Il coppo – Audio lettura

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Legge Valter Zanardi
«Tutt’a un tratto, s’alzò. Appena in piedi, gli parve strano che si fosse alzato. Avvertì che non si era alzato da sé, ma che era stato messo in piedi da una spinta interiore, non sua, forse di quel pensiero riposto, come in agguato dentro di lui, da tanti anni.»

Prima pubblicazione: Rassegna contemporanea, giugno 1912, poi in La trappola, Treves 1915. Il coppo

Il coppo

Legge Valter Zanardi

Da Youtube

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             Che bevuto! No. Appena tre bicchieri.

             Forse il vino lo eccitava più del solito, per l’animo in cui era dalla mattina, e anche per ciò che aveva in mente di fare, quantunque non ne fosse ancora ben sicuro.

             Già da parecchio tempo aveva un certo pensiero segreto, come in agguato e pronto a scattar fuori al momento opportuno.

             Lo teneva riposto, quasi all’insaputa di tutti i suoi doveri che stavano come irsute sentinelle a guardia del reclusorio della sua coscienza. Da circa venti anni, egli vi stava carcerato, a scontare un delitto che, in fondo, non aveva recato male se non a lui.

             Ma sì! Chi aveva ucciso lui infine, se non se stesso? chi strozzato, se non la propria vita?

             E, per giunta, la galera. Da venti anni. Vi s’era chiuso, da sé; se li era piantati a guardia da sé, con la bajonetta in canna, tutti quegl’irsuti doveri, così che, non solo non gli lasciassero mai intravedere una probabile lontana via di scampo, ma non lo lasciassero più nemmeno respirare.

             Qualche bella ragazza gli aveva sorriso per via?

             -All’erta, sentinellàaa!

             -All’erta stòòò!

             Qualche amico gli aveva proposto di scappar via con lui in America?

             -All’erta, sentinellàaa!

             -All’erta stòòò!

             E chi era più lui, adesso? Ecco qua: uno che faceva schifo, propriamente schifo, a se stesso, se si paragonava a quello che avrebbe potuto e dovuto essere.

             Un gran pittore! Sissignori: mica di quelli che dipingono per dipingere… alberi e case… montagne e marine… fiumi, giardini e donne nude. Idee voleva dipingere lui; idee vive, in vivi corpi di immagini. Come i grandi!

             Bevuto… eh, un tantino sì, aveva bevuto. Ma tuttavia, parlava bene.

             – Nardino, parli bene.

             Nardino. Sua moglie lo chiamava così, Nardino. Perdio, ci voleva coraggio! Un nome come il suo: Bernardo Morasco, divenuto in bocca a sua moglie Nardino.

             Ma, povera donna, così lo capiva lei… ino, ino… ino, ino…

             E Bernardo Morasco, passando il ponte, da Ripetta al Lungotevere dei Mellini, si rincalcò con una manata il cappellaccio su la folta chioma riccioluta, già brizzolata, e piantò gli occhi sbarrati ilari parlanti in faccia a una povera signora attempatella, che gli passava accanto, seguita da un barboncini nero, lacrimoso, che reggeva in bocca un involto.

             La signora sussultò dallo spavento e al barboncino cadde di bocca l’involto.

             Il Morasco restò un momento mortificato e perplesso. Aveva forse detto qualche cosa a quella signora? Oh Dio! Non aveva avuto la minima intenzione d’offenderla. Parlava con sé – di sua moglie, parlava… – povera donna anche lei!

             Si scrollò. Ma che povera donna, adesso! Sua moglie era ricca, i suoi quattro figliuoli erano ricchi, adesso. Suo suocero era finalmente crepato. E così, dopo vent’anni di galera, egli aveva finito di scontare la pena.

             Vent’anni addietro, quando ne aveva venticinque, aveva rapito a un usurajo la figliuola. Poverina, che pietà! Timida timida, pallida pallida e con la spalla destra un tantino più alta dell’altra. Ma lui doveva pensare all’Arte; non alle donne. Le donne, lui, non le aveva potute mai soffrire. Per quello che da una donna poteva aver bisogno, quella poverina, anche quella poverina bastava. Ogni tanto, con gli occhi chiusi, là e addio.

