Legge Gaetano Marino.
«Credi, amico mio: a lasciar fare alla natura, noi saremmo, per inclinazione, tutti quadrupedi. La meglio cosa! Più comodi, ben posati, sempre in equilibrio…»
Prime pubblicazioni: La Riviera ligure, n. 42, ottobre 1902, poi in Bianche e nere, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1904.
Amicissimi
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
|
******
Gigi Mear, in pipistrello quella mattina (eh, con la tramontana, dopo i quaranta non ci si scherza più!), il fazzoletto da collo tirato su e rinvoltato con cura fin sotto il naso, un pajo di grossi guanti inglesi alle mani; ben pasciuto, liscio e rubicondo, aspettava sul Lungo Tevere de’ Mellini il tram per Porta Pia, che doveva lasciarlo, come tutti i giorni, in Via Pastrengo, innanzi alla Corte dei Conti, ove era impiegato.
Conte di nascita, ma purtroppo senza più né contea né contanti, Gigi Mear aveva nella beata incoscienza dell’infanzia manifestato al padre il nobile proposito d’entrare in quell’ufficio dello Stato credendo allora ingenuamente che fosse una Corte, in cui ogni conte avesse il diritto d’entrare.
È noto a tutti ormai che i tram non passano mai, quando sono aspettati. Piuttosto si fermano a mezza via per interruzione di corrente, o preferiscono d’investire un carro o di schiacciare magari un pover’uomo. Bella comodità, non pertanto, tutto sommato.
Quella mattina intanto tirava la tramontana, gelida, tagliente, e Gigi Mear pestava i piedi guardando l’acqua aggricciata del fiume, che pareva sentisse un gran freddo anch’esso, poverino, lì, come in camicia, tra quelle dighe rigide, scialbe, della nuova arginatura.
Come Dio volle, dindìn, dindìn: ecco il tram. E Gigi Mear si disponeva a montarvi senza farlo fermare, quando, dal nuovo Ponte Cavour, si sentì chiamare a gran voce:
– Gigin! Gigin!
E vide un signore che gli correva incontro gestendo come un telegrafo ad asta. Il tram se la filò. In compenso, Gigi Mear ebbe la consolazione di trovarsi tra le braccia d’uno sconosciuto, suo intimo amico, a giudicarne dalla violenza con cui si sentiva baciato, là, là, sul fazzoletto di seta che gli copriva la bocca.
– T’ho riconosciuto subito, sai, Gigin! Subito! Ma che vedo? Già venerando? Ih, ih, tutto bianco! E non ti vergogni? Un altro bacio, permetti, Gigione mio? per la tua santa canizie! Stavi qua fermo – mi pareva che stessi ad aspettarmi. Quando t’ho visto alzar le braccia per montare su quel demonio, m’è parso un tradimento, m’è parso!
– Già! – fece il Mear, forzandosi a sorridere. – Andavo all’ufficio.
– Mi farai il piacere di non parlare di porcherie in questo momento!
– Come?
– Così! Te lo comando io.
– Pregare sempre, che c’entra! Sai che sei un bel tipo?
– Sì, lo so. Ma tu non m’aspettavi, è vero? Eh, ti vedo all’aria; non m’aspettavi.
– No… per dire la verità…
– Sono arrivato jersera. E ti porto i saluti di tuo fratello, il quale… ti faccio ridere! voleva darmi un biglietto di presentazione per te. – Come! dico. Per Gigione? Ma sa che io l’ho conosciuto prima di lei, per modo di dire: amici d’infanzia, perdio, ci siamo rotti tante volte reciprocamente la testa… Compagni poi d’Università… La gran Padova, Gigione, ti ricordi? il campanone, che tu non sentivi mai, mai, dormendo come un… diciamo ghiro, eh? ti toccherebbe porco, però. Basta. Una volta sola lo sentisti, e ti parve che chiamassero al fuoco! Bei tempi! Tuo fratello sta benone, sai, grazie a Dio. Abbiamo combinato insieme un certo affaruccio, e sono qua per questo. Oh, ma tu che hai? Sei funebre. Hai preso moglie?
– No, caro! – esclamò Gigi Mear, riscotendosi.
– Stai per prenderla?
– Sei matto? Dopo i quaranta? Neanche per sogno!
– Quaranta? E se fossero cinquanta, Gigione, e sonati? Ma già, tu hai la specialità di non sentir sonare mai niente: né le campane né gli anni, me ne scordavo. Cinquanta, cinquanta, caro, te l’assicuro io, sonati. Sospiriamo! la faccenda comincia a farsi un po’ seria. Sei nato… aspetta: nell’aprile del 1851, è vero o non è vero? 12 aprile.
