Il «fumo» – Audio lettura

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Legge Beraniel
«E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d’angoscia: quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare.»

Prima pubblicazione: Nella raccolta Bianche e nere, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1904. Già composta probabilmente nel 1901

Il «fumo»
Onofrio Tomaselli (1866-1956), I Carusi, 1905.

Il «fumo»

Legge Beraniel

Da LibriVox.org

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            I. Appena i zolfatari venivan su dal fondo della «buca» col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde là della collina lontana, che chiudeva a ponente l’ampia vallata.

            Qua, le coste aride, livide di tufi arsicci, non avevano più da tempo un filo d’erba, sforacchiate dalle zollare come da tanti enormi formicaj e bruciate tutte dal fumo.

            Sul verde di quella collina, gli occhi infiammati, offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiù, si riposavano.

            A chi attendeva a riempire di minerale grezzo i forni o i «calcheroni», a chi vigilava alla fusione dello zolfo, o s’affaccendava sotto i forni stessi a ricevere dentro ai giornelli che servivan da forme lo zolfo bruciato che vi colava lento come una densa morchia nerastra, la vista di tutto quel verde lontano alleviava anche la pena del respiro, l’agra oppressura del fumo che s’aggrappava alla gola, fino a promuovere gli spasimi più crudeli e le rabbie dell’asfissia.

            I carusi, buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po’ all’aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della «buca», grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai «calcheroni» accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all’aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini.

             – Beati loro!

            Per tutti, infine, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva l’olio alle loro lucerne che a mala pena rompevano il crudo tenebrore della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l’unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati.

            I contadini della collina, all’incontro, perfino sputavano: – Puh! – guardando a quelle coste della vallata.

            Era là il loro nemico: il fumo devastatore.

            E quando il vento spirava di là, recando il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato, guardavano gli alberi come a difenderli e borbottavano imprecazioni contro quei pazzi che s’ostinavano a scavar la fossa alle loro fortune e che, non contenti d’aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell’unico occhio di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni anche le belle campagne.

            Tutti, infatti, dicevano che anche sotto la collina ci doveva esser lo zolfo. Quelle creste in cima, di calcare siliceo e, più giù, il briscale degli affioramenti lo davano a vedere; gl’ingegneri minerarii avevano più volte confermato la voce.

            Ma i proprietarii di quelle campagne, quantunque tentati insistentemente con ricche profferte, non solo non avevan voluto mai cedere in affitto il sottosuolo, ma neanche alla tentazione di praticar loro stessi per curiosità qualche assaggio, così sopra sopra.

            La campagna era lì, stesa al sole, che tutti potevano vederla: soggetta sì alle cattive annate, ma compensata poi anche dalle buone; la zolfara, all’incontro, cieca, e guaj a scivolarci dentro. Lasciare il certo per l’incerto sarebbe stata impresa da pazzi.

            Queste considerazioni, che ciascuno di quei proprietarii della collina ribadiva di continuo nella mente dell’altro, volevano essere come un impegno per tutti di resistere uniti alle tentazioni, sapendo bene che se uno di loro avesse ceduto e una zolfara fosse sorta là in mezzo, tutti ne avrebbero sofferto; e allora, cominciata la distruzione, altre bocche d’inferno si sarebbero aperte e, in pochi anni, tutti gli alberi, tutte le piante sarebbero morti, attossicati dal fumo, e addio campagne.

            II. Tra i più tentati era don Mattia Scala che possedeva un poderetto con un bel giro di mandorli e d’olivi a mezza costa della collina, ove, per suo dispetto, affiorava con più ricca promessa il minerale.

            Parecchi ingegneri del R. Corpo delle Miniere eran venuti a osservare, a studiare quegli affioramenti e a far rilievi. Lo Scala li aveva accolti come un marito geloso può accogliere un medico, che gli venga in casa a visitare qualche segreto male della moglie.

            Chiudere la porta in faccia a quegli ingegneri governativi che venivan per dovere d’ufficio, non poteva. Si sfogava in compenso a maltrattare quegli altri che, o per conto di qualche ricco produttore di zolfo o di qualche società mineraria, venivano a proporgli la cessione o l’affitto del sottosuolo.

             – Corna, vi cedo! – gridava. – Neanche se m’offriste i tesori di Creso; nean che se mi diceste: Mattia, raspa qua con un piede, come fanno le galline; ci trovi tanto zolfo, che diventi d’un colpo più ricco di… che dico? di re Fàllari! Non rasperei, parola d’onore.

            E se, poco poco, quelli insistevano:

             – Insomma, ve n’andate, o chiamo i cani?

            Gli avveniva spesso di ripetere questa minaccia dei cani, perché il suo poderetto aveva il cancello su la trazzera, cioè su la via mulattiera che traversava la collina, accavalcandola, e che serviva da scorciatoja agli operai delle zolfare, ai capimastri, a gl’ingegneri direttori, che dalla prossima città si recavano alla vallata o ne tornavano. Ora, quest’ultimi segnatamente pareva avessero preso gusto a farlo stizzire; e, almeno una volta la settimana, si fermavano innanzi al cancello, vedendo don Mattia lì presso, per domandargli:

             –    Niente, ancora?

             –    Tè, Scampirrol  Tè, Reginal

            Don Mattia, per chiasso, chiamava davvero i cani. Aveva avuto anche lui un tempo la mania delle zolfare, per cui s’era ridotto – eccolo là – scannato miserabile! Ora non poteva veder neanche da lontano un pezzo di zolfo che subito, con rispetto parlando, non si sentisse rompere lo stomaco.

             – E che è, il diavolo? – gli domandavano. E lui:

             –   Peggio! Perché vi danna l’anima, il diavolo, ma vi fa ricchi, se vuole! Mentre lo zolfo vi fa più poveri di Santo Giobbe; e l’anima ve la danna lo stesso!

            Parlando, pareva il telegrafo. (Il telegrafo s’intende come usava prima, ad asta.) Lungo lungo, allampanato, sempre col cappellaccio bianco in capo, buttato indietro, a spera; e portava a gli orecchi un pajo di catenaccetti d’oro, che davano a vedere quello che, del resto, egli non si curava di nascondere, come fosse cioè venuto su da una famiglia mezzo popolana e mezzo borghese.

            Nel volto raso, pallido, di quel pallore proprio dei biliosi, gli spiccavano stranamente le sopracciglia enormi, spioventi, come un gran pajo di baffi che si fosse sfogato a crescer lì, visto che giù, sul labbro, non gli era nemmen permesso di spuntare. E sotto, all’ombra di quelle sopracciglia, gli lampeggiavano gli occhi chiari, taglienti, vivi vivi, mentre le narici del gran naso aquilino, energico, gli si dilatavano di continuo e fremevano.

            Tutti i possidenti della collina gli volevano bene.

            Ricordavano com’egli, molto ricco un giorno, fosse venuto lì a pigliar possesso di quei pochi ettari di terra comperati dopo la rovina, col denaro ricavato dalla vendita della casa in città e di tutte le masserizie di essa e delle gioje della moglie morta di crepacuore; ricordavano come si fosse prima rintanato nelle quattro stanze della casa rustica annessa al podere, senza voler vedere nessuno, insieme con una ragazza di circa sedici anni, Jana, che tutti in principio avevano creduto sua figlia e che poi s’era saputo esser la sorella minore d’un tal Dima Chiarenza, cioè proprio di quell’infame che lo aveva tradito e rovinato.

            C’era tutta una storia sotto.

            Lo Scala aveva conosciuto questo Chiarenza ragazzo, e lo aveva sempre ajutato, sapendolo orfano di padre e di madre, con quella sorellina molto più piccola di lui; se l’era anzi preso con sé per farlo lavorare; poi, avendolo sperimentato veramente esperto e amante del lavoro, aveva voluto averlo anche socio nell’affitto d’una zolfara. Tutte le spese per la lavorazione se l’era accollate lui; Dima Chiarenza doveva soltanto star lì, sul posto, vigilare all’amministrazione e ai lavori.

            Intanto Jana (Januzza, come la chiamavano) gli cresceva in casa. Ma don Mattia aveva anche un figlio (unico!) quasi della stessa età, che si chiamava Neli. Si sa, presto padre e madre s’erano accorti che i due ragazzi avevano preso a volersi bene, non come fratello e sorella; e per non tener la paglia accanto al fuoco e dare tempo al tempo, avevano pensato giudiziosamente d’allontanare dalla casa Neli, che non aveva ancora diciotto anni, e lo avevano mandato alla zolfara, a tener compagnia e a prestare ajuto al Chiarenza. Fra due, tre anni, li avrebbero sposati, se tutto, come pareva, fosse andato bene.

            Poteva mai sospettare don Mattia Scala che Dima Chiarenza, di cui si fidava come di se stesso, Dima Chiarenza, ch’egli aveva raccolto dalla strada, trattato come un figliuolo e messo a parte degli affari, Dima Chiarenza lo dovesse tradire, come Giuda tradì Cristo?

            Proprio così! S’era messo d’accordo, l’infame, con l’ingegnere direttore della zolfara, d’accordo coi capimastri, coi pesatori, coi carrettieri, per rubarlo a man salva su le spese d’amministrazione, su lo zolfo estratto, finanche sul carbone che doveva servire ad alimentar le macchine per l’eduzione delle acque sotterranee. E la zolfara, una notte, gli s’era allagata, irreparabilmente, distruggendo l’impianto del piano inclinato, che allo Scala costava più di trecento mila lire.