             La dote, che s’aspettava, non era però venuta. Quell’usurajo del suocero, dopo il ratto, non s’era dato per vinto; e tutti allora si erano attesi da lui che, fallito il colpo, abbandonasse quella disgraziata all’ira del padre e al «disonori». Buffoni! Come in un libretto d’opera. Lui? Ecco qua, invece, come s’era ridotto lui, per non dare questa soddisfazione alla gente e a quell’infame usurajo!

             Non solo non aveva avuto mai una parola aspra per quella poverina, ma per non far mancare il pane prima a lei, poi ai quattro figliuoli che gli erano nati – via, sogni! via, arte! via, tutto!

             Là, tordi, per tutti i negozianti di quadretti di genere: cavalieri piumati e vestiti di seta che si battono a duello in cantina; cardinali parati di tutto punto che giuocano a scacchi in un chiostro; ciociarette che fanno all’amore in piazza di Spagna; butteri a cavallo dietro una staccionata; tempietti di Vesta con tramonti al torlo d’uovo; rovine d’acquedotti in salsa di pomodoro; poi, tutti i peggio fattacci di cronaca per le pagine a colori dei giornali illustrati: tori in fuga e crolli di campanili, guardie di finanza e contrabbandieri in lotta, salvataggi eroici e pugilati alla Camera dei deputati…

             Ci sputavano sopra, adesso, moglie e figliuoli, a queste sue belle fatiche, da cui per tanti anni era venuto loro un così scarso pane! Gli toccava anche questo, per giunta: la commiserazione derisoria di coloro per cui si era sacrificato, martoriato, distrutto. Diventati ricchi, che rispetto più, che considerazione potevano avere per uno che si era arrabattato a metter su sconci pupazzi e caricature per lasciarli tant’anni quasi morti di fame?

             Ah, ma, perdio, voleva aver l’orgoglio di sputare anche lui ora, a sua volta, su quella ricchezza, e di provarne schifo; ora che non poteva più servirgli per attuare quel sogno che gliel’aveva fatto un tempo desiderale. Era ricco anche lui, allora, ricco d’anima e di sogni!

             Che scherzo, l’eredità del suocero, tutto quel denaro ora che il sentimento della vita gli s’era indurito in quella realtà ispida, squallida, come in un terreno sterpigno, pieno di cardi spinosi e di sassi aguzzi, nido di serpi e di gufi! Su questo terreno, ora, la pioggia d’oro! Che consolazione! E chi gli dava più la forza di strappare tutti quei cardi, di portar via tutti quei sassi, di schiacciare la testa a tutti quei serpi, di dare la caccia a tutti quei gufi? Chi gli dava più la forza di rompere quel terreno e rilavorarlo, perché vi nascessero i fiori un tempo sognati? Ah, quali fiori più, se ne aveva perduto finanche il seme! Là, i pennacchioli di quei cardi…

             Tutto era ormai finito per lui.

             Se n’era accorto bene, vagando quella mattina; libero finalmente, fuori della sua carcere, poiché la moglie e i figliuoli non avevano più bisogno di lui.

             Era uscito di casa, col fermo proposito di non ritornarvi mai più. Ma non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, né dove sarebbe andato a finire.

             Vagava, vagava; era stato sul Gianicolo, e aveva mangiato in una trattoria lassù… e bevuto, sì, bevuto… più, più di tre bicchieri… la verità! Era stato anche a Villa Borghese. Stanco, s’era sdrajato per più ore su l’erba d’un prato, e… sì, forse per il vino… aveva anche pianto, sentendosi perduto come in una lontananza infinita; e gli era parso di ricordarsi di tante cose, che forse per lui non erano mai esistite.

             La primavera, l’ebbrezza del primo tepore del sole su la tenera erba dei prati, i primi fiorellini timidi e il canto degli uccelli. Quando mai, per lui, avevano cantato così giojosamente gli uccelli?

