Legge Enrica Giampieretti.
«Zia Michelina, di sangue placido, d’indole mite, subito s’era sentita a posto in quella casa di contadini arricchiti, ove tutto odorava delle abbondanti quotidiane provviste della campagna lontana e tutto aveva la solida quadratura dell’antica vita patriarcale»
Prime pubblicazioni: Noi e il Mondo, maggio 1914, poi in L’uomo solo, Bemporad 1922.
Zia Michelina
Legge Enrica Giampieretti
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Quando il vecchio Marruca morì, il nipote – Marruchino come lo chiamavano – aveva circa vent’anni, e stava per partire soldato.
Cappellone, un due, povero Marruchino!
Senza figli del primo letto, lo zio gli s’era tanto affezionato che, rimasto vedovo, non aveva voluto ridarlo al fratello, di cui era figliuolo; anzi proprio per lui ancora in tenera età e bisognoso di cure materne, aveva, benché anziano, ripreso moglie. Sapeva che non avrebbe avuto mai figliuoli da parte sua; robusto però e ben piantato come un albero da ombra e non da frutto, aveva sempre tenuto a dimostrare che, se frutti non ne dava, questo non dipendeva da scarso vigore. Ragion per cui s’era scelta giovanissima la nuova sposa. E della scelta non s’era pentito.
Zia Michelina, di sangue placido, d’indole mite, subito s’era sentita a posto in quella casa di contadini arricchiti, ove tutto odorava delle abbondanti quotidiane provviste della campagna lontana e tutto aveva la solida quadratura dell’antica vita patriarcale. S’era mostrata paga del marito, pur di tant’anni maggiore di lei, e amorosissima del nipotino.
Ora questo nipotino – eccolo qua – era cresciuto, aveva vent’anni. E lei che non ne aveva ancora quaranta, si considerava già vecchia.
Piansero molto, l’una e l’altro, quella il marito e questi lo zio; il quale, da quel brav’uomo pieno di senno ch’era sempre stato, aveva nel testamento disposto che la proprietà più che modesta dei beni (case e poderi) andasse al nipote, e intero alla moglie l’usufrutto, vita naturai durante. A patto, s’intende, che non avesse ripreso marito.
Marruchino (si chiamava veramente Simonello) partì per servir la patria con gli occhi ancora rossi di pianto. Un po’ per quel servizio alla patria, un po’ per lo zio.
Come una buona mamma, zia Michelina gli fece coraggio; gli raccomandò di pensar sempre a lei, e che le scrivesse appena aveva bisogno di qualche cosa, subito, che subito lei si sarebbe data cura di contentarlo in tutto; lei che restava sola, amara lei! a custodirgli per suo conforto la cameretta, il lettino, la guardaroba e ogni cosa, così come la lasciava.
Partito Marruchino, si diede tutta al governo dei poderi e delle case, come un uomo.
Negli ultimi tempi, non potendo più lo zio a causa dell’età, vi aveva atteso lui Marruchino, tolto presto dalle scuole, non perché fosse privo d’ingegno, ma anzi – a giudizio dello zio – perché ne aveva troppo. Difatti, non c’era stato mai verso di fargli intendere che gli potesse recar vantaggio il sapere che cosa gli altri uomini avevano fatto, fin dal tempo dei tempi, sulla faccia della terra. Marruchino sapeva bene che cosa vi avrebbe fatto lui. Perché immischiarsi nei fatti degli altri? Le altre parti del mondo? Quali? L’America? Non ci sarebbe mai andato. L’Africa? L’Asia? Le montagne che c’erano? i fiumi, i laghi, le città? Ma a lui bastava conoscer bene il pezzetto di terra in cui Dio aveva voluto farlo nascere!
Più ingegno di così?
Le lettere che ora mandava dal reggimento erano l’unico conforto di zia Michelina, quantunque, attraverso lo stento che le costava il decifrarle, le apparisse sempre più manifesto da esse, che Marruchino al reggimento aveva perduto del tutto quel battagliero buonumore con cui fin da ragazzo s’era coraggiosamente difeso, ribellandosi a una soverchia istruzione. Non si diceva intristito per la durezza della vita militare o per la lontananza dai luoghi cari, dalle persone care: tutt’altro! diceva anzi che voleva rinnovar la ferma e non ritornare mai più in paese, per una certa disperazione che gli era entrata nell’anima.
Disperazione? Che disperazione?
Più volte la zia lo pregò, lo scongiurò di confidargliela; Marruchino rispose sempre che non poteva; che non sapeva.