            Neli, che in quella notte d’inferno s’era trovato sul luogo e aveva partecipato a gl’inutili sforzi disperati per impedire il disastro, presentendo l’odio che il padre da quell’ora avrebbe portato al Chiarenza, e in cui forse avrebbe coinvolto Jana, la sorella innocente, la sua Jana; temendo che avrebbe chiamato anche lui, forse, responsabile della rovina per non essersi accorto o per non aver denunziato a tempo il tradimento di quel Giuda che doveva esser tra poco suo cognato; nella stessa notte, era fuggito come un pazzo, in mezzo, alla tempesta; e scomparso, senza lasciar nessuna traccia di sé.

            Pochi giorni dopo la madre era morta, assistita amorosamente da Jana, e lo Scala s’era trovato solo, in casa, rovinato, senza più la moglie, senza più il figlio, solo con quella ragazza, la quale, come impazzita dall’onta e dal cordoglio, s’era stretta a lui, non aveva voluto lasciarlo, aveva minacciato di buttarsi da una finestra s’egli la avesse respinta in casa del fratello.

            Vinto da quella fermezza e reprimendo la repulsione che la sua vista ora gli destava, lo Scala aveva condisceso a condurla con sé, vestita di nero, come una figliuola due volte orfana, là, nel poderetto acquistato allora.

            Uscendo a poco a poco, con l’andar del tempo, dal suo lutto, s’era messo a scambiare qualche parola coi vicini e a dar notizie di sé e della ragazza.

             –    Ah, non è figlia vostra?

             –    No. Ma come se fosse.

            Si vergognava dapprima a dir chi era veramente. Del figlio, non diceva nulla. Era una spina troppo grande. E del resto, che notizie poteva darne? Non ne aveva. Se n’era tanto occupata la questura, ma senza venire a capo di nulla.

            Dopo alcuni anni, però, Jana, stanca d’aspettar così senza speranza il ritorno del fidanzato, aveva voluto tornarsene in città, in casa del fratello, il quale, sposata una vecchia di molti denari, famigerata usuraja, s’era messo a far l’usurajo anche lui, ed era adesso tra i più ricchi del paese.

            Così lo Scala era restato solo, lì, nel poderetto. Òtto anni erano già trascorsi e, almeno apparentemente, aveva ripreso l’umore di prima; era divenuto amico di tutti i proprietarii della collina che, spesso, sul tramonto venivano a trovarlo dai poderi vicini.

            Pareva che la campagna avesse voluto compensarlo dei danni della zolfara.

            Era pure stata una fortuna l’aver potuto acquistare quei pochi ettari di terra, perché uno dei proprietarii dei sei poderi in cui era frazionata la collina, il Bufera, riccone, s’era fitto in capo di diventar col tempo padrone di tutte quelle terre. Prestava denaro e andava a mano a mano allargando i confini del suo fondo. Già s’era annesso quasi metà del podere di un certo Nino Mo; e aveva ridotto un altro proprietario, il Làbiso, a vivere in un pezzettino di terra largo quanto un fazzoletto da naso, anticipandogli la dote per cinque figliuole; teneva da un pezzo gli occhi anche su le terre del Lopes; ma questi, per bizza, dovendo disfarsi dopo una serie di male annate d’una parte della sua tenuta, s’era contentato di venderla, anche a minor prezzo, a un estraneo: allo Scala.

            In pochi anni, buttatosi tutto al lavoro, per distrarsi dalle sue sciagure, don Mattia aveva talmente beneficato quei pochi ettari di terra, che ora gli amici, il Lopes stesso, quasi stentavano a riconoscerli; e ne facevano le meraviglie.

            Il Lopes, veramente, si rodeva dentro dalla gelosia. Rosso di pelo, dal viso lentigginoso, e tutto sciamannato, teneva di solito il cappello buttato sul naso, come per non veder più niente, né nessuno; ma sotto la falda di quel cappello qualche occhiata obliqua gli sguisciava di tanto in tanto, come nessuno s’aspettava da quei grossi occhi verdastri che pareva covassero il sonno.

            Girato il podere, gli amici si riducevano su lo spiazzetto innanzi alla cascina.

            Là, lo Scala li invitava a sedere sul murello che limitava giro giro, sul davanti, la scarpata su cui la cascina era edificata. Ai piedi di quella scarpata, dalla parte di dietro, sorgevano, come a proteggere la cascina, certe pioppe nere, alte alte, di cui don Mattia non si sapeva dar pace, perché il Lopes ce l’avesse piantate.

             –    Che stanno a farci? Me lo dite? Non danno frutto e ingombrano.

             –    E voi buttatele a terra e fatene carbone, – gli rispondeva, indolente, il Lopes.

            Ma il Butera consigliava:

             –    Vedete un po’, prima di buttarle giù, se qualcuno ve le prende.

             –    E chi volete che le prenda?

             –    Mah! Quelli che fanno i Santi di legno.

             –    Ah! I Santi! Guarda, guarda! Ora capisco, – concludeva don Mattia – se li fanno di questo legno, perché non fanno più miracoli i Santi!

            Su quelle pioppe, al vespro, si davano convegno tutti i passeri della collina, e col loro fitto, assordante cinguettio disturbavano gli amici che si trattenevano lì a parlare, al solito, delle zolfare e dei danni delle imprese minerarie.

            Moveva quasi sempre il discorso Nocio Butera, il quale, com’era il possidente più ricco, così era anche la più grossa pancia di tutte quelle contrade. Era avvocato, ma una volta sola in vita sua, poco dopo ottenuta la laurea, s’era provato a esercitar la professione: s’era impappinato nel bel meglio della sua prima arringa; smarrito; con le lagrime in pelle, come un bambino, lì, davanti ai giurati e alla Corte aveva levato le braccia, a pugni chiusi, contro la Giustizia raffigurata nella volta con tanto di bilancia in mano, gemendo, esasperato: – Eh che! Santo Dio! – perché, povero giovine, aveva sudato una camicia a cacciarsi l’arringa a memoria e credeva di poterla recitare proprio bene, tutta filata, senza impuntature.

            Ogni tanto, ancora, qualcuno gli ricordava quel fiasco famoso:

             – Eh che, don No’, santo Dio!

            E Nocio Butera figurava di sorriderne anche lui, ora, masticando: – Già…

            già… – mentre si grattava con le mani paffute le fedine nere su le guance rubiconde o s’aggiustava sul naso a gnocco o su gli orecchi il sellino o le staffe degli occhiali d’oro. Veramente avrebbe potuto riderne di cuore, perché, se come avvocato aveva fatto quella pessima prova, come coltivatore di campi e amministratore di beni, via, portava bandiera. Ma l’uomo, si sa, l’uomo non si vuol mai contentare, e Nocio Butera pareva godesse soltanto nel sapere che altri, come lui, aveva fatto cilecca in qualche impresa. Veniva nel fondo dello Scala unicamente per annunziar la rovina prossima o già accaduta di questo o di quello, e per spiegarne le ragioni e dimostrare così, che a lui non sarebbe certo accaduta.

            Tino Làbiso, lungo lungo, rinfichito, tirava dalla tasca dei calzoni un pezzo-Ione a dadi rossi e neri, vi strombettava dentro col naso che pareva una buccina marina; poi ripiegava diligentemente il pezzolone, se lo ripassava, così ripiegato, parecchie volte sotto il naso, e se lo rimetteva in tasca; infine, da uomo prudente, che non si lascia mai scappar giudizii avventati, diceva:

             –    Può essere.

             –    Può essere? È è è! – scattava Nino Mo, che non poteva soffrire quell’aria flemmatica del Làbiso.

            Il Lopes accennava di scuotersi dalla cupa noja e, sotto al cappellaccio buttato sul naso, consigliava con voce sonnolenta:

             – Lasciate parlare don Mattia che se n’intende più di voi.

            Ma don Mattia, ogni volta, prima di mettersi a parlare, si recava in cantina per offrire a gli amici un buon boccale di vino.

             – Aceto, avvelenatevi!

            Beveva anche lui, sedeva, s’attortigliava le gambe e domandava:

             –    Di che si tratta?

             –    Si tratta, – prorompeva al solito Nino Mo, – che sono tante bestie, tutti, a uno a uno!

            -Chi?

             –    Ma quei figli di cane! I zolfatari. Scavano, scavano, e il prezzo dello zolfo giù, giù, giù! Senza capire che fanno la loro e la nostra rovina; perché tutti i danari vanno a finir là, in quelle buche, in quelle bocche d’inferno sempre affamate, bocche che ci mangiano vivi!

             –    E il rimedio, scusate? – tornava a domandare lo Scala.

             –    Limitare, – rispondeva allora placidamente Nocio Butera – limitare la produzione dello zolfo. L’unica, per me, sarebbe questa.

             –    Madonna, che locco! – esclamava subito don Mattia Scala sorgendo in piedi per gestire più liberamente: – Scusate, don Nocio mio, locco, sì, locco e ve lo provo! Dite un po’: quante, tra mille zolfare, credete che siano coltivate direttamente, in economia, dai proprietarii? Duecento appena! Tutte le altre sono date in affitto. Tu, Tino Làbiso, ne convieni?

             –    Può essere, – ripeteva Tino Làbiso, intento e grave. E Nino Mo:

             –    Può essere? È è è!

            Don Mattia protendeva le mani per farlo tacere. – Ora, don Nocio mio, quanto vi pare che duri, per l’ingordigia e la prepotenza dei proprietarii panciuti come voi, l’affitto d’una zolfara? Dite su! dite su!

             –    Dieci anni? – arrischiava, incerto, il Butera, sorridendo con aria di condiscendente superiorità.

