Pensaci, Giacomino! – Atto terzo

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Premessa
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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Pensaci, Giacomino - Atto III
Ernesto Calindri, Pensaci, Giacomino!, 1992. Immagine dal Web.

1916
Pensaci, Giacomino!
Atto Terzo

        Salottino quasi monacale, in casa Delisi. Arredo all’antica, modestissimo. Su una mensola nella parete di fondo, tra due usci con tende, un grande quadro della Madonna del Rosario col lampadino acceso davanti. Lateralmente a destra e a sinistra, altri due usci, anch’essi con tende.

        Sono in iscena don Landolina e Rosaria Delisi, quello seduto sul vecchio divano, questa sulla poltroncina accanto. Don Landolina sorseggia una tazza di caffè.         

        LANDOLINA. Ah, creda, creda che è andata bene. Proprio bene. Lasciato nell’illusione d’aver indovinato lo scopo della mia visita… (S’interrompe): (Com’è buono questo caffè!)

        ROSARIA. Va bene di zucchero?

        LANDOLINA. Benissimo! (Riprendendo il discorso): «Andiamo per le spicce» – mi disse a un certo punto. – «Mandato dalla sorella, lei vorrebbe che io pregassi Giacomino di non mettere più piede in casa mia. Vuol questo?» – E io allora? (imitando il suo fare, con mansuetudine dispettosa): «No, professore; non questo propriamente!» – (E si mette a ridere.)

        ROSARIA. M’immagino lui, allora!

        LANDOLINA. Restò. Non se l’aspettava. (Accenna d’alzarsi per posare la tazza vuota.)

        ROSARIA. (pronta, prevenendolo). No no; dia qua! dia a me!

        LANDOLINA. No, prego! (Le cede la tazza, che Rosaria va a posare sulla mensola.)Grazie. (Riprendendo di nuovo il discorso): Gli sembrava che il più per noi fosse questo: impedire l’andata di Giacomino a casa sua. Come seppe che questo per noi era ormai pacifico, e che non doveva più mettersi neanche in discussione, – «Ma come?», dice «E allora?»

        ROSARIA. Già, già; m’immagino. Sarebbe stato meglio, però, che codesta benedetta assicurazione se la fosse fatta scrivere sotto gli occhi.

        LANDOLINA. Glielo chiesi. Mi rispose che non aveva tempo. Insistere, per il momento, non sarebbe stato prudente. Bisognava dir la cosa (e saperla dire), ma poi lasciarla Lì, fingendo che per me non aveva nessun valore pratico, mi spiego? ma soltanto morale, di conforto per lei, fors’anche un poco ingenuo, mi spiego?

        ROSARIA. Sì, capisco. E ingenuo è, difatti; ma lei sa bene che non è per me; è per la ragazza che vorrebbe averla, codesta dichiarazione. Ora temo ch’egli ci ripensi e non me la scriva più.

        LANDOLINA. Non credo. Me lo assicurò più volte. E, dato che per lui non ha nessuna importanza, la farà, anche per il piacere di gabbarci con niente. Intanto, con la mia visita s’è guadagnato questo: che neppur lui adesso mette più in discussione che Giacomino possa andare ancora a casa sua.

        (Non ha finito di dir così che la vecchia serva Filomena si precipita in iscena per l’uscio comune, annunziando con apprensione ch’è quasi sgomento):

        FILOMENA. Il professore, signorina! Il professore! Il professore!

        LANDOLINA. (con un balzo). Come?

        ROSARIA. (con un altro balzo). Qua?

        FILOMENA. Davanti la porta! Sento il campanello; corro ad aprire; per fortuna mi viene prima d’aprire la spia! – lui lui, e col bambino!

        ROSARIA. Ah! Col bambino? Anche col bambino!

        LANDOLINA. Che tracotanza! Dio mio! Sorpassa ogni limite!

        ROSARIA. Ha capito? Non mette più in discussione che Giacomino possa andare a casa sua, ed eccolo qua che viene lui invece a casa di Giacomino!

        FILOMENA. Che fare, intanto? Che vuole che gli si dica?

        LANDOLINA. Proibirgli, proibirgli d’entrare!

        ROSARIA. Ditegli che Giacomino non è in casa!

        LANDOLINA. Ecco, benissimo! Ditegli così!

        ROSARIA. Senza aprire la porta! Dalla spia!

        FILOMENA. Non dubiti! Glielo dico dalla spia! (Via per l’uscio donde è entrata.)

        ROSARIA. Lo vede, Padre? E lei che diceva…

        LANDOLINA. Sono trasecolato, creda, per l’improntitudine di quest’uomo!

        ROSARIA. Dio mio! Dio mio! Come si fa?

        LANDOLINA. Bisogna tener duro! Non transigere, signorina! Pareva rassegnato, pareva! Io non so! Pretese lui stesso che gli parlassi chiaro, aperto. E io con tutti i debiti riguardi! Mi licenziò assicurandomi che me ne potevo andar via tranquillo!

        ROSARIA. Ed eccolo qua col bambino! Mandato dalla moglie, certo!