Eh, innamorato, certo… Ci voleva poco a intenderlo. Qualche passionaccia contrastata. Ragazzaccio! Bisognava mandargli danaro, molto danaro, perché si distraesse.
Con grande stupore zia Michelina si vide rimandare indietro il danaro, accompagnato da una protesta furiosa: ch’egli non voleva questo; ch’egli voleva esser capito, capito, capito.
Smarrita, stordita, zia Michelina stava a domandarsi ancora che cosa dovesse capire, quando, improvvisamente, ecco Marruchino piombarle in casa, in licenza.
Restò, nel vederselo davanti così cangiato, che quasi non pareva più lui. Magro, tutto occhi, come roso dentro da un verme che non gli desse requie.
– Io? Che cosa? Che vuoi da me? Che debbo capire?
Quante più carezze gli prodigò, tanto più furioso divenne. Alla fine, come un forsennato, se ne scappò via a passar gli ultimi giorni della licenza in uno dei poderi più lontani dal paese.
Nel vederlo scappar via così, ripensando al modo con cui la aveva guardata sottraendosi alle sue premure materne, alle sue carezze, zia Michelina si vide a un tratto assalire da un sospetto che le fece orrore; cadde a sedere su una seggiola, e rimase lì per un pezzo, pallida, con gli occhi sbarrati, a grattarsi con le dita la fronte:
– Possibile? Possibile?
Non osò mandare nessuno a prender notizie di lui, al podere.
Pochi giorni dopo, un contadino venne a ritirar la valigia e il cappotto di soldato e ad annunziare che il padroncino partiva il giorno dopo, perché la licenza era spirata.
Zia Michelina guardò a lungo in faccia quel contadino, come intronata. Partiva, senza neanche venire a salutarla? Ebbene, sì; forse meglio così.
E per quel contadino gli mandò una buona sommetta di danaro e la sua «materna» benedizione.
Quattro giorni dopo, venne alla casa di zia Michelina il cognato, padre di Marruchino, che dal giorno della morte del fratello non s’era più fatto vedere, a causa del testamento.
– Cara comare… cara comare…
«Comare» la chiamava e non cognata, perché l’altra, la prima moglie del fratello, aveva tenuto a battesimo Marruchino. Non era una buona ragione; ma, avendo sempre chiamato compare il fratello per via di quel battesimo, credeva di dover chiamare comare anche la seconda cognata.
– Cara comare…
E aveva negli occhi e sulle labbra un sorrisetto ambiguo, impacciato.
Calvo, secco, coriaceo, non somigliava affatto, né al fratello, né al figliuolo. Vedovo da molti anni, rozzo eppure astuto, sudicio e malvestito per avarizia, parlava senza mai guardare in faccia.
– Abbiamo Simonello furioso… Eh, cara comare, brutto guajo, brutto guajo, l’amore!
– Ah, dunque innamorato? – esclamò zia Michelina. – Benedetto figliuolo! L’ho tanto pregato, scongiurato di dirmi che cosa avesse; di dirlo alla mamma
sua, che avrei fatto di tutto per contentarlo. Voi lo sapete, cognato! L’ho trovato qua di due anni, orfano di madre, e l’ho allevato io, come se fosse mio.
– Eh… eh… eh… – cominciò a fare il cognato, dimenando il capo, dimenandosi tutto sulla seggiola, sempre con quel sorrisetto ambiguo negli occhi e sulle labbra. – E appunto questo il guajo, cara comare! appunto questo!
– Questo? Perché? Che dite?
Il cognato, in luogo di rispondere, uscì in una domanda curiosa:
– Vi siete mai guardata allo specchio, cara comare?
Zia Michelina si sentì riassalire improvvisamente dall’orrore di quel primo sospetto. Ma misto di schifo, questa volta. Scattò in piedi.