– Maggio, se permetti, e mille ottocento cinquantadue, se permetti, – corresse il Mear, sillabando, indispettito. – O vuoi saperlo meglio di me, adesso? Dodici maggio 1852. Dunque, finora, quarantanove anni e qualche mese.
– E niente moglie! Benissimo. Io sì, sai? Ah, una tragedia: ti farò schiattare dalle risa. Restiamo intesi, intanto, oh! che tu mi hai invitato a pranzo. Dove divori di questi tempi? Sempre dal vecchio Barbai.
– Ah, – esclamò con crescente stupore Gigi Mear, – sai anche del vecchio Barbai. C’eri forse anche tu?
– Io? Da Barba! Come vuoi ci fossi, se sto a Padova? Me l’hanno detto e mi hanno raccontato le belle prodezze che vi fai, con gli altri commensali, in quella vecchia… debbo dire bettola, macelleria, trattoria?
– Bettola, bettolaccia, – rispose il Mear, – ma adesso… eh, se devi desinare con me, bisogna che avverta a casa mia, la serva…
– Giovane?
– Eh no, vecchia, caro, vecchia! E da Barba, sai? non ci vado più, e prodezze, basta, da tre anni ormai. A una certa età…
– Dopo i quaranta!
– Dopo i quaranta, bisogna avere il coraggio di voltar le spalle a un cammino che, seguitando, ti porterebbe al precipizio. Scendere, va bene, ma pian pianino, pian pianino, senza ruzzolare. Ecco, vieni su. Sto qua. Ti fo vedere come mi son messa per benino la casetta.
– Pian pianino… per benino… la casetta… – cominciò a dire l’amico, salendo la scala, dietro Gigi Mear. – Ma tu mi parli anche in diminutivi, adesso, e sei così grosso, così superlativo, povero Gigione mio! Che t’hanno fatto? T’hanno bruciato la coda? Vuoi farmi piangere?
– Mah! – fece il Mear, aspettando sul pianerottolo che la serva venisse ad aprire la porta. – Bisogna prenderla ormai con le buone questa vitaccia, carezzarla, carezzarla coi diminutivi, o te la fa. Non voglio mica ridurmi alla fossa a quattro piedi, io.
– Ah tu credi l’uomo bipede? – scattò l’altro, a questo punto. – Non lo dire,
Gigione! So io che sforzi faccio certi momenti a tenermi ritto su due zampe soltanto. Credi, amico mio: a lasciar fare alla natura, noi saremmo, per inclinazione, tutti quadrupedi. La meglio cosa! Più comodi, ben posati, sempre in equilibrio… Quante volte mi butterei a camminare a terra, così con le mani puntate, gattone! Questa maledetta civiltà ci rovina! Quadrupede, io sarei una bella bestia selvaggia; quadrupede, ti sparerei un pajo di calci nel ventre per le bestialità che hai detto; quadrupede, non avrei moglie, né debiti, né pensieri… Vuoi farmi piangere? Me ne vado!
Gigi Mear, intontito dalla buffonesca loquela di quel suo amico piovuto dal cielo, lo osservava mettendo a tortura la memoria per sapere come diamine si chiamasse, come e quando lo avesse conosciuto, a Padova, da ragazzo o da studente d’Università; e passava e ripassava in rassegna tutti i suoi intimi amici d’allora, invano: nessuno rispondeva alla fisonomia di questo. Non ardiva intanto di domandargli uno schiarimento. L’intimità che esso gli dimostrava era tanta e tale, che temeva d’offenderlo. Si propose di riuscirvi con l’astuzia.
La serva tardava ad aprire: non s’aspettava il padrone così presto di ritorno. Gigi Mear sonò di nuovo, e quella venne alla fine, ciabattando.
– Vecchia mia, – le disse il Mear. – Eccomi di ritorno, e in compagnia. Apparecchierai per due, oggi, e disimpegnati! Con questo mio amico, che ha un nome curiosissimo, non si scherza, bada!
– Antropofago Capribarbicornìpede! – esclamò l’altro con un versaccio, che lasciò la vecchietta perplessa, se sorriderne o farsi la croce. – E nessuno vuol più saperne, di questo mio bel nome, vecchia! I direttori delle banche arricciano il naso, gli strozzini strabiliano. Soltanto mia moglie è stata felicissima di prenderselo; ma il nome soltanto, veh! le ho lasciato prendere. Me, no! me, no! Son troppo bel giovine, per l’anima di tutti i diavoli! Su, Gigione, poiché hai codesta debolezza, mostrami adesso le tue miserie. Tu vecchia, subito: –Biada alla bestia!
