Legge Gaetano Marino.
«Un odio cupo e feroce s’impossessò di lei per il padre sconosciuto che l’aveva messa al mondo e abbandonata senza neppure vederla; che dopo averle dato la vita, le aveva negato ogni diritto di esistere per lui, solo perché lei senza sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre.»
Prime pubblicazioni: La lettura, maggio 1912, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914.
«Superior Stabat Lupus»
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
00:00 00:00 |
******
Corrado Tranzi, fino a ventiquattr’anni disprezzatore implacabile di tutte le donne, implacabile derisore di tutti gli uomini che se n’innamoravano, appena presa la laurea di dottore in medicina, chiamato per un caso d’urgenza mentre di buon mattino stava a concertare una partita di caccia nella farmacia d’un amico – (il bel cielo? il tepore della primavera imminente? qualche sogno della notte?) – s’innamorò anche lui tutt’a un tratto, proprio in quella sua prima visita di medico.
Che pregi straordinarii e doti scoprisse in quella fanciulla che venne ad aprirgli la porta, spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, l’avrà saputo lui che li scoperse. Certo è che, fin dal primo vederla, restò abbagliato a guardarla in bocca, mentr’ella affollatamente gli parlava della zia trovata a letto, un quarto d’ora prima, rantolante e senza conoscenza.
Introdotto nella camera della colpita, vide accanto al letto un giovinotto che forse, anzi certo, era il figlio, e un uomo e una donna che forse erano il padre e la madre della fanciulla. Il Tranzi notò subito che questa, mentr’egli dichiarava il male (caso indubbio e irrimediabile d’embolia cerebrale), s’era messa a carezzare i capelli del giovinotto, del cuginetto che piangeva con la faccia affondata nel guanciale proprio accanto al capo della madre agonizzante, e se ne stizzì tanto, che improvvisamente s’interruppe per ordinare che, perdio, quel figliuolo se ne poteva andare a piangere di là. Aria! aria! un po’ d’aria attorno al letto!
L’inferma morì tre giorni dopo. In quei tre giorni Corrado Tranzi riuscì a sapere tante cose: che la fanciulla si chiamava Ebe; che era figliuola d’un tal De Vitti, professore di fisica al Collegio Nautico; che la defunta era cognata del professore, vedova da tanti anni e accolta in casa col figliuolo che si chiamava Marco Perla; che questi, già impiegato modestamente alla Dogana, aveva chiesto col piacere dei parenti la mano della cuginetta, la quale però aveva rifiutato con molto dolore, confessando candidamente che le sarebbe stato impossibile sposarlo, perché, fin da bambina cresciuta con lui, lo amava come fratello, e solamente come tale e non altrimenti avrebbe potuto amarlo.
Sapute queste cose, Corrado Tranzi si fece avanti, senza perder tempo. Tra pochi mesi si sarebbe deciso il concorso a tre posti di assistente nell’ospedale maggiore della città, a cui egli aveva preso parte: era sicuro di vincere; sicurissimo; aveva poi qualcosa di suo e la professione di medico: poteva sposare.
Il professor De Vitti rimase dapprima costernato di tanta furia e della stranezza dei modi e del dire del giovine medico, ricciuto e barbuto, tutto scatti e schizzi tra sprezzature sbrigative; esitò; si provò a prender tempo con la scusa del lutto recentissimo; ma Corrado Tranzi, che giusto per questo lutto recentissimo temeva che l’amor fraterno della fanciulla per il cugino potesse da un momento all’altro cangiar natura col lievito della pietà, or che lo sapeva orfano anche di madre e bisognoso di conforto, tenne duro: o sì o no, subito! Ebe accettò e in pochissimo tempo si fecero le nozze.
Fu una furia, una frenesia d’amore, che durò appena un anno. Ebe morì di parto. La sera stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un pazzo; scomparve. Si venne poi a sapere che, incontrato per caso un giovane collega, il quale quella sera stessa doveva imbarcarsi come medico di bordo su un transatlantico, ne aveva preso il posto col piacere di lui, ed era rimasto in America, senza lasciar tracce di sé.
La bambina, orfana di madre e abbandonata così dal padre, crebbe in casa dei nonni, che la chiamarono Ebe come la loro figliuola. E sembrò ad essi che veramente la loro Ebe ricominciasse a vivere in quella bimba, dapprima tra le loro braccia, custodita con l’anima e col fiato, poi tra le loro cure piene di palpiti e di sgomenti.
