Legge Lorenzo Pieri.
«Il terremoto d’allora non fu veramente come quest’ultimo. Ma le case, ricordo io, traballarono bene. I tetti si aprivano e si richiudevano, come fanno le palpebre.»
Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 10 aprile 1910, poi in La trappola, Treves 1915.
Il professor Terremoto
Legge Lorenzo Pieri
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Quanti, di qui a molti anni, avranno la ventura di rivedere risorte Reggio e Messina dal terribile disastro del 28 dicembre 1908, non potranno mai figurarsi l’impressione che si aveva, allorché, passando in treno, pochi mesi dopo la catastrofe, cominciava a scoprirsi, tra il verde lussureggiante dei boschi d’aranci e di limoni e il dolce azzurro del mare, la vista atroce dei primi borghi in rovina, gli squarci e lo sconquasso delle case.
Io vi passai pochi mesi dopo, e da’ miei compagni di viaggio udii i lamenti su l’opera lenta dello sgombero delle macerie, e tanti racconti di orribili casi e di salvataggi quasi prodigiosi e di mirabili eroismi.
C’era, in quello scompartimento di prima classe, un signore barbuto, il quale in particolar modo al racconto degli atti eroici mostrava di prestare ascolto. Se non che, di tratto in tratto, nei punti più salienti del racconto, scattava, scrollando tutta la magra persona irrequieta, in un’esclamazione, che a molti dava ai nervi, perché non pareva encomio degno all’eroismo narrato.
Se l’eroe era un uomo, egli esclamava, con quello scatto strano:
– Disgraziato ! Se donna:
– Disgraziata!
– Ma scusi, perché? – non poté più fare a meno di domandare a un certo punto un giovinotto, che gonfiava in silenzio da un pezzo.
Allora quel signore, come se anche lui da un pezzo attendesse quella domanda, protese impetuosamente la faccia verde di bile e sghignò:
– Ah, perché? Perché lo so io, caro signore! Lei s’indigna, è vero? s’indigna perché, se fosse stato presente al disastro, e una trave, un mobile, un muro non la avessero schiacciata come un topo; anche lei, è vero? vuole dir questo? anche lei sarebbe stato un eroe, avrebbe salvato… che dico? una donzella, eh? cinque fantolini, tre vegliardi, eh? parlo bene? stile eroico! dica la verità… Ma, caro signore, caro signore, e si figura che lei, dopo i suoi eroismi sublimi e gloriosi, sarebbe così lindo e pinto com’è adesso? No, sa! no, sa! non stia a crederlo, caro signore! Lei sarebbe come me, tale e quale. Mi vede? Come le sembro io? Viaggio in prima classe, perché a Roma mi hanno regalato il biglietto, non creda… Sono un povero disgraziato, sa? e lei sarebbe come me! Non mi faccia ridere… Un disgraziato! un disgraziato!
S’afferrò, così dicendo, con una mano e con l’altra le braccia e s’accasciò torvo e fremente nell’angolo della vettura, col mento affondato sul petto. L’ansito gli fischiava nel naso, tra l’ispida barbaccia nera, incolta, brizzolata.
Il giovinotto restò balordo, e si volse a guardare intorno, con un sorriso vano, il silenzio di tutti noi rimasti intenti a spiare il volto di quel singolare compagno.
Poco dopo, questi si sgruppò, come se la bile che gli fermentava in corpo gli si fosse rigonfiata in un nuovo bollore; sghignò come prima guardandoci tutti negli occhi; poi si volse al giovinotto; stava per riprendere a parlare, quando d’improvviso si alzò, e:
– Vuole il mio posto? – gli domandò. – Ecco, se lo prenda pure! Segga qua!
– Ma no… perché? – fece, più che mai intontito, quel giovinotto.
– Perché tante volte, sa com’è? uno parla e l’altro lo contraddice, non perché non sia convinto della ragione, ma perché quello sta seduto in un posto d’angolo. Lei mi guarda da un pezzo; me ne sono accorto; mi guarda e m’invidia perché sto qua, più comodo, col finestrino accanto e sostenuto da questo sudicio bracciuolo. Eh via! dica la verità… Tutti, specialmente in un lungo viaggio, invidiano i quattro fortunati, che stanno agli angoli. Via, segga qua e non mi contraddica più.
Il giovinotto rise con tutti noi di questo razzo inatteso; e, poiché quegli seguitava a insistere in piedi, lo ringraziò, dicendogli che rimanesse pur comodo al suo posto perché non lo contraddiceva per questo, ma perché non gli pareva proprio che si dovesse chiamar disgraziato chi aveva compiuto un’eroica azione.