             –    Dodici, – concedeva lo Scala – venti, anzi, qualche volta. Bene, e che ve ne fate? che frutto potete cavarne in così poco tempo? Per quanto lesti e fortunati si sia, in venti anni non c’è modo neanche di rifarsi delle spese che ci vogliono per coltivare come Dio comanda una zolfara. Questo, per dirvi che, data in commercio una minore domanda, se è possibile che il proprietario coltivatore rallenti la produzione per non rinvilire la merce, non sarà mai possibile per l’affittuario a breve scadenza, il quale, facendolo, sacrificherebbe i proprii interessi a beneficio del successore. Dunque l’impegno, l’accanimento dell’affittuario nel produrre quanto più gli sia possibile, mi spiego? Poi, sprovvisto com’è quasi sempre di mezzi, deve per forza smerciar subito il suo prodotto, a qualunque prezzo, per seguitare il lavoro; perché, se non lavora – voi lo sapete – il proprietario gli toglie la zolfara. E, per conseguenza, come dice Nino Mo: lo zolfo giù, giù, giù, come se fosse pietraccia vile. Ma, del resto, voi don Nocio che avete studiato, e tu Tino Làbiso: sapreste dirmi che diavolo sia lo zolfo e a che cosa serva?

            Finanche il Lopes, a questa domanda speciosa, si voltava a guardare con gli occhi sbarrati. Nino Mo si cacciava in tasca le mani irrequiete, come se volesse cercarvi rabbiosamente la risposta; mentre Tino Làbiso tirava al solito daccapo il pezzolone per soffiarsi il naso e prender tempo, da uomo prudente.

             –    Oh bella! – esclamava intanto Nocio Butera, imbarazzato anche lui. – Serve… serve per… per inzolfare le viti, serve.

             –    E… e anche per… già, per i fiammiferi di legno, mi pare,.– aggiungeva Tino Làbiso ripiegando con somma diligenza il fazzoletto.

             –    Mi pare… mi pare… – si metteva a sghignazzare don Mattia Scala. – Che vi pare? E proprio così! Questi due soli usi ne conosciamo noi. Domandatene a chi volete: nessuno vi saprà dire per che altro serva lo zolfo. E intanto lavoriamo, ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingojarselo; ci tirano una bella fischiata, e addio! Che ne faranno, di là, nei loro paesi? Nessuno lo sa; nessuno si cura di saperlo! E la ricchezza nostra, intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via così dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote. Unico guadagno: le nostre campagne bruciate dal fumo.

            I quattro amici, a questa vivace, lampantissima dimostrazione della cecità con cui si esercitava l’industria e il commercio di quel tesoro concesso dalla natura alle loro contrade e intorno a cui pur ferveva tanta briga, tanta guerra di lucro, insidiosa e spietata, restavano muti, come oppressi da una condanna di perpetua miseria.

            Allora lo Scala, riprendendo il primo discorso, si metteva a rappresentar loro tutti gli altri pesi, a cui doveva sottostare un povero affittuario di zolfare. Li sapeva tutti, lui, per averli purtroppo sperimentati. Ed ecco, oltre l’affitto breve, l’’estaglio, cioè la quota d’affitto che doveva esser pagata in natura, sul prodotto lordo, al proprietario del suolo, il quale non voleva affatto sapere se il giacimento fosse ricco o povero, se le zone sterili fossero rare o frequenti, se il sotterraneo fosse asciutto o invaso dalle acque, se il prezzo fosse alto o basso, se insomma l’industria fosse o no remunerativa. E, oltre l’estaglio, le tasse governative d’ogni sorta; e poi l’obbligo di costruire, non solo le gallerie inclinate per l’accesso alla zolfara e quella per la ventilazione e i pozzi per l’estrazione e l’eduzione delle acque; ma anche i calcheroni, i forni, le strade, i caseggiati e quanto mai potesse occorrere alla superficie per l’esercizio della zolfara. E tutte queste costruzioni, alla fine del contratto, dovevano rimanere al proprietario del suolo, il quale, per giunta, esigeva che tutto gli fosse consegnato in buon ordine e in buono stato, come se le spese fossero state a suo carico. Né bastava! Neppur dentro le gallerie sotterranee l’affittuario era padrone di lavorare a suo modo, ma ad archi, o a colonne, o a pasture, come il proprietario imponeva, talvolta anche contro le esigenze stesse del terreno.

            Si doveva esser pazzi o disperati, no? per accettar siffatte condizioni, per farsi mettere così i piedi sul collo. Chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d’un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affitto, dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure, ad altre soperchierie.

            Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiù, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti; per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giù per le gallerie e le scale della buca.

            Quando lo Scala terminava di parlare e i vicini si alzavano per tornarsene alle loro abitazioni rurali, la luna, alta e come smarrita nel cielo, quasi non fosse di quella notte, ma la luna d’un tempo lontano lontano, dopo il racconto di tante miserie, illuminando le due coste della vallata ne faceva apparir più squallida e più lugubre la desolazione.

            E ciascuno, avviandosi, pensava che là, sotto quelle coste così squallidamente rischiarate, cento, duecento metri sottoterra, c’era gente che s’affannava ancora a scavare, a scavare, poveri picconieri sepolti laggiù, a cui non importava se su fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per loro.

Seconda parte

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            III. Tutti, a sentirlo parlare, credevano che lo Scala avesse già dimenticato i dolori passati e non si curasse più di nulla ormai, tranne di quel suo pezzetto di terra, da cui non si staccava più da anni, nemmeno per un giorno.

            Del figliuolo scomparso, sperduto per il mondo, – se qualche volta ne parlava, perché qualcuno gliene moveva il discorso – si sfogava a dir male, per l’ingratitudine che gli aveva dimostrata, per il cuor duro di cui aveva dato prova.

             – Se è vivo, – concludeva – è vivo per sé; per me, è morto, e non ci penso più.

            Diceva così, ma, intanto, non partiva per l’America da tutti quei dintorni un contadino, dal quale non si recasse di nascosto, alla vigilia della partenza, per consegnargli segretamente una lettera indirizzata a quel suo figliuolo.

             – Non per qualche cosa, oh! Se niente niente t’avvenisse di vederlo o d’averne notizia, laggiù.

            Molte di quelle lettere gli eran tornate indietro, con gli emigranti rimpatriati dopo quattro o cinque anni, gualcite, ingiallite, quasi illeggibili ormai. Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all’Argentina, né al Brasile, né a gli Stati Uniti.

            Egli ascoltava, poi scrollava le spalle:

             – E che me n’importa? Da’ qua, da’ qua. Non mi ricordavo più neanche d’averti dato questa lettera per lui.

            Non voleva mostrare a gli estranei la miseria del suo cuore, l’inganno in cui sentiva il bisogno di persistere ancora: che il figlio, cioè, fosse là, in America, in qualche luogo remoto, e che dovesse un giorno o l’altro ritornare, venendo a sapere ch’egli s’era adattato alla nuova condizione e possedeva una campagna, dove viveva tranquillo, aspettandolo.

            Era poca, veramente, quella terra; ma da parecchi anni don Mattia covava, di nascosto al Butera, il disegno d’ingrandirla, acquistando la terra d’un suo vicino, col quale già s’era messo a prezzo e accordato. Quante privazioni, quanti sacrifizii non s’era imposti, per metter da parte quanto gli bisognava per attuare quel suo disegno! Era poca, sì, la sua terra; ma da un pezzo egli, affacciandosi al balcone della cascina, s’era abituato a saltar con gli occhi il muro di cinta tra il suo podere e quello del vicino e a considerar come sua tutta quanta quella terra. Raccolta la somma convenuta, aspettava solamente che il vicino si risolvesse a firmare il contratto e a sloggiare di là.

            Gli sapeva mill’anni, allo Scala; ma, per disgrazia, gli era toccato ad aver da fare con un benedett’uomo! Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don Filippino Lo Cicero, ma senza dubbio un po’ svanito di cervello. Leggeva dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con una scimmia che gli avevano regalata.

            La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino la curava come una figliuola, la carezzava, s’assoggettava senza mai ribellarsi a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d’esser compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata su la trabacca del letto, ch’era il suo posto preferito, egli, seduto su la poltrona, si metteva a leggerle qualche squarcio delle Georgiche o delle Bucoliche:

             – Tityre, tu patulae…

            Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d’ammirazione curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o gustava la dolcezza, posava il libro su le ginocchia, socchiudeva gli occhi e si metteva a dire celerissimamente: – Bello! bello! bello! bello! bello!  – abbandonandosi man mano su la spalliera, come se svenisse dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata, costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioja:

             – Senti, Tita, senti… Bello! bello! bello! bello! bello…

            Ora don Mattia Scala voleva la campagna: aveva fretta, cominciava a essere stufo, e aveva ragione: la somma convenuta era pronta – e notare che quel denaro a don Filippino avrebbe fatto tanto comodo; ma, Dio benedetto, come avrebbe poi potuto in città gustar la poesia pastorale e campestre del suo divino Virgilio?

             – Abbi pazienza, caro Mattia!

            La prima volta che lo Scala s’era sentito rispondere così, aveva sbarrato tanto d’occhi:

             – Mi burlate, o dite sul serio?

            Burlare? Ma neanche per sogno! Diceva proprio sul serio, don Filippino.

            Certe cose lo Scala, ecco, non le poteva capire. E poi c’era Tita, Tita ch’era abituata a vivere in campagna, e che forse non avrebbe più saputo farne a meno, poverina.

            Nei giorni belli don Filippino la conduceva a passeggio, un po’ facendola camminare pian pianino coi suoi piedi, un po’ reggendola in braccio, come fosse una bambina; poi sedeva su qualche masso a pie d’un albero; Tita allora s’arrampicava sui rami e, spenzolandosi, afferrata per la coda, tentava di ghermirgli la papalina per il fiocco o di acciuffargli la parrucca o di strappargli il Virgilio dalle mani.

             – Bonina, Tita, bonina! Fammi questo piacere, povera Tita!

            Povera, povera, sì, perché era condannata, quella cara bestiola. E Mattia Scala, dunque, doveva avere ancora un po’ di pazienza.

             – Aspetta almeno, – gli diceva don Filippino – che questa povera bestiola se ne vada. Poi la campagna sarà tua. Va bene?