A mano a mano, crescendo, Bebé somigliò sempre più alla mamma: ne ripeté tutte le grazie infantili, le mosse, i sorrisi, i primi giuochi, tra lo stupore accorato de’ due vecchi che credevano d’assistere a una prodigiosa resurrezione.
Il nipote, Marco Perla, nel vederla anche lui crescere così simile in tutto alla cuginetta ch’egli avrebbe voluto far sua, cominciò a provare di tratto in tratto, o per il guizzo di uno sguardo o per il suono d’una risata o d’una parola o per un capriccetto o una bizza della piccina, l’impressione curiosa quasi d’un arresto in sé, d’un ritorno misterioso a tante cose, non già riviventi, ma ancor vive dentro di lui; non già ai ricordi della sua infanzia trascorsa insieme con un’altra bimba, di cui questa era il ritratto preciso, ma agli stessi sentimenti onde quei ricordi erano animati e che si rifacevan vivi, della vita stessa della piccina.
La quale, ecco, come quell’altra, voleva giocare con lui; voleva – senza saperlo – far ripetere a lui quegli stessi giuochi già fatti con quell’altra se stessa, ch’era stata la sua mamma piccina.
E lui ripeteva quei giuochi.
Di ritorno dall’ufficio, si nascondeva dietro l’uscio dello stanzino bujo, ov’erano due vecchi armadi. L’odore che covava in quel luogo attufato, senz’aria, senza luce, era come il respiro stesso dell’infanzia lontana. Gridava con la voce d’allora cu-cu, e stava ad aspettare che quella, quell’altra, ma viva, viva ancora in questa piccina, venisse a scoprirlo, a scovar lui anche piccino lì dietro quell’uscio; e, appena dallo spiraglio la intravedeva tutta ansiosa e vibrante e perplessa, ecco, come allora, tratteneva il fiato e trepidava e, potendo, scappava via da quel nascondiglio e si metteva a correre, a girare per non farsi prendere, attorno alla tavola apparecchiata, e si cacciava tra le seggiole sotto la tavola per riuscir dall’altra parte, finché, caduto a sedere per terra, non si lasciava acchiappare dalla bimba accesa in volto e inferocita.
Ma per dove lo acchiappava? Oh! per i baffi ch’egli allora non aveva; o gli ghermiva le lenti, ch’egli allora non portava. E di questo improvviso ripiombare su se stesso restava in prima sbalordito, a lisciarsi sul labbro i baffi scomposti, a stropicciarsi gli occhi miopi smarriti. Qualche volta la zia lo sorprendeva ancor lì seduto per terra e gli domandava che facesse.
– Niente, – le rispondeva con un sorriso vano. – Giuoco con Bebé.
Tra tutti i ricordi, più vivo e più preciso aveva quello del giorno e dell’ora che per la prima volta in un bacio della cuginetta aveva sentito d’improvviso, lui solo, il sapore e il calore d’un amor nuovo, diverso dal solito, per cui s’era tutto turbato e acceso, quasi che da quelle rosee e fresche labbra ignare gli fosse venuto un fuoco delizioso per tutte le vene. Ebe aveva dodici anni; lui quindici; ed era stato un giorno d’aprile, nelle prime ore del mattino. Lei si era accorta subito, allora, che egli in quel bacio aveva colto per la prima volta un sapor nuovo, e se n’era avuta per male e non aveva più voluto che lui la baciasse a quel modo.
Ma non s’accorgeva, non si poteva accorgere di nulla, ora, questa piccola Bebé già pervenuta a quell’età della madre, e ogni giorno, nel vederlo ritornare dall’ufficio, gli buttava le braccia al collo e lo baciava con ardente furia infantile.
Lui si restringeva tutto in sé e strizzava gli occhi e serrava i denti sotto quella furia per impedire con tutte le forze che anche da queste rosee e fresche labbra ignare, le quali per lui ancor più che per i vecchi nonni erano pur quelle medesime della prima Ebe, gli venisse lo stesso fuoco per tutte le vene.
– Non mi baci? Oh, come sei buffo! Che hai? – gli domandò una volta Bebé, dopo averlo baciato, guardandolo in faccia e scoppiando a ridere. – Perché ti fai così brutto? Perché non mi baci?