– No, eh? – riprese quegli allora. – E senta questa! Prego, stieno a sentire anche lor signori. Narro il caso d’una povera donna, conosciuta da me, moglie d’un conduttore, qua, della ferrovia. Il marito viaggiava. Lei sola, inferma da tant’anni, mezza tisica, ebbe l’animo e la forza di salvare i suoi quattro figliuoli in una maniera… si figurino: scendendo e risalendo per quattro volte, dico quattro volte, con un bambino per volta aggrappato alle spalle, lungo un doccione di cisterna, dal terzo piano a terra. Una gatta non sarebbe stata capace di tanto! Sublime, è vero? Ora dico sublime anch’io, e voi gongolate. Ma che sublime, signori miei! Disgraziata! disgraziata! Sapete come le andò a finire? Così, diciamo, precinta d’eroismo, così raggiante di sublimità, naturalmente apparve un’altra al marito commosso e ammirato fino al delirio, al marito che da parecchi anni, per un divieto dei medici, non la teneva più in conto di moglie e la trattava perciò a modo d’una cagna, a cinghiate e vituperii: gli apparve bella, capite? irresistibilmente desiderabile. Signori, quella poveretta morì dopo tre mesi, d’un aborto, naturale conseguenza del suo sublime eroismo!
A questa conclusione inaspettata e grottesca s’opposero, insorgendo, tutti i miei compagni di viaggio.
Ma che! ma via! ma perché doveva dirsi dipesa dall’eroismo la disgrazia di quella poveretta, e non piuttosto dal male di cui soffriva prima? Tanto vero che, se non avesse avuto quel male, apparendo allo stesso modo bella e desiderabile al marito per il recente eroismo, ella non sarebbe morta e avrebbe messo al mondo, pacificamente, un figliuolo.
Senza punto avvilirsi di quella vivace, concorde opposizione, il signore barbuto tornò a sghignare parecchie volte e, lasciando stare che anche questa della nascita d’un quinto figliuolo in quelle deliziose condizioni, a suo giudizio, sarebbe stata per se stessa una grande disgrazia, domandò se, a ogni modo, questo figliuolo, a giudizio nostro, non era stato frutto e conseguenza dell’eroismo.
Eh via, sì, questo almeno era innegabile.
Oh dunque! Innegabile? E se frutto e conseguenza dell’eroismo era stato il figliuolo, frutto e conseguenza dell’eroismo era anche la morte di lei.
Sissignore Perché bisognava prender la donna com’era, col suo male; non già fabbricarsene una sana apposta, capace di mettere al mondo pacificamente un figliuolo, per il solo gusto di contraddire.
Il male, ella, lo aveva in sé. Ma, né fin allora ne era morta, né forse mai ne sarebbe morta, se quel suo eroismo non avesse tutt’a un tratto, dopo tanti anni d’abbandono e di maltrattamenti, ispirato al marito un tal desiderio di lei, da non fargli più tener conto del divieto dei medici.
Questo divieto, solo questo divieto era conseguenza del male; il divieto, e dunque l’abbandono, e dunque i maltrattamenti del marito. Invece, il desiderio improvviso e naturalissimo, il non tener conto di quel divieto e la morte erano conseguenza dell’eroismo. Tanto vero che, se ella non lo avesse compiuto, il marito, non solo non l’avrebbe ammirata né desiderata, ma la avrebbe trattata anche peggio di prima, e lei non sarebbe morta.
– Bella cosa! – esclamò a questo punto, acceso di fervido sdegno, il giovinetto. – E avrebbe fatto morire i quattro figliuoli senza nemmeno tentare di salvarli in qualche modo. Sarebbe stata una madre indegna e snaturata.
– D’accordo! – rimbeccò pronto quel signore. – Invece è stata un’eroina; e lei la ammira, e io la ammiro, e tutti la ammiriamo. Ma essa è morta. Mi consentirà, spero, che la chiami almeno per questo, disgraziata.
Sono così tormentosamente dialettici questi nostri bravi confratelli meridionali. Affondano nel loro spasimo, a scavarlo fino in fondo, la saettella di trapano del loro raziocinio, e fru e fru e fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione mentale, ma anzi al contrario, per acquistare, più profonda e intera, la coscienza del loro dolore.