            Ma era già passato più d’un anno di comporto, e quella brutta bestiaccia non si risolveva a crepare.

             – Vogliamo farla invece guarire? – gli disse un giorno lo Scala. – Ho una ricetta coi fiocchi!

            Don Filippino lo guardò sorridente, ma pure con una cert’ansia, e domandò:

             –    Mi burli?

             –    No. Sul serio. Me l’ha data un veterinario che ha studiato a Napoli: bravissimo.

             –    Magari, caro Mattia!

             –    Dunque fate così. Prendete quanto un litro d’olio fino. Ne avete, olio fino? ma fino, proprio fino?

             –    Lo compro, anche se dovessi pagarlo sangue di papa.

             –    Bene. Quanto un litro. Mettetelo a bollire, con tre spicchi d’aglio, dentro.

             –    Aglio?

             –    Tre spicchi. Date ascolto a me. Quando l’olio comincerà a muoversi, prima

            che alzi il bollo, toglietelo dal fuoco. Prendete allora una buona manata di farina di Majorca e buttatecela dentro.

             –    Farina di Majorca?

             –    Di Majorca, gnorsì. Mestate; poi, quando si sarà ridotta come una pasta molle, oleosa, applicatela, ancora calda, sul petto e su le spalle di quella brutta bestia; ricopritela ben bene di bambagia, di molta bambagia, capite?

             –    Benissimo: di bambagia; e poi?

             –    Poi aprite una finestra e buttatela giù.

             –    Ohooo! – miaolò don Filippino. – Povera Tita!

             –    Povera campagna, dico io! Voi non ci badate; io debbo guardarla da lontano, e intanto, pensate: non c’è più vigna; gli alberi aspettano da una diecina d’anni almeno, la rimonda; i frutici crescono senza innesti, coi polloni sparpagliati, che si succhian la vita l’un l’altro e par che chiedano ajuto da tutte le parti; di molti olivi non resta che da far legna. Che debbo comperarmi, alla fine? Possibile seguitare così?

            Don Filippino, a queste rimostranze, faceva una faccia talmente afflitta, che don Mattia non si sentiva più l’animo d’aggiunger altro.

            Con chi parlava, del resto? Quel pover uomo non era di questo mondo. Il sole, il sole vero, il sole della giornata non era forse mai sorto per lui: per lui sorgevano ancora i soli del tempo di Virgilio.

            Aveva vissuto sempre là, in quella campagna, prima insieme con lo zio prete, che, morendo, gliel’aveva lasciata in eredità, poi sempre solo. Orfano a tre anni, era stato accolto e cresciuto da quello zio, appassionato latinista e cacciatore per la vita. Ma di caccia don Filippino non s’era mai dilettato, forse per l’esperienza fatta su lo zio, il quale – quantunque prete – era terribilmente focoso: l’esperienza cioè, di due dita saltate a quella buon’anima, dalla mano sinistra, nel caricare il fucile. Si era dato tutto al latino, lui, invece, con passione quieta, contentandosi di svenire dal piacere, parecchie volte, durante la lettura; mentre l’altro, lo zio prete, si levava in piedi, nei suoi soprassalti d’ammirazione, infocato in volto, con le vene della fronte così gonfie che pareva gli volessero scoppiare, e leggeva ad altissima voce e in fine prorompeva, scaraventando il libro per terra o su la faccia rimminchionita di don Filippino:

             –   Sublime, santo diavolo!

            Morto di colpo questo zio, don Filippino era rimasto padrone della campagna; ma padrone per modo di dire.

            In vita, lo zio prete aveva anche posseduto una casa nella vicina città, e questa casa aveva lasciato nel testamento al figliuolo di un’altra sua sorella, il quale si chiamava Saro Trigona. Ora forse, costui, considerando la propria condizione di sfortunato sensale di zolfo, di sfortunatissimo padre di famiglia con una caterva di figliuoli, s’aspettava che lo zio prete lasciasse tutto a lui, la casa e la campagna, con l’obbligo, si capisce, di prendere con sé e di mantenere, vita natural durante, il cugino Lo Cicero, il quale, cresciuto sempre come un figlio di famiglia, sarebbe stato inetto, per altro, ad amministrar da sé quella campagna. Ma, poiché lo zio non aveva avuto per lui questa considerazione, Saro Trigona, non potendo per diritto, cercava di trar profitto in tutte le maniere anche dell’eredità del cugino, e mungeva spietatamente il povero don Filippino. Quasi tutti i prodotti della campagna andavano a lui: frumento, fave, frutta, vino, ortaggi; e, se don Filippino ne vendeva qualche parte di nascosto, come se non fosse roba sua, il cugino Saro, scoprendo la vendita, gli piombava in campagna su le furie, quasi avesse scoperto una frode a suo danno, e invano don Filippino gli dimostrava umilmente che quel denaro gli serviva per i molti lavori di cui la campagna aveva bisogno. Voleva il denaro:

             –   O mi uccido! – gli diceva, accennando di cavar la rivoltella dal fodero sotto la giacca. – Mi uccido qua, davanti a te Filippino, ora stesso! Perché non ne posso più, credimi! Nove figliuoli, Cristo sacrato, nove figliuoli che mi piangono per il pane!

            E meno male quando veniva solo, in campagna, a far quelle scenate! Certe volte conduceva con sé la moglie e la caterva dei figliuoli. A don Filippino, abituato a vivere sempre solo, gli pareva d’andar via col cervello. Quei nove nipoti, tutti maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora quattordici anni quantunque «piangenti per il pane» prendevano d’assalto, come nove demoni scatenati, la tranquilla casa campestre dello zio; gli mettevano tutto sossopra ballavano, ballavano proprio quelle stanze, dagli urli, dalle risa, dai pianti dalle corse sfrenate; poi s’udiva, immancabilmente, il fracasso, il rovinio di qualche grossa rottura, almeno almeno di qualche specchio d’armadio andato in briciole; allora Saro Trigona balzava in piedi, gridando:

             – Faccio l’organo! faccio l’organo!

            Rincorreva, acciuffava quelle birbe; distribuiva calci, schiaffi, pugni, sculacciate; poi, com’essi si mettevano a strillare in tutti i toni, li disponeva in fila, per ordine d’altezza, e così facevano l’organo.

             – Fermi là! Belli… belli davvero, guarda, Filippino! Non sono da dipingere? Che sinfonia!

            Don Filippino si turava gli orecchi, chiudeva gli occhi e si metteva a pestare i piedi dalla disperazione.

             – Mandali via! Rompano ogni cosa; si portino via casa, alberi, tutto: ma la sciatemi in pace per carità !

            Aveva torto, però, don Filippino. Perché la cugina, per esempio, non veniva mai con le mani vuote a trovarlo in campagna: gli portava qualche papalina ricamata, con un bel fiocco di seta: come no? quella che teneva in capo; o un pajo di pantofole gli portava, pur ricamate da lei: quelle che teneva ai piedi. E la parrucca? Dono e attenzione del cugino, per guardarlo dai raffreddori frequenti, a cui andava soggetto, per la calvizie precoce. Parrucca di Francia! Gli era costata un occhio, a Saro Trigona. E la scimmia, Tita? Anch’essa, regalo della cugina: regalo di sorpresa, per rallegrare gli ozii e la solitudine del buon cugino esiliato in campagna. Come no?

             – Somarone, scusate, somarone! – gli gridava don Mattia Scala. – O perché mi fate ancora aspettare a pigliar possesso? Firmate il contratto, levatevi da questa schiavitù! Col denaro che vi do io, voi senza vizii, voi con così pochi bisogni, potreste viver tranquillo, in città, gli anni che vi restano. Siete pazzo? Se perdete ancora altro tempo per amore di Tita e di Virgilio, vi ridurrete all’elemosina, vi ridurrete!

            Perché don Mattia Scala, non volendo che andasse in malora il podere ch’egli considerava già come suo, s’era messo ad anticipare al Lo Cicero parte della somma convenuta.

             –    Tanto, per la potatura; tanto per gl’innesti; tanto per la concimazione… Don Filippino, diffalchiamo!

             –    Diffalchiamo! – sospirava don Filippino. – Ma lasciami stare qui. In città, vicino a quei demonii, morirei dopo due giorni. Tanto a te non do ombra. Non sei tu qua il padrone, caro Mattia? Puoi far quello che ti pare e piace, lo non ti dico niente. Basta che tu mi lasci star tranquillo…

             –    Sì. Ma intanto, – gli rispondeva lo Scala – i beneficii se li gode vostro cugino!

             –    Che te ne importa? – gli faceva osservare il Lo Cicero. – Questo denaro tu dovresti darmelo tutto in una volta, è vero? Me lo dai invece così, a spizzico; e ci perdo io, in fondo, perché, diffalcando oggi, diffalcando domani, mi verrà un giorno a mancare, mentre tu lo avrai speso qua, a beneficar la terra che allora sarà tua.


            IV. Il ragionamento di don Filippino era senza dubbio convincente; ma che sicuro aveva intanto lo Scala di quei denari spesi nel fondo di lui? E se don Filippino fosse venuto a mancare d’un colpo, Dio liberi! senza aver tempo e modo di firmar l’atto di vendita, per quel tanto che oramai gli toccava, Saro

            Trigona, suo unico erede, avrebbe poi riconosciuto quelle spese e il precedente accordo col cugino?