Lui scappò via e, davanti allo specchio, si mise a piangere.
La morte quasi improvvisa del professor De Vitti venne a strappare violentemente Marco Perla da quell’ibrido e atterrito stato d’animo.
Il professore, entrato tardi nell’insegnamento, non aveva compiuto gli anni di servizio per la pensione, sicché alla vedova toccavano poche migliaja di lire: circa otto, che furono messe da parte per la nipotina.
Restò lui, ora, Marco Perla, unico sostegno della famigliuola.
Ne fu lieto, da un canto; ma dall’altro, l’idea che Bebé cominciasse a vedere in lui un altro, il capo di casa, quasi il padre, e a considerarlo come tale, lo sconcertò profondamente.
Da un pezzo la zia notava in lui curiose assenze di memoria, strane smanie, improvvise tristezze; e lo vedeva dimagrire e fissarsi sempre più in una ispida e squallida bruttezza. Sospettava che fosse innamorato; che quella morte dello zio gli avesse troncata la speranza di farsi una casa; che gli pesasse il debito di gratitudine per i benefizii ricevuti da bambino.
Marco Perla invece, nel vedere Bebé di giorno in giorno sbocciare come un fiore, era invasato dalla paura che un altro d’un tratto venisse a strappargliela, come già gli era stata strappata la madre di lei, senza ch’egli potesse opporsi in alcun modo, pur sentendosi amato. Ma sì! una volta da fratello; ora forse da padre.
E presto venne infatti il giorno che la zia, tutta esultante, credendo di dargli un gran piacere, gli confidò che quella mattina stessa aveva ricevuto una lettera da un giovane, che si vedeva spesso passare per istrada, bello come un angiolo, diceva, biondo, coi capelli lunghi; un giovine pittore che presto sarebbe partito per Roma pensionato, e che… Non potè proseguire, la zia; tanto il volto del nipote s’era alterato.
– Ah, questo per Roma? come quell’altro per l’America? – sghignò orribilmente. – Ma non vi basta una? Due eh? volete buttarne via due, così, al primo che capita?
Diceva: volete, come se fosse ancor vivo lo zio e volesse anche lui infliggergli il supplizio dell’altra volta. Delirando, confondendo il primo strazio con questo d’ora, il primo amore per la cugina con questo per la figliuola di lei, ch’era per lui lo stesso amore superstite, lo stesso amore due volte vivo, egli gridò alla zia tutta la sua passione.
La zia, dapprima sbalordita, poi quasi atterrita, cercò di calmarlo. Gli disse che mai e poi mai non avrebbe sospettato ch’egli avesse potuto prendersi così d’amore per quella piccina. Sì, la ragione c’era; ma difficile farla intendere a Bebé che non sapeva nulla. Come dirle: «Tu, cara, hai creduto di vivere per te tutti questi anni, e invece no: tu hai vissuto per rinnovare a me, nel mio cuore, la passione che io ebbi per tua madre!»
Oh, lei, la zia, sarebbe stata felice d’affidare a lui quella piccina sua; proprio felice. Ma Bebé? Promise ajuto: ma non bisognava aver fretta. Prima si doveva levar via dal cuore di Bebé quell’amoretto fatuo per il giovine pittore, dimostrandole che costui per l’età, per la professione, per tant’altre cose, non dava alcun serio affidamento; poi, a poco a poco… chi sa?
Furono per Marco Perla mesi d’angoscia e di disperazione.
Forse la zia non aveva saputo parlare. Lo argomentava dal contegno di Bebé verso di lui. Ma la zia lo assicurava che non le aveva ancor mosso alcun discorso di lui, neppure un cenno, e che Bebé era così, perché, indotta da lei, aveva troncato ogni corrispondenza con quel giovine già partito per Roma. Bisogna ancora aspettare, lasciarla quietare.
Aspettare? fino a quando? Più tempo passava, e più profondamente vedeva egli radicati nel cuore di lei il ricordo e il rimpianto di quel giovine già partito per Roma. O forse la zia non trovava il coraggio di parlare? Deperiva di giorno in giorno, povera vecchia, quasi rosa da quel segreto che egli le aveva confidato.