– Eppure creda che per me, caro signore, – riprese poco dopo con un sospiro – non è stata tanto disgraziata questa donna che è morta, quanto sono disgraziati tutti coloro che, dopo uno di questi eroismi, sono rimasti vivi.
«Perché lei deve riconoscere che un eroismo è l’affare d’un momento. Un momento sublime, d’accordo! un’esaltazione improvvisa di tutte le energie più nobili dello spirito, un subito insorgere e infiammarsi della volontà e del sentimento, per cui si crea un’opera o si compie un atto degno di ammirazione, e diciamo pur di gloria, anche se sfortunato.
«Ma sono momenti, signori miei!
(Scusatemi, se ora vi pare ch’io faccia una lezione: sono, di fatti, professore. Purtroppo!)
«La vita non è fatta di questi momenti. La vita ordinaria, di tutti i giorni, voi sapete bene com’è: irta sempre di piccoli ostacoli, innumerevoli e spesso insormontabili, e assillata da continui bisogni materiali, e premuta da cure spesso meschine, e regolata da mediocri doveri.
«E perché si sublima l’anima in quei rari momenti? Ma appunto perché si libera da tutte quelle miserie, balza su da tutti quei piccoli ostacoli, non avverte più tutti quei bisogni, si scrolla d’addosso tutte quelle cure meschine e quei mediocri doveri; e, così sciolta e libera, respira, palpita, si muove in un’aria fervida e infiammata, ove le cose più difficili diventano facilissime; le prove più dure, lievissime; e tutto è fluido e agevole, come in un’ebbrezza divina.
«Respirando, palpitando, movendosi nell’aerea sublimità di quei momenti, sa lei però, signor mio, che bei tiri le gioca, che razza di scherzetti le combina, che graziose sorprese le prepara la sua anima libera e sciolta da ogni freno, destituita d’ogni riflessione, tutta accesa e abbagliata nella fiamma dell’eroismo?
«Lei non lo sa; lei non se n’accorge; non se ne può accorgere. Se ne accorgerà, quando l’anima le ricascherà, come un pallone sgonfiato, nel pantano della vita ordinaria.
«Oh, allora…
«Guardi: torno da Roma, ove al Ministero da cui dipendo mi hanno inflitto una solenne riprensione: ove i miei maestri della Sapienza mi hanno accolto col più freddo sdegno, perché son venuto meno, dicono, a tutto ciò che s’aspettavano da me; e qua, guardi qua, ho un giornale ove si dice, a proposito d’un mio libercolo, che sono un vilissimo cinico grossolano, che mi pascolo nelle più basse malignità della vita e del genere umano: io, sissignori. Vorrebbero da me, ne’ miei scritti, luce, luce d’idealità, fervor di fede, e che so io…
«Sissignori.
Qua abbiamo questo bellissimo terremoto.
«Ce ne fu un altro, quindici anni fa, quand’io venni professore di filosofia al liceo, a Reggio di Calabria.
«Il terremoto d’allora non fu veramente come quest’ultimo. Ma le case, ricordo io, traballarono bene. I tetti si aprivano e si richiudevano, come fanno le palpebre. Tanto che, dal letto, in camera mia, attraverso una di queste aperture momentanee, io, con questi occhi, potei vedere in cielo la luna, una magnifica luna, che guardava placidissima nella notte la danza di tutte le case della città.
«Giovanotto, e allora sì acceso di tanta luce d’idealità e pieno di fede e di sogni, balzai subito dal terrore, che dapprima m’invase, eroe, eroe anch’io, credano pure, sublime, agli strilli disperati di tre creaturine, che dormivano nella camera accanto alla mia, e di due vecchi nonni e della lor figliuola vedova, che mi ospitavano.
«Con un solo pajo di braccia, capiranno, non è possibile salvare sei, tutti in una volta, massime quando sia crollata la scala e tocchi a scendere da un balcone, prima su un terrazzino e poi dal terrazzino alla strada.
«A uno a uno, Dio ajutando!
«E ne salvai cinque, mentre le scosse seguitavano a breve distanza l’una dall’altra, scrollando e minacciando di scardinare la ringhiera del balcone a cui ci fidavamo. Avrei salvato del resto anche la sesta, se la troppa furia e il terrore non la avessero spinta sconsigliatamente a tentare da sé il salvataggio.
«Ma dicano loro: chi dovevo salvar prima? I tre bambini, no? Poi, la mamma.