             Che strazio, in mezzo a quel primo verde, così vivido e fresco d’infanzia, sentirsi grigi i capelli, arida la barba. Sapersi vecchio. Riconoscere che nessun grido poteva più erompere a lui dall’anima, che avesse la gioja di quei trilli, di quel cinguettio; nessun pensiero più, nessun sentimento nascere a lui nella mente e nel cuore, che avessero la timidità gentile di quei primi fiorellini, la freschezza di quella prima erba dei prati; riconoscere che tutta quella delizia per le anime giovani, si convertiva per lui in una infinita angoscia di rimpianto.

             Passata per sempre, la sua stagione.

             Chi può dire, d’inverno, quale tra tanti alberi sia morto? Tutti pajono morti. Ma, appena viene la primavera, prima uno, poi un altro, poi tanti insieme, rifioriscono. Uno solo, che tutti gli altri finora avevano potuto credere come loro, resta spoglio. Morto.

             Era lui..

             Fosco, angosciato, era uscito da Villa Borghese; aveva attraversato Piazza del Popolo, imboccato via Ripetta; poi sentendosi per questa via soffocare, aveva passato il ponte, e giù per il Lungotevere dei Mellini.

             Mortificato ancora per lo sgarbo involontario fatto a quella signora dal barboncino nero, incontrò là un mortorio che procedeva lento lento sotto gli alberi rinverditi, con la banda in testa. Dio, come stonava quella banda! Meno male che il morto non poteva più sentirla. E tutto quel codazzo d’accompagnatori… Ah, la vita!

             Ecco, si poteva felicemente definire così, la vita: l’accordo della grancassa coi piattini. Nelle marce funebri, grancassa e piattini non suonano più d’accordo. La grancassa rulla, a tratti, per conto suo, come se ci avesse i cani in corpo; e i piattini, cingi e ciang! per conto loro.

             Fatta questa bella riflessione e salutato il morto, riprese ad andare.

             Quando fu al Ponte Margherita, si rifermò. Dove andava? Non si reggeva più su le gambe dalla stanchezza. Perché aveva preso per via Ripetta? Ora, passando il Ponte Margherita, si ritrovava di nuovo quasi di fronte a Villa Borghese. No, via: avrebbe seguito da quest’altra parte il Lungotevere fino al nuovo ponte Flaminio.

             Ma perché? Che voleva fare, insomma? Niente… Andare, andare, finché c’era luce.

             Oltre ponte Flaminio finiva l’arginatura; ma il viale seguitava spazioso, alto sul fiume, a scarpa su le sponde naturali, con una lunga staccionata per parapetto. A un certo punto, Bernardo Morasco scorse un sentieruolo, che scendeva tra la folta erba della scarpata giù alla sponda; passò sotto alla staccionata e scese alla sponda, abbastanza larga lì e coperta anch’essa di folta erba. Vi si sdrajò.

             Le ultime fiamme del crepuscolo trasparivano dai cipressi di Monte Mario, lì quasi dirimpetto, e davano alle cose che nell’ombra calante ritenevano ancora per poco i colori come uno smalto soavissimo che a mano a mano s’incupiva vie più, e riflessi di madreperla alle tranquille acque del fiume.

             Il silenzio profondo, quasi attonito, era lì presso però, non rotto, ma per così dire animato da un certo cupo tonfo cadenzato, a cui seguiva ogni volta uno sgocciolio vivo.

             Incuriosito, Bernardo Morasco si rizzò sul busto a guardare, e vide dalla sponda allungarsi nel fiume come la punta d’una chiatta nera, terminata in una solida asse, che reggeva due coppi, due specie di nasse di ferro giranti per la forza stessa dell’acqua. Appena un coppo si tuffava, l’altro veniva fuori dalla parte opposta, sgocciolante.

             Non aveva mai veduto quell’arnese da pesca; non sapeva che fosse, né che significasse; e rimase a lungo stupito e accigliato a mirarlo, compreso quasi da un senso di mistero per quel lento moto cadenzato di quei due coppi là, che si tuffavano uno dopo l’altro nell’acqua, per non prender che acqua.

             L’inutilità di quel girare monotono d’un così grosso e cupo ordegno gli diede una tristezza infinita.

             Si riaccasciò su l’erba. Gli parve che tutto fosse vano nella vita come il girare di quei due coppi nell’acqua. Guardò il cielo, in cui erano già spuntate le prime stelle, ma pallide per l’imminente alba lunare.