Lo trovò poco prima di morire, il coraggio di parlare a Bebé, la povera zia. Se la chiamò accanto al letto, e cominciò a domandarle se ella si rendesse conto della condizione in cui tra poco si sarebbe trovata: sola in casa, giovinetta, con un uomo che non le era né padre, né fratello, anche lui quasi giovane ancora, senz’alcun obbligo veramente verso di lei. Che cosa era egli per lei? Figlio d’una sorella della nonna. Ed ella per lui? Figlia d’un uomo, che un giorno era irrotto come una bufera in casa e l’aveva schiantata. Una pianticella quasi senza radici, era: la madre, morta; il padre, sparito. Non le restava altro sostegno che lui, Marco, il quale si era sacrificato per loro. Bisognava dargli un compenso, un premio per i tanti sacrifizii. Egli era buono e l’amava: le sarebbe stato padre e marito insieme. Se Bebé voleva ch’ella morisse tranquilla, le doveva dir sì.
Stupore, dolore, orrore, vergogna assaltarono e sconvolsero Bebé, a questa rivelazione inattesa. Si aggrappò al collo della nonna e, rompendo in singhiozzi, la scongiurò di non morire, per carità di lei. No no; ecco: la avrebbe tenuta stretta così, per sempre, e non le avrebbe permesso di morire, ecco, non glielo avrebbe permesso! Ora che sapeva questa cosa orribile, sola con zio Marco non voleva, non poteva più restare. Per carità! per carità! Sarebbe morta lei, piuttosto.
Bebé non aveva mai pensato al padre scomparso: non aveva mai avuto per lui alcun sentimento, né rancore né curiosità: esso per lei non esisteva, non era mai esistito. Cominciò a esistere il giorno della morte della nonna, allorché, ritornata in casa dal camposanto, si vide insieme con Marco Perla: insieme e divisa, insieme e nemica, conoscendo in lui un sentimento al quale non sapeva e non voleva rispondere.
Un odio cupo e feroce s’impossessò di lei per il padre sconosciuto che l’aveva messa al mondo e abbandonata senza neppure vederla; che dopo averle dato la vita, le aveva negato ogni diritto di esistere per lui, solo perché lei senza sua colpa, nascendo, aveva ucciso la madre; come se questa non fosse stata una sciagura anche per lei, e anziché odio e orrore, la sua vista, la vista della figliuola orfana appena nata, non avrebbe dovuto suscitare in lui una maggiore pietà, il sentimento d’un doppio dovere! Era fuggito, scomparso, per orrore di lei, sottraendosi a ogni responsabilità per la vita che le aveva dato, e rovesciando questa responsabilità addosso ai due poveri vecchi, a cui aveva tolto la figlia, e ora addosso a uno, che non aveva alcun dovere di assumersela.
Bebé ignorava che anche a costui il padre aveva tolto qualche cosa; ignorava ch’egli aveva lasciato a costui il peso della figlia dopo avergli tolto l’amore della madre.
Dov’era il padre adesso? Viveva ancora? E come non pensava che, dopo tanti anni, potevano esser morti, com’erano difatti, i due vecchi, nelle cui mani aveva abbandonato la figliuola? Come non pensava a tutto ciò che sarebbe potuto accadere e che già accadeva a lei, così sola e senza ajuto? Forse egli aveva ora laggiù un’altra famiglia, altri figli, e pensando a questi che da vicino attendevano da lui amore e cure, si toglieva il rimorso di non aver mai pensato a lei lontana.
Ed ecco, uno adesso la raccoglieva, che di quanto aveva fatto per lei voleva esser pagato e in pagamento esigeva tutta lei stessa, tutta la sua vita che gli apparteneva, poiché colui, quell’altro, glien’aveva lasciato il peso.
Per la violenza di questi pensieri e di questi sentimenti, Bebé, affogata di tristezza, con lo spirito sconvolto dalla iniquità della sua sorte, ammalò subito e così gravemente, che per parecchi giorni fu in pericolo di vita.
Lottarono a lungo e senza tregua la sua volontà di morire e l’amore di Marco Perla, che le si espandeva attorno, vigile, fervido a trattenerla, a sostenerla, con insistenti, ininterrotte premure, pronto sempre a dare il proprio alito per ogni respiro che ella non volesse più trarre, e la propria vita per nutrire quell’atroce volontà di morte.
E alla fine vinse l’amore di lui; ed ella nel languido intenerimento e nell’abbandono della convalescenza, per gratitudine e per pietà, alla fine cedette e s’indusse a sposarlo.
