La fede – Audio lettura

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Legge Gaetano Marino
«Commosso e pieno di rimorso per quel pianto, don Angelino si pentì della sua durezza, sopraffatto all’improvviso da un rispetto, che quasi lo avviliva di vergogna, per quella vecchia che piangeva innanzi a lui per la sua fede offesa.»

Prima pubblicazione: Il Mondo, 29 gennaio 1922, poi in La mosca, Bemporad, Firenze 1923.

la fede audiolibro
Paukla Modersohn-Becker (1876-1907), Vecchia contadina in preghiera, 1905

La fede

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             In quell’umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto e vaporante in un pulviscolo d’oro il rettangolo di sole della finestra con l’ombra precisa delle tendine trapunte e lì come stampate e perfino quella della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giù nel cortiletto era venuto ad alitare caldo e a fondersi con quello umido dell’incenso della chiesetta vicina e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell’antico canterano.

             Pareva che ormai non potesse avvenire più nulla in quella cameretta. Immobile, quella luce di sole; immobile, quella pace; come, ad affacciarsi alla finestra, immobili giù tra i ciottoli grigi del cortiletto i fili di erba, i fili di paglia caduti dalla mangiatoja sotto il tettuccio in un angolo, dalle tegole sanguigne e coi tanti sassolini scivolati dalla ripa che si stendeva scabra lassù.

             Dentro, le piccole antiche sedie verniciate di nero, pulite pulite, di qua e di là dal canterano, avevano tutte una crocettina argentata sulla spalliera, che dava loro un’aria di monacelle attempate, contente di starsene lì ben custodite, al riparo, non toccate mai da nessuno; e con piacere pareva stessero a guardare il modesto lettino di ferro del prete, che aveva a capezzale, su la parete imbiancata, una croce nera col vecchio Crocefisso d’avorio, gracile e ingiallito.

             Ma soprattutto un grosso Bambino Gesù di cera in un cestello imbottito di seta celeste, sul canterano, riparato dalle mosche da un tenue velo anche esso celeste, pareva profittasse del silenzio, in quella luce di sole, per dormire con una manina sotto la guancia paffuta il suo roseo sonno tra quegli odori misti d’incenso, di spigo e di caldo pane di casa.

             Dormiva anche, su la poltroncina di juta a pie del letto, col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente sulla spalliera, don Pietro. Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le palpebre esili pareva non avessero più forza neanche di chiudersi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s’affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l’infermità del cuore.

             Il viso giallo, scavato, aguzzo, aveva assunto in quel sonno, e pareva a tradimento, un’espressione cattiva e sguajata, come se, nella momentanea assenza, il corpo volesse vendicarsi dello spirito che per tanti anni con l’austera volontà lo aveva martoriato e ridotto in servitù, così disperatamente estenuato e miserabile. Con quello sguajato abbandono, con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente, voleva dimostrare che non ne poteva più. E quasi oscenamente rappresentava la sua sofferenza di bestia.

             Don Angelino, entrato di furia nella cameretta, s’era subito arrestato e poi era venuto avanti in punta di piedi. Ora da una decina di minuti stava a contemplare il dormente, in silenzio, ma con un’angoscia che di punto in punto, esasperandosi, gli si cangiava in rabbia; per cui apriva e serrava le mani fino ad affondarsi le unghie nella carne. Avrebbe voluto gridare per svegliarlo:

             «Ho deciso, don Pietro: mi spoglio!».

             Ma si sforzava di trattenere perfino il respiro per paura che, svegliandosi, quel santo vecchio se lo trovasse davanti all’improvviso con quell’angoscia rabbiosa che certo doveva trasparirgli dagli occhi e da tutto il viso disgustato; e anzi aveva la tentazione di far saltare con una manata fuori della finestra quella gabbiola che pendeva dal palchetto, tanta irritazione gli cagionava, nella paura che il vecchio si svegliasse, il raspio delle zampine di quel canarino su lo zinco del fondo.