– Mio figlio? – gli gridò. – Pensare una cosa simile, mio figlio? per me? Gliel’avrete messo in mente voi, demoniaccio tentatore! voi che non vi siete dato mai pace per quel maledetto testamento! Ho saputo tutto, m’hanno riferito tutto; l’avete gridato ai quattro venti che non è stato giusto, perché posso vivere ancora trenta e più anni, io; e che vostro figlio potrebbe anche morire prima ch’io gli lasciassi l’usufrutto della proprietà; e che la proprietà lo zio gliel’ha lasciata solo per guardarla da lontano; e che dovrà aspettare d’esser vecchio per potersi dire veramente padrone. O demoniaccio, e che credete? ch’io avrei lasciato il mio figliuolo così, ad aspettare, a sospirare la mia morte? Io, io stessa, appena ritornato, gli avrei detto: «Simonello mio, scegliti una buona compagna; portala qui; tu sarai il padrone; io godrò della tua felicità e alleverò i tuoi figliuoli, com’ho allevato te». Questo mi proponevo di dirgli! Ebbene, scriveteglielo voi! se avete in mente qualcuna che possa piacergli, ditemelo: gliela proporrò io stessa! Ma levate dal capo al vostro figliuolo un’infamia come questa che gli avete suggerita! Peccato mortale!
Il cognato, per quanto in prima sconcertato, non si diede per vinto. Si mostrò offeso dell’accusa; disse che lui non c’entrava; che tutti, parenti e amici, sapute le disposizioni del testamento, tutti d’accordo, avevano pensato che lodevolmente la cosa si potesse accomodar così; e che questo era segno che nessuno ci vedeva il male, che voleva vederci lei. Se c’era differenza d’età, che c’era sì, ma non poi tanta com’ella si figurava, questa differenza quasi spariva per la perfetta conservazione e la florida salute di lei, che certo era di quelle donne che non invecchiano mai. E infine, poiché zia Michelina, oppressa dall’onta, s’era messa a piangere, prendendo questo pianto come remissione, per confortarla e dimostrarle che Marruchino aveva ben ragione se si era innamorato di lei, ripeté il consiglio d’andarsi a guardare allo specchio.
– Fuori di qui! – gli gridò allora, levandosi di nuovo come una furia, zia Michelina. – Fuori di qui, demonio! Non voglio più vedervi! Né voi, né vostro figlio! Via il suo letto! via quanto c’è di lui in questa casa! Ah che serpe, mio Dio! che serpe mi sono allevata in petto! Via, via, via!
Per prudenza, il cognato si ritirò.
Zia Michelina rimase a piangere per più giorni di fila.
Vennero le vicine a confortarla, e si sfogò con esse, senza poter frenare ancora le lagrime.
Restò come basita, però, nell’accorgersi a un certo punto che nessuna di quelle vicine comprendeva e apprezzava il sentimento di lei; o meglio, che sì, lo apprezzavano e ne tenevano conto; ma tenevano anche conto del sentimento di lui, di Marruchino e delle condizioni infelici in cui quel testamento dello zio lo aveva lasciato.
Ma perché infelici? perché?
Esasperata, zia Michelina ripeté alle vicine il suo proponimento di dar moglie al nipote, subito appena di ritorno, e di farlo padrone di tutto e contento.
Approvarono quelle, oh sì, e la lodarono molto; ma dissero, tanto per dire, badiamo! così, per ragionare… dissero che pure non era la stessa cosa, per il giovine.
– E che altra cosa allora?
Ecco: se lei non avesse avuto quel sentimento materno che diceva, e avesse invece potuto corrispondere a quello di lui, certo per Marruchino sarebbe stato molto meglio; perché, al modo che diceva lei, egli sarebbe rimasto sempre soggetto, come un figlio di famiglia. Non se ne sarebbe accorto, sta bene, per la bontà di lei! Ma se qualche dissapore, un giorno o l’altro, fosse sorto, com’era facile prevedere, tra donne, cioè tra lei e la moglie di lui, l’una di fronte all’altra, quasi suocera e nuora?
Ecco: c’era da considerar questo!
E i dissapori, si sa come cominciano, non si sa come possano andare a finire.
Zia Michelina si vide, si sentì sola. Sola e come sperduta.
Ma dunque, se questo era il mondo, se in questo mondo, di fronte all’interesse, non si capiva più nulla, neppure il sentimento più santo, quello dell’amor materno, che credevano tutti? che la vera «interessata» fosse lei? che volesse rimaner padrona di tutto e tener soggetto il nipote? Questo credevano? Interessata, lei! Ah, se veramente…
Fu un lampo. Balzò in piedi. Corse a guardarsi allo specchio.
Sì. Per vedere, per vedere se fosse tale davvero, tali le sue fattezze, tale il suo aspetto, che il nipote si fosse potuto accecare per lei fino al punto di non pensar più di quale amore lei finora lo aveva amato; e che gli altri lo potessero così facilmente scusare!
