amante! E per lui forse era così triste, per quell’amore adultero, e non per il marito!

             Buttò il ritratto sul comodino e spense di nuovo il lume, sperando di addormentarsi, questa volta, senza pensare più a quella donna, con la quale non poteva aver nulla di comune. Ma, chiudendo le palpebre, rivide subito, suo malgrado, gli occhi della morta, e invano cercò di scacciare quella vista.

             – Non per lui, non per lui! – mormorò allora con smaniosa ostinazione, come se, ingiuriandola, sperasse di liberarsene.

             E si sforzò di richiamare alla memoria quanto sapeva intorno a quell’altro, all’amante, costringendo quasi lo sguardo e la tristezza di quegli occhi a rivolgersi non più a lei, ma all’antico amante, di cui ella conosceva soltanto il nome: Arturo Valli. Sapeva che costui aveva sposato qualche anno dopo, quasi a provare ch’era innocente della colpa che gli voleva addebitare il Bovio di cui aveva respinto energicamente la sfida, protestando che non si sarebbe mai battuto con un pazzo assassino. Dopo questo rifiuto, Vittore aveva minacciato di ucciderlo ovunque lo avesse incontrato, foss’anche in chiesa; e allora egli era andato via con la moglie dal paese, nel quale era poi ritornato, appena Vittore, riammogliatosi, se n’era partito.

             Ma dalla tristezza di questi avvenimenti da lei rievocati, dalla viltà del Valli e, dopo tanti anni, dalla dimenticanza del marito, il quale, come se nulla fosse stato, s’era potuto rimettere nella vita e riammogliare, dalla gioja che ella stessa aveva provato nel divenir moglie di lui, da quei tre anni trascorsi da lei senza mai un pensiero per quell’altra, inaspettatamente un motivo di compassione per costei s’impose ad Anna spontaneo; ne rivide viva l’immagine, ma come da lontano lontano, e le parve che con quegli occhi, intensi di tanta pena, colei le dicesse, tentennando lievemente il capo:

             «Io sola però ne son morta! Voi tutti vivete!».

             Si vide, si sentì sola nella casa: ebbe paura. Viveva, sì, lei; ma da tre anni, dal giorno delle nozze, non aveva più riveduto, neanche una volta, i suoi genitori, la sorella. Lei che li adorava, e ch’era stata sempre con loro docile e confidente, aveva potuto ribellarsi alla loro volontà, ai loro consigli per amore di quell’uomo; per amore di quell’uomo s’era mortalmente ammalata e sarebbe morta, se i medici non avessero indotto il padre a condiscendere alle nozze. Il padre aveva ceduto, non consentendo, però, anzi giurando che ella per lui, per la casa, dopo quelle nozze, non sarebbe più esistita. Oltre alla differenza di età, ai diciotto anni che il marito aveva più di lei, ostacolo più grave per il padre era stata la posizione finanziaria di lui soggetta a rapidi cambiamenti per le imprese rischiose a cui soleva gettarsi con temeraria fiducia in se stesso e nella fortuna.

             In tre anni di matrimonio Anna, circondata da agi, aveva potuto ritenere ingiuste o dettate da prevenzione contraria le considerazioni della prudenza paterna, quanto alle sostanze del marito, nel quale del resto ella, ignara, riponeva la medesima fiducia che egli in se stesso; quanto poi alla differenza d’età, finora nessun argomento manifesto di delusione per lei o di meraviglia per gli altri, poiché dagli anni il Brivio non risentiva il minimo danno né nel corpo vivacissimo e nervoso, né tanto meno poi nell’animo dotato d’infaticabile energia, d’irrequieta alacrità.

             Di ben altro Anna, ora per la prima volta, guardando (senza neppur sospettarlo) nella sua vita con gli occhi di quella morta, trovava da lagnarsi del marito. Sì, era vero: della noncuranza quasi sdegnosa di lui ella si era altre volte sentita ferire; ma non mai come quel giorno; e ora per la prima volta si sentiva così angosciosamente sola, divisa dai suoi parenti, i quali le pareva in quel momento la avessero abbandonata lì, quasi che, sposando il Brivio, avesse già qualcosa di comune con quella morta e non fosse più degna d’altra compagnia. E il marito che avrebbe dovuto consolarla, il marito stesso pareva non volesse darle alcun merito del sacrifizio ch’ella gli aveva fatto del suo amore filiale e fraterno, come se a lei non fosse costato nulla, come se a quel sacrifizio egli avesse avuto diritto, e per ciò nessun dovere avesse ora di compensamela. Diritto, sì, ma perché lei se ne era così perdutamente innamorata allora; dunque il dovere per lui adesso di compensarla. E invece…

             «Sempre così!», parve ad Anna di sentire sospirare dalle labbra dolenti della morta.

             Riaccese il lume e di nuovo, contemplando l’immagine, fu attratta dall’espressione di quegli occhi. Anche lei dunque, davvero, aveva sofferto per lui? anche lei, anche lei, accorgendosi di non essere amata, aveva sentito quel vuoto angoscioso?

             – Sì? sì? – domandò Anna, soffocata dal pianto, all’immagine.

             E le parve allora che quegli occhi buoni, intensi di passione, la commiserassero a lor volta, la compiangessero di quell’abbandono, del sacrifizio non rimeritato, dell’amore che le restava chiuso in seno quasi tesoro in uno scrigno, di cui egli avesse le chiavi, ma per non servirsene mai, come l’avaro.

Con altri occhi – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Con altri occhi – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Con altri occhi – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
Con altri occhi – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi

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