             Il giorno avanti, per più di quattr’ore, andando su e giù per quella cameretta, dimenandosi, storcendosi tutto, come per staccare e respingere dal contatto col suo corpicciuolo ribelle l’abito talare, e movendo sott’esso le gambe come se volesse prenderlo a calci, aveva discusso accanitamente con don Pietro sulla sua risoluzione d’abbandonare il sacerdozio, non perché avesse perduto la fede, no, ma perché con gli studii e la meditazione era sinceramente convinto d’averne acquistata un’altra, più viva e più libera, per cui ormai non poteva accettare né sopportare i dommi, i vincoli, le mortificazioni che l’antica gli imponeva. La discussione s’era fatta, da parte sua soltanto, sempre più violenta, non tanto per le risposte che gli aveva dato don Pietro, quanto per un dispetto man mano crescente contro se stesso, per il bisogno che aveva sentito, invincibile e assurdo, d’andarsi a confidare con quel santo vecchio, già suo primo precettore e poi confessare per tanti anni, pur riconoscendolo incapace d’intendere i suoi tormenti, la sua angoscia, la sua disperazione.

             E infatti don Pietro lo aveva lasciato sfogare, socchiudendo ogni tanto gli occhi e accennando con le labbra bianche un lieve sorrisino, a cui non parevano neppure più adatte quelle sue labbra, un sorrisino bonariamente ironico, o mormorando, senza sdegno, con indulgenza:

             – Vanità… vanità…

             Un’altra fede? Ma quale, se non ce n’è che una? Più viva? più libera? Ecco appunto dov’era la vanità; e se ne sarebbe accorto bene quando, caduto quell’impeto giovanile, spento quel fervore diabolico, intepidito il sangue nelle vene, non avrebbe più avuto tutto quel fuoco negli occhietti arditi e, coi capelli canuti o calvo, non sarebbe stato più così bellino e fiero. Insomma, lo aveva trattato come un ragazzo, ecco, un buon ragazzo che sicuramente non avrebbe fatto lo scandalo che minacciava, anche in considerazione del cordoglio che avrebbe cagionato alla sua vecchia mamma, che aveva fatto tanti sacrifizi per lui.

             E veramente, al ricordo della mamma, di nuovo ora don Angelino si sentì salire le lagrime agli occhi. Ma intanto, proprio per lei, proprio per la sua vecchia mamma era venuto a quella risoluzione; per non ingannarla più; e anche per lo strazio che gli dava il vedersi venerato da lei come un piccolo santo. Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la dimostrazione più chiara delle verità nuove che gli s’erano rivelate.

             Ma in quel punto si schiuse l’uscio della cameretta ed entrò la vecchia sorella di don Pietro, piccola, cerea, vestita di nero, con un fazzoletto nero di lana in capo, più curva e più tremula del fratello. Parve a don Angelino che – chiamata dalle sue lagrime – entrasse nella cameretta la sua mamma, piccola, cerea e vestita di nero come quella. E alzò gli occhi a guardarla, quasi con sgomento, senza comprendere in prima il cenno con cui gli domandava:

             – Che fa, dorme?

             Don Angelino fece di sì col capo.

             – E tu perché piangi?

             Ma ecco che il vecchio schiude gli occhi imbambolati e con la bocca ancora aperta solleva il capo dalla spalliera della poltroncina.

             – Ah, tu Angelino? che c’è?

             La sorella gli s’accostò e, curvandosi sulla poltrona, gli disse piano qualche parola all’orecchio. Allora don Pietro si alzò a stento e, strascicando i piedi, venne a posare una mano sulla spalla di don Angelino, e gli domandò:

             – Vuoi farmi una grazia, figliuolo mio? È arrivata dalla campagna una povera vecchia, che chiede di me. Vedi che mi reggo appena in piedi. Vorresti andare in vece mia? È giù in sagrestia. Puoi scendere di qua, dalla scaletta interna. Va’, va’, che tu sei sempre il mio buon figliuolo. È Dio ti benedica!