No, brutta non era; non mostrava certo ancora gli anni che aveva; ma non era, no, non poteva esser bella per quel ragazzo! Già sotto i capelli biondi sulle tempie, ne aveva tanti appassiti, quasi bianchi. Bianchi sarebbero diventati domani…
No, no! che! Era un’infamia. Era una perfidia.
Ma se almeno per un altro, ecco, se almeno per un vecchio della sua età potesse ancora esser tanto bella e piacente, da esser chiesta in moglie per la sua bellezza soltanto! Ecco, ecco, allora avrebbe lasciato tutto al nipote, a questo perfido che la voleva, che voleva la sua mamma per il danaro! Glielo avrebbe buttato in faccia e avrebbe dimostrato a tutti che non s’opponeva per questo.
Si vide allora, per parecchi mesi, zia Michelina uscir di casa e andare in chiesa e poi a spasso, tutta attillata, benché vestita di nero, con la spagnoletta di pizzo e il ventaglio, le scarpine lucide dai tacchetti alti, ben pettinata e con quell’impaccio particolare delle donne che non vogliono mostrare il desiderio d’esser guardate, e che è pure un’arte per farsi guardare.
Il ventaglio in mano le fremeva agitato convulsamente sotto il mento, a smorzar le vampe della vergogna e della rabbia.
– A spasso, zia Michelì? – le domandava dall’uscio velenosamente qualche vicina.
– A spasso, già! Avete comandi da darmi? – rispondeva dalla strada, inchinandosi con una smorfia di dispetto, che l’ombra dietro, nel sole, le rifaceva goffamente.
Ma dove andava? Non lo sapeva lei stessa. A spasso. E si guardava, andando, la punta delle scarpette; perché, ad alzar gli occhi, non avrebbe saputo dove né che cosa guardare e, sentendosi diventar rossa rossa, si sarebbe messa a piangere, ma proprio a piangere come una ragazzina.
Ora tutti, quasi capissero ch’era uscita di casa non per bisogno ma per mettersi in mostra, si fermavano per vederla passare; si scambiavano occhiate; qualcuno anche per chiasso la chiamava:
– Ps! Ps! – come si fa con le donne di mal affare.
Lei tirava via, più rossa che mai, senza voltarsi, col cuore che le ballava in petto; finché, non potendone più, andava a ficcarsi in qualche chiesa.
Santo Dio, perché faceva così? Una donna cerca marito per trovare uno stato. Ora, chi poteva immaginarsi che lei al contrario ne cercava un secondo per perdere quello che il primo le aveva lasciato? S’immaginavano invece che, ancora bella com’era, insofferente della vedovanza, cercasse piuttosto qualcuno con cui darsi bel tempo; e volevano persuaderla che per questo, sì, ne avrebbe trovati quanti ne voleva, e che poteva fare il piacer suo, senza commettere la pazzia di perdere con un secondo matrimonio l’usufrutto dei beni del primo marito. Libera d’ogni obbligo di fedeltà, non doveva dar conto a nessuno, se si metteva con questo o con quello.
A sentir questi discorsi zia Michelina si macerava dentro dallo sdegno, a cui non poteva dar sfogo, perché capiva che veramente l’apparenza era contro di lei. Uno solo, forse, uno solo poteva comprendere perché lei cercava marito, e accoglierla e prendersela in moglie per lo stesso fine: suo cognato, il padre di Marruchino, quel brutto, secco, sudicio avaraccio, a cui non pareva l’ora che il figlio diventasse padrone dell’eredità dello zio. Ecco l’unico mezzo! E così lei avrebbe dimostrato a tutti qual era il piacere che andava cercando.
Risòluta, si presentò un giorno in casa del cognato.
– So che andate dicendo a tutti che voglio finire di rovinare vostro figlio, mettendomi con qualcuno, per fargli commettere uno sproposito appena torna da soldato. Io voglio invece il suo bene: sposare, appunto, per levarmi di mezzo e lasciarlo padrone. Cerco uno che mi sposi, e non lo trovo. Mi vogliono tutti, ma nessuno per moglie; perché pare a tutti una pazzia ch’io debba perdere il mio, sposando un altro. Voi solo non potete crederlo, sapendo per ché voglio farlo. Ebbene: sposatemi voi!
Il vecchio rimase un pezzo come stordito, a quella proposta a bruciapelo; poi sulle labbra cominciò a delinearglisi quel certo sorrisetto ambiguo dell’altra volta:
– Eh… eh… eh…
E astutamente, attraverso un faticoso garbuglio di parole le fece alla fine intendere che non per gli altri soltanto, ma anche per lui sarebbe stata una pazzia, una solenne pazzia; sì, perché tutto stava che lei, non volendo sposare suo figlio, non si mettesse con altri, e che il beneficio dell’usufrutto restasse in famiglia.