            Questo dubbio sorgeva di tanto in tanto nell’animo di don Mattia; ma poi pensava che, a voler forzare don Filippino a cedergli il possesso del fondo, a volerlo mettere alle strette per quei denari anticipati, poteva correre il rischio di sentirsi rispondere: «O infine, chi t’ha costretto ad anticiparmeli? Per me, il fondo poteva restar bene com’era e andar anche in malora: non me ne sono mai curato. Non puoi mica, ora, cacciarmi di casa mia, se io non voglio». Pensava inoltre lo Scala che aveva da fare con un vero galantuomo, incapace di far male, neanche a una mosca. Quanto al pericolo che morisse d’un colpo, questo pericolo non c’era: senza vizii, e viveva così morigeratamente, sempre sano e vegeto, che prometteva anzi di campar cent’anni. Del resto, il termine del comporto era già fissato: alla morte della scimmia, che poco più ormai si sarebbe fatta aspettare.

            Era tal fortuna, infine, per lui, il potere acquistar quella terra a così modico prezzo, che gli conveniva star zitto e fidare; gli conveniva tenervi così, anzi, la mano sopra, con quei denari che ci veniva spendendo a mano a mano, quietamente, e come gli pareva e piaceva. Il vero padrone, lì, era lui; stava più lì, si può dire, che nel suo podere.

             – Fate questo; fate quest’altro.

            Comandava; s’abbelliva la campagna, e non pagava tasse. Che voleva di più?

            Tutto poteva aspettarsi il povero don Mattia, tranne che quella scimmia maledetta, che tanto lo aveva fatto penare, gli dovesse far l’ultima!

            Era solito lo Scala di levarsi prima dell’alba, per vigilare ai preparativi del lavoro prestabilito la sera avanti col garzone: non voleva che questi, dovendo, per esempio, attendere alla rimonda, tornasse due o tre volte dalla costa alla cascina o per la scala, o per la pietra d’affilare la ronca o l’accetta, o per l’acqua o per la colazione: doveva andarsene munito e provvisto di tutto punto, per non perder tempo inutilmente.

             – Lo ziro, ce l’hai? Il companatico? Tieni, ti do una cipolla. E svelto, mi rac comando.

            Passava quindi, prima che il sole spuntasse, nel podere del Lo Cicero.

            Quel giorno, a causa d’una carbonaja a cui si doveva dar fuoco, lo Scala fece tardi. Erano già passate le dieci. Intanto, la porta della cascina di don Filippino era ancora chiusa, insolitamente. Don Mattia picchiò: nessuno gli rispose: picchiò di nuovo, invano; guardò su ai balconi e alle finestre: chiusi per notte, ancora.

            «Che novità?» pensò, avviandosi alla casa colonica lì vicino, per aver notizie dalla moglie del garzone.

            Ma anche lì trovò chiuso. Il podere pareva abbandonato.

            Lo Scala allora si portò le mani alla bocca per farsene portavoce e, rivolto verso la campagna, chiamò forte il garzone. Come questi, poco dopo, dal fondo della piaggia, gli diede la voce, don Mattia gli domandò se don Filippino fosse là con lui. Il garzone gli rispose che non s’era visto. Allora, già con un po’ d’apprensione, lo Scala tornò a picchiare alla cascina; chiamò più volte: – Don Filippino! Don Filippino! – e, non avendo risposta, né sapendo che pensarne, si mise a stirarsi con una mano quel suo nasone palpitante.

            La sera avanti egli aveva lasciato l’amico in buona salute. Malato, dunque, non poteva essere, almeno fino al punto di non poter lasciare il letto per un minuto. Ma forse, ecco, s’era dimenticato di aprir le finestre delle camere poste sul davanti, ed era uscito per la campagna con la scimmia: il portone forse lo aveva chiuso, vedendo che nella casa colonica non c’era alcuno di guardia.

            Tranquillatosi con questa riflessione, si mise a cercarlo per la campagna, ma fermandosi di tratto in tratto qua e là, dove con l’occhio esperto e previdente dell’agricoltore scorgeva a volo il bisogno di qualche riparo; di tratto in tratto chiamando:

             – Don Filippino, oh don Filippììì…

            Si ridusse così in fondo alla piaggia, dove il garzone attendeva con tre giornanti a zappare la vigna.

             – E don Filippino? Che se n’è fatto? Io non lo trovo.

            Ripreso dalla costernazione, di fronte all’incertezza di quegli uomini, a cui pareva strano ch’egli avesse trovata chiusa la villa com’essi la avevano lasciata nell’avviarsi al lavoro, lo Scala propose di ritornar su tutti insieme a vedere che fosse accaduto.

             –    Ho beli’e capito! Questa mattina è infilata male!

             –    Quando mai, lui! – badava a dire il garzone. – Di solito così mattiniero…

             –    Ma gli starà male la scimmia, vedrete! – disse uno dei giornanti. – La terrà in braccio, e non vorrà muoversi per non disturbarla.

             –    Neanche a sentirsi chiamato, come l’ho chiamato io, non so più quante volte? – osservò don Mattia. – Va’ là! Qualcosa dev’essergli accaduto!

            Pervenuti su lo spiazzo innanzi alla cascina, tutti e cinque, ora l’uno ora l’altro, si provarono a chiamarlo, inutilmente; fecero il giro della cascina; dal lato di tramontana, trovarono una finestra con gli scuri aperti; si rincorarono:

             – Ah! – esclamò il garzone. – Ha aperto, finalmente! E la finestra della cucina.

             – Don Filippino! – gridò lo Scala. – Mannaggia a voi! Non ci fate disperare! Attesero un pezzo coi nasi per aria; tornarono a chiamarlo in tutti i modi; alla

            fine, don Mattia, ormai costernatissimo e infuriato, prese una risoluzione.

             – Una scala!

            Il garzone corse alla casa colonica e ritornò poco dopo con la scala.

             – Monto io! – disse don Mattia, pallido e fremente al solito, scostando tutti. Pervenuto all’altezza della finestra, si tolse il cappellaccio bianco, vi cacciò

            il pugno e infranse il vetro, poi aprì la finestra e saltò dentro.

            Il focolare, lì, in cucina, era spento. Non s’udiva nella casa alcun rumore. Tutto, là dentro, era ancora come se fosse notte: soltanto dalle fessure delle imposte traspariva il giorno.

             – Don Filippino! – chiamò ancora una volta lo Scala: ma il suono della sua stessa voce, in quel silenzio strano, gli suscitò un brivido, dai capelli alla schiena.

            Attraversò, a tentoni, alcune stanze; giunse alla camera da letto, anch’essa al bujo. Appena entrato, s’arrestò di botto. Al tenue barlume che filtrava dalle imposte, gli parve di scernere qualcosa, come un’ombra, che si moveva sul letto, strisciando, e dileguava. I capelli gli si drizzarono su la fronte; gli mancò la voce per gridare. Con un salto fu al balcone, lo aprì, si voltò e spalancò gli occhi e la bocca, dal raccapriccio, scotendo le mani per aria. Senza fiato, senza voce, tutto tremante e ristretto in sé dal terrore, corse alla finestra della cucina.

             –    Su… su, salite! Ammazzato! Assassinato!

             –    Assassinato? Come! Che dice? – esclamarono quelli che attendevano ansiosamente, slanciandosi tutti e quattro insieme per montare. Il garzone volle andare innanzi agli altri, gridando:

             –    Piano per la scala! A uno a uno!

            Sbalordito, allibito, don Mattia si teneva con tutt’e due le mani la testa, ancora con la bocca aperta e gli occhi pieni di quell’orrenda vista.

            Don Filippino giaceva sul letto col capo rovesciato indietro, affondato nel guanciale, come per uno stiramento spasmodico, e mostrava la gola squarciata e sanguinante: teneva ancora alzate le mani, quelle manine che non gli parevano nemmeno, orrende ora a vedere, così scompostamente irrigidite e livide.

            Don Mattia e i quattro contadini lo mirarono un pezzo, atterriti; a un tratto,

            trabalzarono tutt’e cinque, a un rumore che venne di sotto al letto: si guardarono negli occhi; poi, uno di loro si chinò a guardare.

             –   La scimmia! – disse con un sospiro di sollievo, e quasi gli venne di ridere. Gli altri quattro, allora, si chinarono anch’essi a guardare.

            Tita, accoccolata sotto il letto, con la testa bassa e le braccia incrociate sul petto, vedendo quei cinque che la esaminavano, giro giro, così chinati e stravolti, tese le mani alle tavole del letto e saltò più volte a balziculi, poi accomodò la bocca ad o, ed emise un suono minaccioso:

             –   Chhhh…

             – Guardate! – gridò allora lo Scala. – Sangue… Ha le mani… il petto insan guinati… essa lo ha ucciso!

            Si ricordò di ciò che gli era parso di scernere, entrando, e raffermò, convinto:

             – Essa, sì! l’ho veduta io, con gli occhi miei! Stava sul letto…

            E mostrò ai quattro contadini inorriditi le scigrigne su le gote e sul mento del povero morto: Guardate! Ma come mai? La scimmia? Possibile? Quella bestia ch’egli teneva da tanti anni con sé, notte e giorno?

            Fosse arrabbiata? – osservò uno dei giornanti, spaventato. Tutt’e cinque, a un tempo, con lo stesso pensiero si scostarono dal letto.

            Aspettate! Un bastone… – disse don Mattia. E cercò con gli occhi nella camera, se ce ne fosse qualcuno, o se ci fosse almeno qualche oggetto che potesse farne le veci.

            Il garzone prese per la spalliera una seggiola e si chinò; ma gli altri, così inermi, senza riparo, ebbero paura e gli gridarono:

             – Aspetta! Aspetta!

            Si munirono di seggiole anche loro. Il garzone allora spinse la sua più volte sotto il letto: Tita balzò fuori dall’altra parte, s’arrampicò con meravigliosa agilità su per la trabacca del letto, andò ad accoccolarsi in cima al padiglione, e lassù, pacificamente, come se nulla fosse, si mise a grattarsi il ventre, poi a scherzar con le cocche d’un fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato alla gola.

            I cinque uomini stettero a mirare quell’indifferenza bestiale, rimbecilliti.