Guarita, già donna, mirandosi il corpo fiorente, le carni ancor quasi acerbe e già offese e condannate a rimanere per sempre ignare d’ogni gioja d’amore, non potè sottrarsi alla riflessione che la misera, magra bruttezza di lui, già quasi vecchio, dava un valore inestimabile a quel suo corpo, e che perciò il pagamento che di esso egli aveva voluto farsi, rappresentava quasi un patto d’usura, solo in parte mitigato dall’adorazione di cui la circondava.
Sarebbe stata quest’adorazione simile in tutto a quella dell’avaro per il suo tesoro, se egli non si fosse poi dimostrato tanto ingordo di lei; oh sì, come se su lei volesse saziare una lunghissima fame, di cui ella sentiva orrore, ripensando ai baci che le aveva dato da bambina. E in quell’ingordigia s’imbruttiva sempre più, diventava di giorno in giorno più giallo, più ispido e magro. E anche s’accaniva a lavorare per migliorare le non laute condizioni finanziarie. Pochi mesi dopo il matrimonio, volle prender parte a un concorso interno tra gli ufficiali di dogana, e riuscì tra i vincitori. Doveva ora recarsi a Roma per un corso biennale di perfezionamento all’Istituto superiore di merceologia. Sperava, dopo i due anni, di poter rimanere a Roma, al Ministero delle finanze.
Se non che, durante lo sgombero della casa per la partenza, avvenne a Bebé di scoprire in un vecchio stipetto della nonna, relegato in soffitta, un fascio di lettere di quel giovane pittore partito per Roma circa due anni addietro per il pensionato artistico, lettere che la nonna aveva intercettate e nascoste intatte, forse perché non aveva osato distruggerle o forse perché fino all’ultimo s’era ripromessa di darle alla nipote, se Marco si fosse convinto ch’era vano sperare d’indurla a cedere.
A questa scoperta, Bebé sentì strapparsi le viscere e il cuore. Allibì dapprima, poi l’ira, lo sdegno le fecero un tale impeto nello spirito ch’ella, con le mani tra i capelli e gli occhi sbarrati e ferocemente fissi, si vide quasi impazzita nello specchio di quello stipetto.
Come, con quelle lettere sottratte, aveva potuto la nonna assicurarla che quel giovine, appena arrivato a Roma, s’era dimenticato di lei? Quelle lettere riboccavano di passione, gridavano e piangevano e scongiuravano. Ed ella aveva creduto alla nonna! E quel giovine aveva potuto pensar di lei tutto il male che ella aveva pensato di lui! Ma sì, ecco, nell’ultima lettera disperata, la dichiarava indegna del suo amore, e fatua e spergiura e civetta e senza cuore.
Ah, che infamia! che infamia! Si erano messi dunque d’accordo la nonna e Marco; d’accordo avevano commesso un tradimento così vile? Ma già! Non doveva pagare? Il sacrifizio della sua persona non bastava; anche col sacrifizio di quell’amore doveva pagare le cure, il mantenimento che le avevano dato. Oh, Dio, Dio, che cosa… oh Dio, che cosa…
Ma a Roma – ah! a Roma, adesso, si sarebbe vendicata. Avrebbe rintracciato quell’altro, a ogni costo. Anche a costo di perdersi, si sarebbe vendicata.
A Roma, tre mesi dopo, una sera d’inverno, alla porta del vecchio quartierino preso a pigione da Marco Perla in un lugubre casone del viale solitario di Castro Pretorio al Macao, bussava un vecchietto ferrigno dalla barba crespa, già molto brizzolata, che si confondeva col grigio bavero della pelliccia. Corrado Tranzi.
Attendendo che venissero ad aprirgli, col capo chino, le ciglia aggrottate e gli occhi torvi che palesavano un’ansia spasimosa, s’affondava le unghie nel palmo delle mani e stropicciava convulsamente i pollici sul dorso delle altre dita serrate.
Quando alla fine la serva venne ad aprirgli, alla vista della casa in cui stava per introdursi, sentì mancarsi il respiro.
– Il signor Perla?
La serva lo guardò costernata, e disse esitante:
– Ma non so se il signore, in questo momento, possa ricevere. Non sta bene, e…
– La signora?
– Anche lei.
– Malata?