             Don Angelino, senza dir nulla, andò. Forse non aveva neanche compreso bene. Per la scaletta interna della cura, buja, angustissima, a chiocciola, si fermò; appoggiò il capo alla mano che, scendendo, faceva scorrere lungo il muro, e si rimise a piangere, come un bambino. Un pianto che gli bruciava gli occhi e lo strozzava. Pianto d’avvilimento, pianto di rabbia e di pietà insieme. Quando alla fine giunse alla sagrestia, si sentì improvvisamente come alienato da tutto. La sagrestia gli parve un’altra, come se vi entrasse per la prima volta. Frigida, squallida e luminosa. E trovandovi seduta la vecchia, quasi non comprese che cosa vi stesse ad aspettare, e quasi non gli parve vera.

             Era una decrepita contadina, tutta infagottata e lercia, dalle palpebre sanguigne orribilmente arrovesciate. Biasciando, faceva di continuo balzare il mento aguzzo fin sotto il naso. Reggeva in una mano due galletti per le zampe, e mostrava nel palmo dell’altra mano tre lire d’argento, chi sa da quanto tempo conservate. Per terra, davanti ai piedi imbarcati in due logore enormi scarpacce da uomo, aveva una sudicia bisaccia piena di mandorle secche e di noci.

             Don Angelino la guatò con ribrezzo.

             – Che volete?

             La vecchia, sforzandosi di sbirciarlo, barbugliò qualcosa con la lingua imbrogliata entro le gote flosce e cave, tra le gengive sdentate.

             – Come dite? Non sento. Vi chiamate zia Croce?

             Sì, zia Croce. Era la zia Croce. Don Pietro la conosceva bene. La zia Croce Scoma; che il marito le era morto tant’anni fa, nel fiume di Naro, annegato. Veniva a piedi, con quella bisaccia sulle spalle, dalle pianure del Cannatello. Più di sette miglia di cammino. E con quell’offerta di due galletti e di quella bisaccia di mandorle e di noci e con le tre lire della messa doveva placare (don Pietro lo sapeva) San Calogero, il santo di tutte le grazie, che le aveva fatto guarire il figlio d’una malattia mortale. Appena guarito, però, quel figlio se n’era andato in America. Le aveva promesso che di là le avrebbe scritto e mandato ogni mese tanto da mantenersi. Erano passati sedici mesi; non ne aveva più notizia; non sapeva neppure se fosse vivo o morto. Lo avesse almeno saputo vivo, pazienza per lei, se non le mandava niente. Neanche un rigo di lettera! Niente. Ma ora tutti in campagna le avevano detto che questo dipendeva perché lei, appena guarito il figlio, non aveva adempiuto il voto a San Calogero. E certo doveva essere così: lo riconosceva anche lei. Il voto però non lo aveva adempiuto (don Pietro lo sapeva) perché s’era spogliata di tutto per quella malattia del figlio e le erano rimasti appena gli occhi per piangere: piangere sangue! ecco, sangue! Poi, andato via il figlio, vecchia com’era e senz’ajuto di nessuno, come trovare da mettere insieme l’offerta e quelle tre lire della messa, se guadagnava appena tanto ogni giorno da non morire di fame? Sedici mesi le ci eran voluti, e con quali stenti, Dio solo lo sapeva! Ma ora, ecco qua i due galletti, ed ecco le tre lire e le mandorle e le noci. San Calogero misericordioso si sarebbe placato e tra poco, senza dubbio, le sarebbe arrivata dall’America la notizia che il figlio era vivo e prosperava.

             Don Angelino, mentre la vecchia parlava così, andava su e giù per la sagrestia, volgendo di qua e di là occhiate feroci e aprendo e chiudendo le mani, perché aveva la tentazione d’afferrare per le spalle quella vecchia e scrollarla furiosamente, urlandole in faccia:

             – Questa è la tua fede?

             Ma no: altri, altri, non quella povera vecchia; altri, i suoi colleghi sacerdoti avrebbe voluto afferrare per le spalle e scrollare, i suoi colleghi sacerdoti che tenevano in quell’abiezione di fede tanta povera gente, e su quell’abiezione facevano bottega. Ah Dio, come potevano prendersi per una messa le tre lire di quella vecchia, i galletti, le mandorle e le noci?