             – Che fare, intanto? – domandò lo Scala, abbassando gli occhi sul cadavere; ma subito alla vista di quella gola squarciata, voltò la faccia. – Se lo copris simo con lo stesso lenzuolo?

            Nossignore! – disse subito il garzone. – Vossignoria dia ascolto a me. Bisogna lasciarlo così come si trova. Io sono qua, di casa, e non voglio impicci con la giustizia, io. Anzi mi siete tutti testimoni.

            Che c’entra adesso! – esclamò don Mattia, dando una spallata. Ma il garzone riprese ponendo avanti le mani:

            Non si sa mai, con la giustizia, padrone mio! Siamo poveretti, nojaltri, e con noi… so io quel che mi dico…

            Io penso, invece, – gridò don Mattia, esasperato, – penso che lui, là, povero pazzo, è morto come un minchione, per la sua stolidaggine, e che io, intanto, più pazzo e più stolido di lui, son bell’e rovinato! Oh, ma – tutti testimoni davvero, voi qua – che in questa campagna io ho speso i miei denari, il sangue mio: lo direte… Ora andate ad avvertire quel bel galantuomo di Saro Trigona e il pretore e il delegato, che vengano a vedere le prodezze di questa… Maledetta! – urlò, con uno scatto improvviso, strappandosi dal capo il cappellaccio e lanciandolo contro la scimmia.

            Tita lo colse a volo, lo esaminò attentamente, vi stropicciò la faccia, come per soffiarsi il naso, poi se lo cacciò sotto e vi si pose a sedere. I quattro contadini scoppiarono a ridere, senza volerlo.

            V. Niente: né un rigo di testamento, né un appunto pur che fosse in qualche registro o in qualche pezzetto di carta volante.

            E non bastava il danno: toccavano per giunta a don Mattia Scala le beffe degli amici. Eh già, perché infatti, Nocio Butera, per esempio, avrebbe facilmente immaginato, che don Filippino Lo Cicero sarebbe morto a quel modo, ucciso dalla scimmia.

             – Tu, Tino Làbiso, che ne dici, eh? Può essere, è vero? Che bestia! che be stia! che bestia!

            E don Mattia si calcava fin sopra gli occhi con le mani afferrate alla tesa il cappellaccio bianco, e pestava i piedi dalla rabbia.

            Saro Trigona, finché il cugino non fu sotterrato, dopo gli accertamenti del medico e del pretore, non gli volle dare ascolto, protestando che la disgrazia non gli consentiva di parlar d’affari.

             – Sì! Come se la scimmia non gliel’avesse regalata lui, apposta! – si sfogava a dire lo Scala, di nascosto.

            Avrebbe dovuto farle coniare una medaglia d’oro, a quella scimmia, e invece – ingrato, – l’aveva fatta fucilare: proprio così, fu-ci-la-re, il giorno dopo, non ostante che il giovane medico, venuto in campagna insieme col pretore, avesse trovato una graziosa spiegazione del delitto incosciente della bestia. Tita, malata di tisi, si sentiva forse mancare il respiro, anche a causa, probabilmente, di quel fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato al collo, forse un po’ troppo stretto, o perché se lo fosse stretto lei stessa tentando di slegarselo.’ Ebbene: forse era saltata sul letto per indicare al padrone dove si sentiva mancare il respiro, lì, al collo, e gliel’aveva preso con le mani; poi, nell’oppressura, non riuscendo a tirare il fiato, esasperata, forse s’era messa a scavare con le unghie, lì, nella gola del padrone. Ecco fatto! Bestia era, infine. Che capiva?

            E il pretore, serio serio, accigliato, col testone calvo, rosso, sudato, aveva fatto ripetuti segni d’approvazione alla rara perspicacia del giovine medico – tanto carino!

            Basta. Sotterrato il cugino, fucilata la scimmia, Saro Trigona si mise a disposizione di don Mattia Scala.

             – Caro don Mattia, discorriamo.

            C’era poco da discorrere. Lo Scala, con quel suo fare a scatti, gli espose brevemente il suo accordo col Lo Cicero, e come, aspettando di giorno in giorno che quella maledetta bestiaccia morisse per pigliar possesso, avesse speso nel podere, in più stagioni, col consenso del Lo Cicero stesso, beninteso, parecchie migliaja di lire, che dovevano per conseguenza dettarsi dalla somma convenuta. Chiaro, eh?

             –    Chiarissimo! – rispose il Trigona, che aveva ascoltato con molta attenzione il racconto dello Scala, approvando col capo, serio serio, come il pretore. – Chiarissimo! E io, dal canto mio, caro don Mattia, sono disposto a rispettare l’accordo. Fo il sensale; e, voi lo sapete: tempacci! Per collocare una partita di zolfo ci vuol la mano di Dio: la senseria se ne va in francobolli e in telegrammi. Questo, per dirvi che io, con la mia professione, non potrei attendere alla campagna, di cui non so proprio che farmi. Ho poi, come sapete, caro don Mattia, nove figliuoli maschi, che debbono andare a scuola: bestie, uno più dell’altro: ma vanno a scuola. Debbo, dunque, per forza stare in città. Veniamo a noi. C’è un guajo, c’è. Eh, caro don Mattia, pur troppo! Guajo grosso. Nove figliuoli, dicevamo, e voi non sapete, non potete farvi un’idea di quanto mi costino: di scarpe soltanto… ma già, è inutile che stia a farvi il conto! Impazzireste. Per dirvi, caro don Mattia…

             –    Non me lo dite più, per carità, caro don Mattia, – proruppe lo Scala, irritato di quell’interminabile discorso che non veniva a capo di nulla. – Caro don Mattia… caro don Mattia… basta! concludiamo! Ho già perso troppo tempo con la scimmia e con don Filippino!

             –    Ecco, – riprese il Trigona, senza scomporsi. – Volevo dirvi che ho avuto sempre bisogno di ricorrere a certi messeri, che Dio ne scampi e liberi, per… mi spiego? e, si capisce, mi hanno messo i piedi sul collo. Voi sapete chi porta la bandiera, nel nostro paese, in questa specie d’operazioni…

             –    Dima Chiarenza? – esclamò subito lo Scala scattando in piedi, pallidissimo. Scaraventò il cappello per terra, si passò furiosamente una mano su i capelli; poi, rimanendo con la mano dietro la nuca, sbarrando gli occhi e appuntando l’indice dell’altra mano, come un’arma, verso il Trigona:

             –    Voi? – aggiunse. – Voi, da quel boja? da quell’assassino, che mi ha mangiato vivo? Quanto avete preso?

             –    Aspettate, vi dirò, – rispose il Trigona, con calma dolente, ponendo innanzi una mano. – Non io! perché quel boja, come voi dite benissimo, della mia firma non ha mai voluto saperne…

             –    E allora… don Filippino? – domandò lo Scala coprendosi il volto con le mani, come per non veder le parole che gli uscivano di bocca.

             –    L’avallo… – sospirò il Trigona, tentennando il capo amaramente.

            Don Mattia si mise a girar per la stanza, esclamando, con le mani per aria:

             –    Rovinato! Rovinato! Rovinato!

             –    Aspettate, – ripeté il Trigona. – Non vi disperate. Vediamo di rimediarla. Quanto intendevate di dare voi, a Filippino, per la terra?

             –    Io? – gridò lo Scala, fermandosi di botto, con le mani sul petto. – Diciotto mila lire, io: contanti! Son circa sei ettari di terra: tre salme giuste, con la nostra misura: sei mila lire a salma, contanti! Dio sa quel che ho penato permetterle insieme: e ora, ora mi vedo sfuggir l’affare, la terra sotto i piedi, la terra che già consideravo mia!

            Mentre don Mattia si sfogava così, Saro Trigona si toccava le dita, accigliato, per farsi i conti:

             –    Diciotto mila… oh, dunque, si dice…

             –    Piano, – lo interruppe lo Scala. – Diciotto mila, se la buon’anima m’avesse lasciato subito il possesso del fondo. Ma più di sei mila già ce l’ho spese. E questo è conto che si può far subito, sul luogo. Ho i testimoni: quest’anno stesso, ho piantato due migliaja di vitigni americani, spaventosi! e poi…

            Saro Trigona si levò in piedi per troncare quella discussione, dichiarando:

             –    Ma dodici mila non bastano, caro don Mattia. Gliene debbo più di venti mila a quel boja, figuratevi!

             –    Venti mila lire? – esclamò lo Scala, trasecolando. – E che avete mangiato, denari, voi e i vostri figliuoli?

            Il Trigona trasse un lunghissimo sospiro e, battendo una mano sul braccio dello Scala, disse:

             – E le mie disgrazie, don Mattia? Non è ancora un mese, che mi è toccato a pagar nove mila lire a un negoziante di Licata, per differenza di prezzo su una partita di zolfo. Lasciatemi stare! Furono le ultime cambiali che mi avallò il povero Filippino, Dio l’abbia in gloria!

            Dopo altre inutili rimostranze, convennero di recarsi quel giorno stesso, con le dodici mila lire in mano, dal Chiarenza, per tentare un accordo.

            VI. La casa di Dima Chiarenza sorgeva su la piazza principale del paese.

            Era una casa antica, a due piani, annerita dal tempo, innanzi alla quale solevano fermarsi con le loro macchinette fotografiche i forestieri, inglesi e tedeschi che si recavano a veder le zolfare, destando una certa meraviglia mista di dileggio o di commiserazione negli abitanti del paese, per i quali quella casa non era altro che una cupa decrepita stamberga, che guastava l’armonia della piazza, col palazzo comunale di fronte, stuccato e lucido, che pareva di marmo, e maestoso anche, con quel loggiato a otto colonne; la Matrice di qua, il Palazzo della Banca Commerciale di là, che aveva a pianterreno uno splendido Caffè da una parte, dall’altra il Circolo di Compagnia.