– Ha avuto… non so… aspetti: vado a sentire il padrone.
E la serva scappò via lasciandolo lì, davanti l’entrata, senza neppure invitarlo a varcare la soglia. Ritornò poco dopo a rispondere che il signor Perla si scusava, ma proprio non poteva riceverlo perché ammalato e che anche la signora era indisposta.
– Io sono medico, – disse allora il visitatore. – Per tutti e due. Ed entrò.
– Ma signore…
– Dite al signor Perla che c’è il dottor Corrado Tranzi. Andate.
Marco Perla stava buttato, dalla sera precedente, su una poltrona in uno stanzino che voleva essere salotto e studiolo; vi aveva passata la notte; non se n’era levato neppure per prendere un po’ di cibo a mezzogiorno. Solo dalla serva, più tardi, aveva accettato una tazza di caffè con dentro una buccia di limone. Al nome di Tranzi restò come esterrefatto. E due volte tentò di balzare in piedi, ricascando ogni volta su la poltrona. Ajutato dalla serva, potè alla fine mettersi in piedi e accorrere nella saletta.
– Corrado?
Restarono per un momento entrambi, di fronte, come precipitati l’uno verso l’altro a guardarsi dal tempo remoto, in cui per l’ultima volta si erano veduti.
In un attimo, con tutte le memorie balenanti di quanto era loro accaduto, dovevano colmare il vuoto di tutto quel tempo per riconoscersi così cangiati.
Oppresso di stupore, ansimante, Marco Perla credette di scorgere negli occhi del Tranzi l’animo con cui questi gli si rifaceva incontro. Non doveva pensare il Tranzi ch’egli avesse voluto prendersi una rivincita sposando sua figlia, poiché da lui aveva avuto tolta la madre? E non doveva a un tal pensièro essere pieno d’odio e d’orrore?
Si sentì mancare, sprofondare.
Ma si ritrovò invece tra le braccia di lui, sorretto premurosamente; udì invece la voce di lui che gli diceva:
– Tu… così… Ma stai male davvero! Qua… che hai?… Ma tu scotti! Non ti reggi! Hai la febbre…
E provò un sollievo, un refrigerio, un conforto, tanto più vivo e dolce, quanto più inatteso e insperato. Prese a singhiozzare, a gemere tra singhiozzi mentre quegli, insieme con la serva, lo riconduceva alla poltrona nello stanzino:
– Ti manda Iddio! ti manda Iddio!
– Qua… qua… – riprese il Tranzi adagiandolo su la poltrona. – Che cos’è? Guardami… guardami bene in faccia… Vengo da Palermo… Sono sbarcato a Genova. Corro a Palermo, domando, mi informano di tutto… Tu… tu hai sposato mia figlia? Dov’è? dov’è?
Il Perla, accasciato, curvo, con le mani su la faccia, gridò rabbiosamente:
– Non l’avessi mai fatto!
– Non dovevi farlo, Marco! – rispose pronto il Tranzi, con una voce strana, che voleva parer di rimprovero e di rammarico soltanto, ma in cui vibrava un furore a stento contenuto. – Come, come hai potuto farlo?
– Te la puoi riprendere, ora! te la puoi riprendere… – disse allora affrettatamente il Perla, senza togliersi le mani dal volto. – Te la puoi portar via… via… via…
– Perché? dov’è, insomma? – domandò il Tranzi guardandosi attorno.
– Di là… S’è chiusa in camera… – rispose il Perla. – Aspetta… Aspetta… : Si voltò alla serva:
– Voi! andate ad avvertire la signora…
Poi, brancicando, si portò una mano nella tasca interna della giacca: ne trasse un logoro portafogli, ne cavò una lettera eia porse al Tranzi:
– Leggi prima… leggi…
– Che cos’è?
– Leggi… È del suo amante.
Corrado Tranzi serrò le pugna con la lettera e, come una belva ferita, s’avventò su la poltrona, sopra il Perla, ruggendo: – Ma tu…
– Io? – gridò allora quello reagendo, e in un furibondo prorompimento di ribellione, buttò in faccia all’antico rivale tutto il male che da lui aveva sofferto, tutto il bene che in cambio aveva fatto, per riceverne poi in premio questo tradimento.
Alle grida, si fece davanti all’uscio, sgomenta, la serva. Appena il Tranzi la scorse, le gridò:
– Mia figlia?