             – Riprendete codesta bisaccia e andatevene! – le gridò, tutto fremente. Quella lo guardò, sbalordita.

             – Potete andarvene, ve lo dico io! – aggiunse don Angelino, infuriandosi vieppiù. – San Calogero non ha bisogno né di galletti né di fichi secchi! Se vostro figlio ha da scrivervi, state sicura che vi scriverà. Quanto alla messa, vi dico che don Pietro è malato. Andatevene! andatevene!

             Come intronata da quelle parole furiose, la vecchia gli domandò:

             – Ma che dice? Non ha capito che questo è un voto? È un voto!

             E c’era nella parola, pur ferma, un tale sbalordimento per l’incomprensione di lui, quasi incredibile, che don Angelino fu costretto a fermarvi l’attenzione. Pensò ch’era lì in vece di don Pietro, e si frenò. Con parole meno furiose cercò di persuadere la vecchia a riportarsi i galletti e le mandorle e le noci, e le disse che, quanto alla messa, ecco, se proprio la voleva, magari gliel’avrebbe detta lui, invece di don Pietro, ma a patto che lei si tenesse le tre lire.

             La vecchia tornò a guardarlo, quasi atterrita, e ripetè:

             – Ma come! Che dice? E allora che voto è? Se non do quello che ho promesso, che vale? Ma scusi, a chi parlo? Non parlo forse a un sacerdote? E perché allora mi tratta così? O che forse crede che non do a San Calogero miracoloso con tutto il cuore quello che gli ho promesso? Oh Dio! oh Dio! Forse perché le ho parlato di quanto ho penato per raccoglierlo?

             E così dicendo, si mise a piangere perdutamente, con quegli orribili occhi insanguati.

             Commosso e pieno di rimorso per quel pianto, don Angelino si pentì della sua durezza, sopraffatto all’improvviso da un rispetto, che quasi lo avviliva di vergogna, per quella vecchia che piangeva innanzi a lui per la sua fede offesa. Le s’accostò, la confortò, le disse che non aveva pensato quello che lei sospettava, e che lasciasse lì tutto; anche le tre lire, sì; e intanto entrasse in chiesa, che or ora le avrebbe detto la messa.

             Chiamò il sagrestano; corse al lavabo; e mentre quello lo ajutava a pararsi, pensò che avrebbe trovato modo di ridare alla vecchia, dopo la messa, le tre lire e i galletti e quell’altra offerta della bisaccia. Ma ecco, questa carità perché avesse il valore che potesse renderla accetta a quella povera vecchia, non richiedeva forse qualcosa ch’egli non sentiva più d’avere in sé? Che carità sarebbe stata il prezzo d’una messa, se per tutti gli stenti e i sacrifizi durati da quella vecchia per adempiere il voto, egli non avesse celebrato quella messa col più sincero e acceso fervore? Una finzione indegna, per una elemosina di tre lire?

             E don Angelino, già parato, col calice in mano, si fermò un istante, incerto e oppresso d’angoscia, su la soglia della sagrestia a guardare nella chiesetta deserta; se gli conveniva, così senza fede, salire all’altare. Ma vide davanti a quell’altare prosternata con la fronte a terra la vecchia, e si sentì come da un respiro non suo sollevare tutto il petto, e fendere la schiena da un brivido nuovo. O perché se l’era immaginata bella e radiosa come un sole, finora, la fede? Eccola lì, eccola lì, nella miseria di quel dolore inginocchiato, nella squallida angustia di quella paura prosternata, la fede!

             E don Angelino salì come sospinto all’altare, esaltato di tanta carità, che le mani gli tremavano e tutta l’anima gli tremava, come la prima volta che vi si era accostato.

             E per quella fede pregò, a occhi chiusi, entrando nell’anima di quella vecchia come in un oscuro e angusto tempio, dov’essa ardeva; pregò il Dio di quel tempio, qual esso era, quale poteva essere: unico bene, comunque, conforto unico per quella miseria.

             E finita la messa, si tenne l’offerta e le tre lire, per non scemare con una piccola carità la carità grande di quella fede.

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La fede – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza
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