Il Mear, sconfitto, se lo portò in giro per le cinque stanzette del quartierino arredate con cura amorosa, con la cura di chi non voglia trovar più nulla da desiderare fuori della propria casa, fatto il proponimento di diventar chiocciola. Salottino, camera da letto, stanzino da bagno, sala da pranzo, studiolo.
Nel salottino, il suo stupore e la sua tortura s’accrebbero nel sentir parlare l’amico delle cose più intime e particolari della sua famiglia, guardando le fotografie disposte su la mensola.
– Gigione! Vorrei un cognato come questo tuo. Sapessi quant’è birbone il mio!
– Tratta forse male tua sorella?
– Tratta male me! E gli sarebbe così facile ajutarmi, in questi frangenti… Ma!
– Scusa, – disse il Mear, – non ricordo più come si chiami tuo cognato…
– Lascia fare! non te lo puoi ricordare: non lo conosci. Sta a Padova da due anni appena. Sai che m’ha fatto? Tuo fratello, tanto buono con me, m’aveva promesso ajuto, se quella canaglia m’avesse avallato le cambiali… Lo crederesti? M’ha negato la firma! E allora tuo fratello, che alla fin fine, benché amicissimo, è un estraneo, ne ha fatto a meno, tanto se n’è indignato… È vero che il nostro negozio è sicuro… Ma se ti dicessi la ragione del rifiuto di mio cognato! Sono ancora un bel giovine: non puoi negarlo; simpaticone, non fo per dire. Bene: la sorella di mio cognato ha avuto la cattiva ispirazione d’innamorarsi di me, poverina. Ottimo gusto, ma poco discernimento. Figurati se io… Basta. S’è avvelenata.
– Morta? – domandò il Mear, restando.
– No. Ha vomitato un pochino ed è guarita. Ma io, capirai, non ho potuto metter più piede in casa di mio cognato, dopo questa tragedia. Mangiamo, santo Dio, sì o no? Io non ci vedo più dalla fame. Allupo!
Poco dopo, a tavola, Gigi Mear, oppresso dalle espansioni d’affetto dell’amico, che lo caricava di male parole e per miracolo non lo picchiava, cominciò a domandargli notizie di Padova e di questo e di quello, sperando di fargli uscir di bocca il proprio nome, così per caso, o sperando almeno, nell’esasperazione crescente di punto in punto, che gli avvenisse di distrarsi dalla fissazione di venirne a capo, parlando d’altro.
– E di’ un po’, e quel Valverde, direttore della Banca d’Italia, con quella moglie bellissima e quel magnifico mostro di sorella, guercia, per giunta, se non m’inganno? Ancora a Padova?
L’amico, a questa interrogazione, scoppiò a ridere a crepapelle.
– Che cos’è? – riprese il Mear, incuriosito. – Non è forse guercia?
– Sta’ zitto! sta’ zitto! – pregò l’altro che non riusciva a frenar le risa, come in una convulsione. – Guercissima. E con un naso, Dio liberi, che le lascia vedere il cervello. È quella!
– Quella, chi?
– Mia moglie!
Gigi Mear restò intronato e potè a mala pena balbettare qualche sciocca scusa. Ma quegli riprese a ridere più forte e più a lungo di prima. Alla fine si quietò, aggrottò le ciglia, trasse un profondo sospiro.
– Caro mio, – disse, – ci sono eroismi ignorati nella vita, che la più sbrigliata fantasia di poeta non potrà mai arrivare a concepire!
– Eh sì! – sospirò il Mear. – Hai ragione… comprendo…
– Non comprendi un corno! – negò subito l’altro. – Credi che io voglia alludere a me? Io, l’eroe? Tutt’al più, la vittima potrei essere. Ma neppure. L’eroismo è stato quello di mia cognata: la moglie di Lucio Valverde. Senti un po’: cieco, stupido, imbecille…
– Io?
– No, io, io: potei lusingarmi che la moglie di Lucio Valverde si fosse innamorata di me, fino al punto di fare un torto al marito che, in coscienza, puoi crederlo, Gingin, se lo sarebbe meritato. Ma che! Ma che! Sai che era invece? Disinteressato spirito di sacrificio. Sta’ a sentire. Valverde parte, o meglio, finge di partire come si fa di solito (d’intesa, certo, con lei). E lei allora mi riceve in casa. Venuto il momento tragico della sorpresa, mi caccia in camera della cognata guercia, la quale, accogliendomi tutta tremante e pudibonda, aveva l’aria di sacrificarsi anche lei per la pace e per l’onore del fratello. Io ebbi appena il tempo di gridare: «Ma abbia pazienza, signora mia, com’è possibile che Lucio creda sul serio…». Non potei finire; Lucio irruppe, furibondo, nella camera, e il resto te lo puoi immaginare.