E a un cenno accorse.
Ebe, su la soglia della camera in cui s’era chiusa, lo accolse spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, come già sua madre la prima volta lo aveva accòlto in quel lontano mattino di primavera, quando lui, giovane medico, era stato chiamato per caso in una farmacia.
Era lei! Era lei! la sua Ebe che lo riaccoglieva così come si può accogliere un estraneo in un momento d’improvviso, supremo bisogno! E ben chiaramente nello sguardo ostile le si leggeva, che se ella non si fosse trovata in quel tremendo frangente, non lo avrebbe accolto, non avrebbe voluto vederlo.
– Ebe mia! Ebe mia!
Conoscendola in sua madre, egli non poteva comprendere ch’ella, con quegli occhi stessi di sua madre, non potesse riconoscer lui. Si sentì con una mano respinto al petto dall’abbraccio.
– Non m’abbracci?… Oh, figlia mia! Lasciati almeno baciare sui capelli… Tu hai ragione. Ma tutto il male, tutto il male lo fece tua madre, con la sua morte!
– E chi l’ha scontato? – disse Ebe, guardandolo con dura freddezza negli occhi.
– Non tu sola! non tu sola! – replicò egli subito. – Che ne sai tu? Sì, sono stato colpevole verso di te… Ma non credevo… non credevo… Ora che ti vedo, comprendo tutto!
Ebe vide il volto del padre, nel proferir queste ultime parole, scomporsi d’improvviso in una espressione tra di stupore e d’orrore; gli udì soggiungere a bassa voce:
– Comprendo… comprendo perché lui t’ha sposata… Tu non sai, tu non puoi sapere…
Rabbrividì; comprese; domandò anche lei a bassa voce, inorridita:
– La mamma… Lui?
– Sì, sì…
E in questo riconoscimento provarono, l’uno, una rabbia feroce, come per un tradimento infame che colui, profittando vigliaccamente della sua assenza, gli avesse fatto con la madre; l’altra, il ribrezzo, l’abominazione come per un incesto che quegli avesse perpetrato su lei.
Si ritrassero tutti e due nella camera; ne serrarono l’uscio e parlarono a lungo tra loro. Egli le disse anche tutti gli stenti, tutte le lotte che aveva dovuto sostenere laggiù, pur disperato, divorato dal cordoglio. Il pensiero di lei, sì, gli era stato dapprima odioso, perché non riusciva a staccarlo da quello della morte della madre; gl’inacerbiva la piaga e lo rendeva feroce. Poi, quando poté cominciare a sentir pietà di lei abbandonata – (non rimorso veramente, mai, perché mai non immaginò che avessero potuto mancarle cure e affetto da parte dei nonni che supponeva ancora in vita) – pensò che, avendola abbandonata così, non essendosi fatto più vivo con lei, avrebbe dovuto almeno farla ricca, per ricompensarla del lungo abbandono. E ricco difatti ritornava.
– Troppo tardi?
Troppo tardi, sì. Il tradimento – gli spiegò Ebe – non lo aveva commesso lei, lo avevano commesso la nonna e Marco, prima.
Egli aveva ancora in mano, appallottolata, la lettera che il Perla gli aveva dato da leggere.
– L’hai letta? – gli domandò Ebe.
– No, non ancora…
– Neanche io; ma ci dev’esser certamente la prova ch’egli non ha ancor nulla da rimproverarmi! Non ho ingannato né tradito. Non ho fatto altro che giustificarmi con questo… con questo giovine che mi ha scritto la lettera… Leggila… leggila pure…
E prese a parlargli di quel suo amore ingenuo, quando si credeva libera di disporre di sé, del suo cuore: delle lettere sottratte dalla nonna e scoperte per caso alla vigilia della partenza per Roma.
Ma nel mezzo del racconto, la serva venne a picchiare all’uscio per avvertire che di là il padrone stava molto male, pareva soffocato.
Corrado Tranzi accorse. Perché gli venne di domandare in prima, se non fosse stato già chiamato il medico?
– No, nessun medico ancora, – rispose la serva.