«Era svenuta! E fu l’impresa più difficile. No, dico male: più difficile fu il salvataggio del vecchio padre paralitico, anche perché già le forze mie erano stremate e solo l’animo me le sosteneva. Ma si doveva avere, sì o no, una maggiore considerazione per quel povero vecchio accidentato e impotente a darsi ajuto da sé?
«Ebbene, non l’intendeva così la vecchia moglie; voleva esser salvata lei, non solo prima del marito paralitico, ma anche prima di tutti, e urlava, ballava dalla rabbia e dal terrore sul balconcino sconquassato, strappandosi i capelli, scagliando vituperii a me, alla figlia, al marito, ai nipotini.
«Mentr’io col vecchio scendevo dal terrazzo alla strada, ella, senz’aspettarmi, s’affidò al lenzuolo che pendeva dal balcone, e si calò giù. Vedendole scavalcare il parapetto del terrazzo, io dalla strada le gridai che or ora venivo su per lei, m’aspettasse; e, detto fatto, mi slanciai per risalire. Ma sì! Cocciuta, incornata, per non dovermi nulla, prese nello stesso tempo a discendere. A un certo punto, il lenzuolo, non potendo più reggerci entrambi, si snodò dalla ringhiera e patapùmfete, giù, io e lei.
«Io non mi feci nulla; lei si fratturò il femore.
«Parve questa a tutti, e anche a me allora, povero imbecille, l’unica disgrazia che ci fosse toccata (in quel salvataggio, s’intende!). Ma anche a questa non si diede molto peso, perché in fin dei conti era una frattura, dovuta per giunta alla troppa furia, quando potevamo invece esser morti tutti quanti col terremoto.
«E la vita eroica seguitò, seguitò per circa tre mesi. Come professore di liceo, io m’ebbi una delle prime baracche, e naturalmente vi portai dentro i bambini, la signora, i due vecchi; e, come lor signori si possono immaginare, diventai – tranne che per quella vecchia – il loro nume.
«Ah, quella vita di bivacco, tre mesi, sotto la baracca, con la gioventù che ferve in corpo, e la riconoscenza che brilla e aizza, senza saperlo, senza volerlo, dagli occhi d’una madre ancora giovane e bella!
«Tutto facile, tra quelle difficoltà; tutto agevole, tra quella indescrivibile confusione; e l’alacrità più ilare, col disdegno dei più urgenti bisogni; e la soddisfazione, non si sa bene di che, una soddisfazione che inebria e incita a sempre nuovi sacrifizi, che non pajon più tali, per il premio che danno.
«E tra le rovine, quindici anni fa, non come queste, è vero, luttuose e orrende, negli attendamenti, si folleggiava la notte, sotto le stelle davanti a questo mare divino; e canti e suoni e balli.
«Fu così, ch’io alla fine mi ritrovai secondo padre di tre bambini non miei, e poi, d’anno in anno, padre legittimo di cinque miei, che fanno – se non sbaglio – otto, e nove con la moglie, e undici coi suoceri, e dodici con me, e quindici – tutto sommato – con mio padre e mia madre e una mia sorella nubile, al cui mantenimento provvedo io.
«Ecco l’eroe, cari signori!
«Quel terremoto è passato; anche quest’altro è passato: terremoto perpetuo è rimasta la vita mia.
«Ma sono stato un eroe, non c’è che dire!
«E ora m’accusano che non faccio più il mio dovere; che sono un pessimo professore; e ho il disprezzo freddo di chi sperò in me; e i giornali mi danno del cinico; e non m’arrischio a parlare – per non dar spettacolo soverchio a lor signori – di tutto ciò che mi ribolle qua dentro e mi sconvolge la ragione, se penso ai sogni miei d’una volta, ai propositi miei!
«Signori, se in qualche momento di tregua io tento di raccogliermi e cedo alla vana speranza di potermi rimettere a conversare con l’anima mia d’un tempo, ecco quella vecchia sciancata, quella mia suocera immortale a cui è rimasta il corpo una rabbia inestinguibile contro di me, presentarsi alla soglia del mio studiolo, arrovesciar le mani sui fianchi con le gomita appuntate davanti e, chinandosi quasi fino a terra, ruggirmi tra le gengive bavose, non so se per imprecazione, o per inguria, o per condanna:
«”Terremoto! Terremoto! Terremoto!”
«I miei scolari l’hanno risaputo. E sapete come mi chiamano? Il professor Terremoto.»
Il professor Terremoto – Audio lettura 1 – Legge Lorenzo Pieri
Il professor Terremoto – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Il professor Terremoto – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
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