            Il Municipio, secondo i soci di questo Circolo, avrebbe dovuto provvedere a quello sconcio, obbligando il Chiarenza a dare almeno un intonaco decente alla sua casa. Avrebbe fatto bene anche a lui, dicevano: gli si sarebbe forse schiarita un po’ la faccia che, da quando era entrato in quella casa, gli era diventata dello stesso colore. – Però – soggiungevano – volendo esser giusti, gliel’aveva recata in dote la moglie, quella casa, ed egli, proferendo il sì sacramentale, s’era forse obbligato a rispettare la doppia antichità.

            Don Mattia Scala e Saro Trigona trovarono nella vasta anticamera quasi buja una ventina di contadini, vestiti tutti, su per giù, allo stesso modo, con un greve abito di panno turchino scuro; scarponi di cuojo grezzo imbullettati, ai piedi; in capo, una berretta nera a calza con la nappina in punta: alcuni portavano gli orecchini; tutti, essendo domenica, rasi di fresco.

             –    Annunziami, – disse il Trigona al servo che se ne stava seduto presso la porta, innanzi a un tavolinetto, il cui piano era tutto segnato di cifre e di nomi.

             –    Abbiano pazienza un momento, – rispose il servo, che guardava stupito lo Scala, conoscendo l’antica inimicizia di lui per il suo padrone. – C’è dentro don Tino Làbiso.

             –    Anche lui? Disgraziato! – borbottò don Mattia, guardando i contadini in attesa, stupiti come il servo della presenza di lui in quella casa.

            Poco dopo, dall’espressione dei loro volti lo Scala poté facilmente argomentare chi fra essi veniva a saldare il suo debito, chi recava soltanto una parte della somma tolta in prestito e aveva già negli occhi la preghiera che avrebbe rivolta all’usurajo perché avesse pazienza per il resto fino al mese venturo; chi non portava nulla e pareva schiacciato sotto la minaccia della fame, perché il Chiarenza lo avrebbe senza misericordia spogliato di tutto e buttato in mezzo a una strada.

            A un tratto, l’uscio del banco s’aprì, e Tino Làbiso, col volto infocato, quasi paonazzo, con gli occhi lustri, come se avesse pianto, scappò via senza veder nessuno, tenendo in mano il suo pezzolone a dadi rossi e neri: l’emblema della sua sfortunata prudenza.

            Lo Scala e il Trigona entrarono nella sala del banco.

            Era anch’essa quasi buja, con una sola finestra ferrata, che dava su un angusto vicoletto. Di pieno giorno, il Chiarenza doveva tenere su la scrivania il lume acceso, riparato da un mantino verde.

            Seduto su un vecchio seggiolone di cuojo innanzi alla scrivania, il cui palchetto a casellario era pieno zeppo di carte, il Chiarenza teneva su le spalle uno scialletto, in capo una papalina, e un pajo di mezzi guanti di lana alle mani orribilmente deformate dall’ artritide. Quantunque non avesse ancora quarant’anni, ne mostrava più di cinquanta, la faccia gialla, itterica, i capelli grigi, fitti, aridi che gli si allungavano come a un malato su le tempie. Aveva, in quel momento, gli occhiali a staffa rialzati su la fronte stretta, rugosa, e guardava innanzi a sé con gli occhi torbidi, quasi spenti sotto le grosse palpebre gravi. Evidentemente, si sforzava di dominare l’interna agitazione e di apparir calmo di fronte allo Scala.

            La coscienza della propria infamità, non gì’ispirava ora che odio, odio cupo e duro, contro tutti e segnatamente contro il suo antico benefattore, sua prima vittima. Non sapeva ancora che cosa lo Scala volesse da lui; ma era risoluto a non concedergli nulla, per non apparire pentito d’una colpa ch’egli aveva sempre sdegnosamente negata, rappresentando lo Scala come un pazzo.

            Questi, che da anni e anni non lo aveva più riveduto, neanche da lontano, rimase dapprima stupito, a mirarlo. Non lo avrebbe riconosciuto, ridotto in quello stato, se lo avesse incontrato per via.

            «Il castigo di Dio» pensò; e aggrottò le ciglia, comprendendo subito che, così ridotto, quell’uomo doveva credere d’aver già scontato il delitto e di non dovergli più, perciò, nessuna riparazione.

            Dima Chiarenza, con gli occhi bassi, si pose una mano dietro le reni per tirarsi su, pian piano, dal seggiolone di cuojo, col volto atteggiato di spasimo; ma Saro Trigona lo costrinse a rimaner seduto e, subito, col suo solito opprimente garbuglio di frasi, cominciò a esporre lo scopo della visita: egli, vendendo la campagna ereditata dal cugino al caro don Mattia lì presente, avrebbe pagato, subito, dodici mila lire, a scomputo del suo debito, al carissimo don Dima, il quale, dal canto suo, doveva obbligarsi di non muovere nessuna azione giudiziaria contro l’eredità Lo Cicero, aspettando…

             –    Piano, piano, figliuolo, – lo interruppe a questo punto il Chiarenza, riponendosi gli occhiali sul naso. – Già l’ho mossa oggi stesso, protestando le cambiali a firma di vostro cugino, scadute da un pezzo. Le mani avanti!

             –    E il mio denaro? – scattò allora lo Scala. – Il fondo del Lo Cicero non valeva più di diciotto mila lire; ma ora io ce ne ho spese più di sei mila; dunque, facendolo stimare onestamente, tu non potresti averlo per meno di ventiquattro mila.

             –    Bene, – rispose, calmissimo, il Chiarenza. – Siccome il Trigona me ne deve venticinque mila, vuol dire che io, prendendomi il podere, vengo a perdercene mille, oltre gl’interessi.

             –    Dunque… venticinque? – esclamò allora don Mattia, rivolto al Trigona, con gli occhi sbarrati.

            Questi si agitò su la seggiola, come su un arnese di tortura, balbettando:

             –    Ma… co… come?

             –    Ecco, figlio mio: ve lo faccio vedere, – rispose senza scomporsi il Chiarenza, ponendosi di nuovo la mano dietro le reni e tirandosi su con pena. – Ci sono i registri. Parlano chiaro.

             –    Lascia stare i registri! – gridò lo Scala, facendosi avanti. – Qua ora si tratta de’ miei denari: quelli spesi da me nel podere.

             –    E che ne so io? – fece il Chiarenza, stringendosi nelle spalle e chiudendo gli occhi. – Chi ve li ha fatti spendere?

            Don Mattia Scala ripetè, su le furie, al Chiarenza il suo accordo col Lo Cìcero.

             –    Male, – soggiunse, richiudendo gli occhi, il Chiarenza, per la pena che gli costava la calma che voleva dimostrare; ma quasi non tirava più fiato. – Male. Vedo che voi, al solito, non sapete trattare gli affari.

             –    E me lo rinfacci tu? – gridò lo Scala, – tu!

             –    Non rinfaccio nulla; ma, santo Dio, avreste dovuto almeno sapere, prima di spendere codesti denari che voi dite, che il Lo Cicero non poteva più vendere a nessuno il podere, perché aveva firmato a me tante cambiali per un valore che sorpassava quello del podere stesso.

             –    E così, – riprese lo Scala – tu ti approfitterai anche del mio denaro?

             –    Non mi approfitto di nulla, io, – rispose, pronto, il Chiarenza. – Mi pare di avervi dimostrato che, anche secondo la stima che voi fate della terra, io vengo a perderci più di mille lire.

            Saro Trigona cercò d’interporsi, facendo balenare al Chiarenza le dodici mila lire contanti che don Mattia aveva nel portafogli.

             –    Il denaro è denaro!

             –    E vola! – aggiunse subito il Chiarenza. – Il meglio impiego del denaro oggi è su terre, sappiatelo, caro mio. Le cambiali, armi da guerra, a doppio taglio: la rendita sale e scende; la terra, invece, è là, che non si muove.

            Don Mattia ne convenne e, cangiando tono e maniera, parlò al Chiarenza del suo lungo amore per quella campagna contigua, soggiungendo che non avrebbe saputo acconciarsi mai a vedersela tolta, dopo tanti stenti durati per essa. Si contentasse, dunque, il Chiarenza, per il momento, del denaro ch’egli aveva con sé; avrebbe avuto il resto, fino all’ultimo centesimo, da lui, non più dal Trigona, tenendo anche ferma la stima di ventiquattro mila lire, come se quelle sei mila lui non ce le avesse spese; e anche fino al saldo delle venticinque mila, se voleva, cioè dell’intero debito del Trigona.

             –   Che posso dirti di più?

            Dima Chiarenza ascoltò, con gli occhi chiusi, impassibile, il discorso appassionato dello Scala. Poi gli disse, assumendo anche lui un altro tono, più funebre e più grave:

             –    Sentite, don Mattia. Vedo che vi sta molto a cuore quella terra, e volentieri ve la lascerei, per farvi piacere, se non mi trovassi in queste condizioni di salute. Vedete come sto? I medici mi hanno consigliato riposo e aria di campagna…

             –    Ah! – esclamò lo Scala fremente. – Te ne verresti là, dunque, accanto a me?

             –    Per altro, – riprese il Chiarenza – voi ora non mi dareste neanche la metà di quanto io debbo avere. Chi sa dunque fino a quando dovrei aspettare per esser pagato; mentre ora, con un lieve sacrificio, prendendomi quella terra, posso riavere subito il mio e provvedere alla mia salute. Voglio lasciar tutto in regola, io, ai miei eredi.