– E come? – esclamò Gigi Mear, – tu, col tuo spirito…
– E le mie cambiali? – gridò l’altro. – Le mie cambiali in sofferenza, di cui Valverde m’accordava la rinnovazione per le finte buone grazie della moglie? Ora me le avrebbe protestate ipso facto, capisci? E mi avrebbe rovinato. Vaissimo ricatto! Non ne parliamo più, ti prego. In fin de’ conti, visto e considerato che non ho neppure un soldo di mio e che non ne avrò mai, visto e considerato che non ho intenzione di prender moglie…
– Come! – lo interruppe, a questo punto, Gigi Mear. – Se hai sposato!
– Io? Ah, io no, davvero! Lei mi ha sposato, lei sola. Io, per conto mio, gliel’ho detto avanti. Patti chiari, amici cari: «Lei, signorina, vuole il mio nome? E se lo pigli pure: non so proprio che farmene! Ma basta, eh?».
– Cosicché, – arrischiò Gigi Mear, gongolante, – non c’è altro: prima si chiamava Valverde e ora si chiama…
– Purtroppo! – sbuffò l’altro, alzandosi di tavola.
– Ah no, senti! – esclamò Gigi Mear, non potendone più e prendendo il coraggio a due mani. – Tu m’hai fatto passare una mattinata deliziosa: io ti ho accolto come un fratello: ora mi devi fare un favore…
– Vorresti, per caso, in prestito, mia moglie?
– No, grazie! Voglio che tu mi dica come ti chiami.
– Io? come mi chiamo io? – domandò l’amico, sentendosi cascar dalle nuvole e appuntandosi l’indice d’una mano sul petto, quasi non credesse a se stesso. – E che vuol dire? non lo sai? Non ti ricordi più?
– No – confessò, avvilito, il Mear. – Scusami, chiamami l’uomo più smemorato della terra; ma io proprio potrei giurare di non averti mai conosciuto.
– Ah sì? Ah, benissimo! benissimo! – riprese quegli. – Caro Gigione mio, qua la mano. Ti ringrazio con tutto il cuore del pranzo e della compagnia, e me ne vado senza dirtelo. Figurati!
– Tu me lo dirai, perdio! – scattò Gigi Mear, balzando in piedi. – Mi sono torturato il cervello un’intera mattinata! Non ti faccio uscire di qua, se non me lo dici.
– Ammazzami, – rispose l’amico impassibile, – tagliami a pezzi; non te lo dirò.
– Via, sii buono! – riprese, cangiando tono, il Mear. – Non avevo mai sperimentato prima d’ora… guarda, questa mia mancanza di memoria, e ti giuro che mi fa una penosissima impressione: tu, in questo momento, rappresenti un incubo per me. Dimmi come ti chiami, per carità!
– Vattelapesca.
– Te ne scongiuro! Vedi: la dimenticanza non m’ha impedito di farti sedere alla mia tavola; e, del resto, quand’anche non t’avessi mai conosciuto, quand’anche tu non fossi mai stato amico mio, lo sei diventato adesso e carissimo, credi! sento per te una simpatia fraterna, ti ammiro, ti vorrei sempre con me: dunque, dimmi come ti chiami!
– È inutile, sai, – concluse l’altro, – non mi seduci. Sii ragionevole: vuoi che mi privi adesso di questo inatteso godimento, di farti restare cioè con un palmo di naso, senza sapere a chi tu abbia dato da mangiare? No, via: pretendi troppo, e si vede proprio che non mi conosci più. Se vuoi che non ti serbi rancore dell’indegna dimenticanza, lasciami andar via così.
– Vattene via subito, allora, te ne scongiuro! – esclamò Gigi Mear, esasperato. – Non ti posso più vedere innanzi a me!
– Me ne vado, sì. Ma prima un bacetto, Gigione: me ne riparto domani…
– Non te lo do! – gridò il Mear, – se non mi dici…
– Basta, no, no, basta. E allora, addio, eh? – troncò l’altro.
E se n’andò ridendo e voltandosi per la scala a salutarlo con la mano, ancora una volta.
Amicissimi – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Amicissimi – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Amicissimi – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
Amicissimi – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com