             Si annunziava una serata di maggio deliziosa, e più nera e più amara si faceva a mano a mano la malinconia di Bernardo Morascò. Ah, chi gli levava più dalle spalle quei venti anni di galera, perché anche lui potesse godere di quella delizia? Quand’anche fosse riuscito a rinnovarsi l’animo, cacciandone via tutti i ricordi che ormai sempre gli avrebbero amareggiato lo scarso piacere di vivere, come avrebbe potuto rinnovarsi il corpo già logoro? Come andar più con quel corpo in cerca d’amore? Senza amore, senz’altro bene era passata per lui la vita, che poteva, oh sì, poteva esser bella! E tra poco sarebbe finita… E nessuna traccia sarebbe rimasta di lui, che pure aveva un tempo sognato d’avere in sé la potenza di dare un’espressione nuova, un’espressione sua alle cose… Ah, che! Vanità! Quel coppo che il fiume del tempo faceva girare, tuffare nell’acqua, per non prendere che acqua…

             Tutt’a un tratto, s’alzò. Appena in piedi, gli parve strano che si fosse alzato. Avvertì che non si era alzato da sé, ma che era stato messo in piedi da una spinta interiore, non sua, forse di quel pensiero riposto, come in agguato dentro di lui, da tanti anni.

             Era dunque venuto il momento?

             Si guardò attorno. Non c’era nessuno. C’era il silenzio che, formidabilmente sospeso, attendeva il fruscio dell’erba a un primo passo di lui verso il fiume. E c’erano tutti quei fili d’erba, che sarebbero rimasti lì, tali e quali, sotto il chiarore umido e blando della luna, anche dopo la sua scomparsa da quella scena.

             Bernardo Morasco si mosse per la sponda, ma solo quasi per curiosità di osservare da vicino quello strano ordegno da pesca. Scese su la chiatta, in cui stava confitto verticalmente un palo, presso i due coppi giranti.

             Ecco: reggendosi a quel palo, egli avrebbe potuto spiccare un salto, balzar dentro a uno di quei coppi, e farsi scodellare nel fiume.

             Bello! Nuovo! Sì… E afferrò con tutt’e due le mani il palo, come per far la prova; e, sorridendo convulso, aspettò che il coppo che or ora si tuffava di là nell’acqua facesse il giro. Come venne fuori di qua, man mano alzandosi, mentre quell’altro si tuffava, veramente fece un balzo e vi si cacciò dentro, con gli occhi strizzati, i denti serrati, tutto il volto contratto nello spasimo dell’orribile attesa.

             Ma che? Il peso del suo corpo aveva arrestato il movimento? Rimaneva in bilico dentro il coppo?

             Riaprì gli occhi, stordito di quel caso, fremente, quasi ridente… Oh Dio, non si moveva più?

             Ma no, ecco, ecco… la forza del fiume vinceva… il coppo riprendeva a girare… Perdio, no… aveva atteso troppo… quell’esitazione, quell’arresto momentaneo dell’ordegno per il peso del suo corpo gli era già sembrato uno scherzo, e quasi ne aveva riso… Ora, oh Dio, guardando in alto, mentre il coppo si risollevava, vide come schiantarsi tutte le stelle del cielo; e istintivamente, in un attimo, preso dal terrore, Bernardo Morasco stese un braccio al palo, tutte e due le braccia, vi s’abbrancò con uno sforzo così disperato, che alla fine sguizzò dal coppo in piedi su la chiatta.

             Il coppo, con un tonfo violentissimo per lo strappo, si rituffò schizzandogli una zaffata d’acqua addosso.

             Rabbrividì e rise, quasi nitrì di nuovo, convulso, volgendo gli occhi in giro, come se avesse fatto lui, ora, uno scherzo al fiume, alla luna, ai cipressi di Monte Mario.

             E l’incanto della notte gli apparve ritrovato, con le stelle ben ferme e brillanti nel cielo, e quelle sponde e quella pace e quel silenzio.

Il coppo – Audio lettura 1 – Legge Valter Zanardi
Il coppo – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
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