             –    Non dir così! – proruppe lo Scala, indignato e furente. – Tu pensi agli eredi? Non hai figli, tu! Pensi ai nipoti? Giusto ora? Non ci hai mai pensato. Di’ franco: Voglio nuocerti, come t’ho sempre nociuto! Ah non t’è bastato d’avermi distrutta la casa, d’avermi quasi uccisa la moglie e messo in fuga per disperazione l’unico figlio, non t’è bastato d’avermi ridotto là, misero, in ricompensa del bene ricevuto; anche la terra ora vuoi levarmi, la terra dove io ho buttato il sangue mio? Ma perché, perché così feroce contro di me? Che t’ho fatto io? Non ho nemmeno fiatato dopo il tuo tradimento da Giuda: avevo da pensare alla moglie che mi moriva per causa tua, al figlio scomparso per causa tua: prove, prove materiali del furto non ne avevo, per mandarti in galera; e dunque, zitto; me ne sono andato là, in quei tre palmi di terra; mentre qua tutto il paese, a una voce, t’accusava, ti gridava: Ladro! Giuda! Non io, non io! Ma Dio c’è, sai? e t’ha punito: guarda le tue mani ladre come sono ridotte… Te le nascondi? Sei morto! sei morto! e ti ostini ancora a farmi del male? Oh ma, sai? questa volta, no: tu non ci arrivi! Io t’ho detto i sacrificii che sarei disposto a fare per quella terra. Alle corte, dunque, rispondi: – Vuoi lasciarmela?

             –    No! – gridò, pronto, rabbiosamente, il Chiarenza, torvo, stravolto.

             –    E allora, né io né tu !

            E lo Scala s’avviò per uscire.

             –   Che farete? – domandò il Chiarenza, rimanendo seduto e aprendo le labbra a un ghigno squallido.

            Lo Scala si voltò, alzò la mano a un violento gesto di minaccia e rispose, guardandolo fieramente negli occhi:

             –   Ti brucio!

            VII. Uscito dalla casa del Chiarenza e sbarazzatosi con una furiosa scrollata di spalle del Trigona che voleva dimostrargli, tutto dolente, la sua buona intenzione, don Mattia Scala si recò prima in casa d’un suo amico avvocato per esporgli il caso di cui era vittima e domandargli se, potendo agire giudiziariamente per il riconoscimento del suo credito, sarebbe riuscito a impedire al Chiarenza di pigliar possesso del podere.

            L’avvocato non comprese nulla in principio, sopraffatto dalla concitazione con cui lo Scala aveva parlato. Si provò a calmarlo, ma invano.

             –    Insomma, prove, documenti, ne avete?

             –    Non ho un corno!

             –    E allora andate a farvi benedire! Che volete da me?

             –    Aspettate, – gli disse don Mattia, prima d’andarsene. – Sapreste, per caso, indicarmi dove sta di casa l’ingegnere Scelzi, della Società delle Zolfare di Comitini?

            L’avvocato gl’indico la via e il numero della casa, e don Mattia Scala, ormai deciso, vi andò difilato.

            Lo Scelzi era uno di quegli ingegneri che, passando ogni mattina per la via mulattiera innanzi al cancello della villa per recarsi alle zolfare della vallata, lo avevano con maggior insistenza sollecitato per la cessione del sottosuolo. Quante volte lo Scala, per chiasso, non lo aveva minacciato di chiamare i cani per farlo scappare!

            Quantunque di domenica lo Scelzi non ricevesse per affari, si affrettò a lasciar passare nello studio l’insolito visitatore.

             – Voi, don Mattia? Qual buon vento?

            Lo Scala con le enormi sopracciglia aggrottate si piantò di fronte al giovine ingegnere sorridente, lo guardò negli occhi, e rispose:

             –    Sono pronto.

             –    Ah! benissimo! Cedete?

             –    Non cedo. Voglio contrattare. Sentiamo i patti.

             –    E non li sapete? – esclamò lo Scelzi. – Ve li ho ripetuti tante volte…

             –    Avete bisogno di far altri rilievi lassù? – domandò don Mattia, cupo, impetuoso.

             –    Eh no! Guardate… – rispose l’ingegnere indicando la grande carta geologica appesa alla parete, ov’era tracciato per cura del R. Corpo delle Miniere tutto il campo minerale della regione. Fissò col dito un punto nella carta e aggiunse: – È qui: non c’è bisogno d’altro…

             –    E allora possiamo contrattare subito?

             –    Subito?… Domani. Domattina stesso io ne parlerò al Consiglio d’Amministrazione. Intanto, se volete, qua, ora, possiamo stendere insieme la proposta, che sarà senza dubbio accettata, se voi non ponete avanti altri patti.

             –    Ho bisogno di legarmi subito! – scattò lo Scala. – Tutto, tutto distrutto, è vero?… sarà tutto distrutto lassù?

            Lo Scelzi lo guardò meravigliato: conosceva da un pezzo l’indole strana, impulsiva, dello Scala; ma non ricordava d’averlo mai veduto così.

             –    Ma i danni del fumo, – disse – saranno previsti nel contratto e compensati…

             –    Lo so! Non me n’importa! – soggiunse lo Scala. – Le campagne, dico, le campagne, tutte distrutte… è vero?

             –    Eh… – fece lo Scelzi, stringendosi nelle spalle.

             –    Questo, questo cerco! questo voglio! – esclamò allora don Mattia, battendo un pugno sulla scrivania. – Qua, ingegnere: scrivete, scrivete! Né io né lui! Lo brucio… Scrivete. Non vi curate di quello che dico.

            Lo Scelzi sedette innanzi alla scrivania e si mise a scrivere la proposta, esponendo prima, man mano, i patti vantaggiosi, tante volte già respinti sdegnosamente dallo Scala, che ora, invece, cupo, accigliato, annuiva col capo, a ognuno.

            Stesa finalmente la proposta, l’ingegnere Scelzi non seppe resistere al desiderio di conoscere il perché di quella risoluzione improvvisa, inattesa.

             –    Mal’annata?

             –    Ma che mal’annata! Quella che verrà, – gli rispose lo Scala – quando avrete aperto la zolfara!

            Sospettò allora lo Scelzi che don Mattia Scala avesse ricevuto tristi notizie del figliuolo scomparso: sapeva che, alcuni mesi addietro, egli aveva rivolto una supplica a Roma perché, per mezzo degli agenti consolari, fossero fatte ricerche dovunque. Ma non volle toccar quel tasto doloroso.

            Lo Scala, prima d’andarsene, raccomandò di nuovo allo Scelzi di sbrigar la faccenda con la massima sollecitudine.

             – A tamburo battente, e legatemi bene!

            Ma dovettero passar due giorni per la deliberazione del Consiglio della Società delle zolfare, per la scrittura dell’atto presso il notajo, per la registra-

            zione dell’atto stesso: due giorni tremendi per don Mattia Scala. Non mangiò, non dormì, fu come in un continuo delirio, andando di qua e di là dietro allo Scelzi, a cui ripeteva di continuo:

             –    Legatemi bene! Legatemi bene!

             –    Non dubiti, – gli rispondeva sorridendo l’ingegnere. – Adesso non ci scappa più!

            Firmato alla fine e registrato il contratto di cessione, don Mattia Scala uscì come un pazzo dallo studio notarile; corse al fondaco, all’uscita del paese, dove, nel venire, tre giorni addietro, aveva lasciato la giumenta; cavalcò e via.

            Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s’imbattè in una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano, lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese.

            Dall’alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d’odio a tutto quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente a gli urti, ai sobbalzi dei carri senza molle.

            Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichidindia, le cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di zolfo.

            Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell’aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi.

            Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il sole la investiva con gli ultimi raggi.

            Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi male. Gli parve che il sole salutasse per l’ultima volta il verde della collina. Forse egli, dall’alto di quello stradone, non avrebbe mai più riveduto la collina, come ora la vedeva. Fra vent’anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare.

            «E dove sarò io, allora?» pensò, provando un senso di vuoto, che subito lo richiamò al pensiero del figlio lontano, sperduto, randagio per il mondo, se pure era ancor vivo. Un impeto di commozione lo vinse, e gli occhi gli s’empirono di lagrime. Per lui, per lui egli aveva trovato la forza di rialzarsi dalla miseria in cui lo aveva gettato il Chiarenza, quel ladro infame che ora gli toglieva la campagna.

             – No, no! – ruggì, tra i denti, al pensiero del Chiarenza. – Né io né lui!

            E spronò la giumenta, come per volare là a distruggere d’un colpo la campagna che non poteva più esser sua.

            Era già sera, quando pervenne ai piedi della collina. Dovè girarla per un tratto, prima d’imboccar la via mulattiera. Ma era sorta la luna, e pareva che a mano a mano raggiornasse. I grilli, tutt’intorno, salutavano freneticamente quell’alba lunare.

            Attraversando le campagne, lo Scala si sentì pungere da un acuto rimorso, pensando ai proprietarii di quelle terre, tutti suoi amici, i quali in quel momento non sospettavano certo il tradimento ch’egli aveva fatto loro.

            Ah, tutte quelle campagne sarebbero scomparse tra breve: neppure un filo d’erba sarebbe più cresciuto lassù; e lui, lui sarebbe stato il devastatore della verde collina! Si riportò col pensiero al balcone della sua prossima cascina, rivide il limite della sua angusta terra, pensò che gli occhi suoi ora avrebbero dovuto arrestarsi là, senza più scavalcare quel muro di cinta e spaziar lo sguardo nella terra accanto: e si sentì come in prigione, quasi più senz’aria, senza più libertà in quel campicello suo, col suo nemico che sarebbe venuto ad abitare là. No! No!

             – Distruzione! distruzione! Né io né lui! Brucino!

            E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d’angoscia: quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle foglie, ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara, aperta lì come una bocca d’inferno; poi sarebbero cadute; poi gli alberi nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni. L’accetta, lì, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi…

             Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala, curvo su la giumenta bianca.

Il «fumo» – Audio lettura 1 – Legge Beraniel.  Da LibriVox.org
Il «fumo» – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Il «fumo» – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

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