– E come, vecchiaccio? – – gli gridò zia Michelina. – Mettendomi con voi? Ah, brutta bestia! E gli interessi di vostro figlio, che predicate e difendete da un anno, finirebbero così, trattandosi di voi? Ma piuttosto con un cane, mi metto allora anziché con voi, laido vecchiaccio! Puh!
E zia Michelina se n’andò su le furie.
Sapeva ormai ciò che le restava da fare.
Appena Marruchino ritornò da soldato e le si presentò più magro e più torbido di com’era venuto in licenza, gli disse:
– Senti, svergognato. So perché vuoi sposare. E questo agli occhi miei, in parte, ti scusa. Tu vuoi che sposi io, perché perda tutto, e tu resti padrone. Ebbene, per questo solo ti sposo… Che fai? no, via! non t’arrischiare! Scostati, o ti tiro questo in faccia!
Marruchino aveva tentato di saltarle al collo per baciarla, e lei avea brandito un lume.
Fremente, con gli occhi sbarrati, dietro la tavola, zia Michelina seguitò a gridargli:
– Se t’arrischi un’altra volta, guaj a te! Lo faccio per lasciarti tutta la libertà di fare quello che ti parrà e piacerà. Pigliati tutte le donne che vuoi, tutti i pia ceri che vuoi, a patto di non alzar mai gli occhi su me! Me n’andrò al podere a nascondermi, dove andasti a nasconderti tu per non aver le mie carezze di madre; e là resterò per sempre e non ti farai più vedere da me. Giura! Voglio che lo giuri!
Marruchino si contorse sotto l’imposizione e finse di giurare solo per piegarla a condiscendere alle nozze, non perché riconoscesse ch’ella aveva ragione sospettando di lui, che la volesse per il danaro.
– Bada! – riprese allora zia Michelina. – Tu hai giurato. Sappi, ragazzo, ch’io sono capace di tutto, d’ucciderti o d’uccidermi, se non stai al patto e non mantieni il giuramento. Bada!
Lo mandò via, e non volle più rivederlo fino al giorno stabilito per le nozze.
Andò in chiesa e al municipio vestita di nero, pallida, spettinata e piangente. Finita la cerimonia, lasciò tutti a banchettare; montò su una mula e se ne partì sola per il lontano podere.
Ma un po’ la vanità, un po’ le beffe della gente, un po’ la parte che s’era assunta d’innamorato, persuasero Marruchino, dopo due giorni di combattimento con se stesso, ad andar di notte a picchiare alla porta della cascina di quel podere. Tempestò per ore e ore, tra un furibondo abbajare di tutti i cani dei dintorni nelle tenebre notturne; finché lei non scese ad aprirgli.
Nella notte stessa, dopo un’ora appena, livido, sgraffiato in faccia, al collo, alle mani, se ne fuggì e, giunto all’alba al paese, corse a chiudersi in casa. Poche ore dopo, vennero ad arrestarlo, perché avevano trovata morta zia Michelina nel podere.
Gli sgraffi al collo e alla faccia, gli sgraffi e i morsi alle mani lo accusavano. Ma egli giurò e spergiurò di non averla uccisa lui, ma che s’era uccisa da sé, per aver egli voluto ciò che ogni marito è in diritto di pretendere dalla propria moglie; disse che, avendo ottenuto ciò che desiderava e per cui aveva tanto combattuto, non aveva nessuna ragione di commettere quel delitto; portò tanti testimoni che erano a conoscenza del suo sentimento, delle sue oneste intenzioni e delle opposizioni e minacce di lei; e fu assolto.
Ancora le vicine parlano di zia Michelina come d’una pazza; perché, Signore Iddio, se pur le faceva senso mettersi con un ragazzo che lei amava come un figliuolo, dato che questo ragazzo era poi divenuto suo marito, fargli da moglie alla fin fine non voleva mica dire andare alla guerra. Che storie!
Zia Michelina – Audio lettura 1 – Legge Enrica Giampieretti
Zia Michelina – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Zia Michelina – Audio lettura 3 – Legge Gaetano Marino
Zia Michelina – Audio lettura 4 – Legge Lorenzo Pieri
Zia Michelina – Audio lettura 5 – Legge Giuseppe Tizza
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