Con l’ajuto di questa, egli trasportò sul letto Marco Perla che, tra le vampe della febbre, delirava. Lo spogliò; prese a esaminarlo; gli ascoltò il cuore, a lungo, poi i polmoni, picchiando sul petto, su le terga. Marco Perla, sorretto dalla serva a sedere sul letto, col capo ciondoloni gemeva, rugliava, mormorava parole sconnesse. Finito l’esame, il Tranzi fe’ cenno alla serva di riadagiare sul letto l’infermo sotto le coperte, e si mise a passeggiare per la camera, assorto.
Non era provvidenziale, che lui, fin da quella sera, appena arrivato, si potesse avvalere della sua qualità di medico?
Un brivido gli corse per la schiena. Si raddrizzò sul busto, dolorosamente, si passò le mani tremanti sui capelli; poi si portò un dito tra i denti e stette un pezzo a guardar fisso innanzi a sé. Movendo gli occhi, scorse la servarsi voltò a guardar l’infermo; andò a sedere presso un tavolinetto, su cui appoggiò i gomiti, stringendosi la testa tra le mani.
– E grave? – domandò allora la serva.
Egli si riscosse e la mirò, come se non avesse inteso.
– Grave, sì, – poi disse. – Ma non c’è da dargli per ora alcun rimedio. Va’: nel caso chiamerò.
Rimasto solo, si levò da sedere, si rimise a passeggiare per la camera, schivando di guardare l’infermo.
Da anni e anni gli erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso, che non potevano avere altra conclusione che in un atto estremo. Conosceva il ribrezzo per questo atto, il tumulto di tutte le energie vitali insorgenti a impedirlo, la volontà che le domava, lo sfogo che allora si davano quelle, nell’immaginare la vita che sarebbe rimasta per gli altri, dopo la sua morte. Ma qui l’atto violento da compiere non era più contro se stesso; e la vita che sarebbe rimasta per gli altri, non gli si rappresentava più come in una triste inutile successione di casi press’a poco invariabili. Qui, gli altri non erano più estranei indifferenti. Egli vedeva sua figlia; e la vita che gli si rappresentava, dopo l’atto violento da compiere, era quella di lei. Non avrebbe esitato un momento, se avesse dovuto agire contro se stesso. Ma agire contro un altro, e a tradimento, gli rendeva il ribrezzo invincibile.
Tutta la notte, dibattendosi in quella veglia spaventosa nella camera dell’infermo, cercò di radicarsi nell’orrenda decisione, che gli appariva di punto in punto sempre più necessaria e quasi fatale.
Altri aveva allevato sua figlia, altri la aveva finora mantenuta, per altri ella era ancora in vita. Egli non aveva mai fatto nulla per lei.
Doveva far questo, ora. Non aveva più altro da fare.
Le aveva portato la ricchezza; ma a che poteva valere per lei, ormai legata com’era a quel vecchio, dopo il sacrifizio del suo amore? Perché avesse valore per lei quella ricchezza, perché ella potesse dire di dover veramente la vita a suo padre, bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli altri; e il debito che aveva pagato con la propria persona. Sì, senza esitare, poiché così provvidenzialmente il caso lo favoriva, egli doveva sopprimere chi aveva fatto per la figlia tutto quello che avrebbe dovuto far lui; sopprimere chi aveva voluto in tutto sostituirlo, ripigliandosi anche la madre nella figlia. A questo solo patto poteva dirsi padre. Liberandola da tutti i legami contratti dal tempo in cui egli per lei non era esistito, le avrebbe ridato, con questa libertà e con la ricchezza, la vita.
Balenò a Ebe il sospetto della truce decisione del padre, nel vederlo la mattina dopo tutt’intento e premuroso nella cura del malato, dopo quanto tra loro era stato detto, la sera avanti? Forse sì: ma si vietò d’assumerne coscienza.
Troppo chiaramente però, in fine, parlò lo sguardo di lui, quando, disfatto, curvo sul letto a spiare l’ultimo respiro del moribondo, si rialzò e si volse verso di lei, che gli stava accanto convulsa, atterrita.
Le diceva con quello sguardo di non aver paura perché egli doveva fare così.
Se la strinse al petto; le sussurrò tra i capelli:
– Sei libera. Puoi vivere ora.
Ma ella sentì che non poteva più, ora, sapendo. E s’appoggiò a quel petto per non scorgere sul letto la vittima.
«Superior stabat lupus» – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
«Superior stabat lupus» – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
«Superior stabat lupus» – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
«Superior stabat lupus» – Audio lettura 4 – Legge Valter Zanardi
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com