        LANDOLINA. Mi domando in questo caso, se non ci convenga piuttosto, un uomo così, affrontarlo risolutamente; anziché nasconderci come stiamo facendo.

        ROSARIA. Ma chi lo affronta? Lei?

        LANDOLINA. Io, no. Non credo che gioverebbe. Non per tirarmi indietro. Ma qua ci vuole uno della famiglia. Lei, signorina Rosaria. Perché no? La sorella. O se no, lui: Giacomino stesso!

        ROSARIA. No! Giacomino, no! Giacomino, no!

        LANDOLINA. Dia ascolto a me. Non dico ora, perché non è prevenuto; ma se Giacomino ha il coraggio di dirgli in faccia lui stesso che tutto è finito e che non s’attenti più a venire… Ah, ecco la nostra buona Filomena! (Rientra in iscena Filomena.)

        ROSARIA. Se n’è andato?

        FILOMENA. Che andarsene! Non vuol saperne!

        ROSARIA. Ma non gli avete detto che Giacomino non è in casa?

        FILOMENA. Detto e ridetto cento volte!

        ROSARIA. E lui?

        FILOMENA. Ride.

        LANDOLINA. Ride?

        FILOMENA. Ride, e dice: – «Va bene, va bene». – Che vuol parlare

        con lei, dice.

        ROSARIA. Con me?

        FILOMENA. Mi sono provata a fargli intendere che non era in casa neanche lei.

        LANDOLINA.. E lui?

        FILOMENA. Ride. «Apritemi: l’aspetterò.» – «La porta» dico «è fermata; non ho la chiave». Sa che ha fatto? S’è seduto sullo scalino, dicendomi: «E allora la aspetterò qua!». – Non se n’andrà, nemmeno a legnate.

        LANDOLINA. (risolutamente). Orsù, coraggio, signorina: lo riceva!

        ROSARIA. Lo ricevo?

        LANDOLINA.. Lo riceva. E procuri di frenarsi quanto più può. Fermezza! Pazienza! Lei ne ha tanta. Dia ascolto a me. Voi, Filomena, andate ad aprire. Io mi ritiro qua, col suo permesso.(Indica l’uscio laterale a destra.)

        ROSARIA. Può andare da Giacomino, in camera sua.

        LANDOLINA.. Andrò da lui. Fermezza! Pazienza! (Via per l’uscio laterale a destra, mentre Filomena uscirà per l’altro. Poco dopo il professor Toti col bambino per mano verrà avanti dalla comune, piano piano e placido.)

        TOTI. Cara signorina Rosaria!

        ROSARIA. Ma come, professore? Viene a cercarlo anche qua, e col bambino?

        TOTI. È una bellissima giornata. Da tre giorni il povero piccino non usciva di casa. L’ho portato dalla mamma e le ho detto: – «Vestimelo; gli farò fare due passini». Sono come gli uccelletti, i piccini. Ora con tutte le pennucce arruffate, e un minuto dopo, spunta un occhio di sole, e tutti vispi e gaj.

        ROSARIA. Ma non aveva altro posto ove portarselo? proprio qua, scusi?

        TOTI. E perché non qua? Giacomino non si fa vedere da parecchi giorni. So che non è andato neppure alla Banca. Per via non l’ho più incontrato. Ho pensato che forse non si sentiva bene e sono venuto a vedere come stava.

        ROSARIA. Sta bene, benissimo, professore; tanto che non è in casa, come Filomena le ha detto.

        TOTI. Scusi, signorina: vedo che lei mi tratta in un modo… Ho forse fatto offesa, senza saperlo, a lei o a Giacomino, venendo qua?

        ROSARIA. Ah, lo domanda? Da sé non lo capisce, è vero?

        TOTI. Capisco, signorina Rosaria. Ho i capelli bianchi. E prima di tutto capisco che certe furie… certe furie, meglio lasciarle svaporare!

        ROSARIA. Io non ho furie! Le ripeto che Giacomino non c’è. Se vuol vederlo e parlargli, mi faccia il piacere di non incomodarsi un’altra volta a venire a cercarlo qua; verrà lui, Giacomino, a trovar lei, ma non a casa – ah, questo per patto: né lei più a casa mia, né più lui a casa sua. Verrà a trovarlo a scuola, o dove lei gl’indicherà.

        TOTI. Vede, signorina? E poi dice che non ha furie… Qua dev’esser nato qualche malinteso. Sarà bene chiarirlo, dia ascolto a me: francamente, senza sotterfugi e senza riscaldarsi.

        ROSARIA. Sì, sì, d’accordo, professore, spiegarci una buona volta: quanto prima, tanto meglio.

        TOTI. Ah, ora sì che ci siamo. E metteremo tutto bene in chiaro, non dubiti. Mi lasci sedere e vada a chiamare Giacomino.

        ROSARIA. E dalli! Non c’è, non c’è, non c’è; quante volte le si deve ripetere?

        TOTI. (con scarto improvviso). Scusi, i preti, a casa sua, signorina, usano forse parlare con le seggiole?

        ROSARIA. (stordita). I preti? Come c’entrano i preti e le seggiole?

        TOTI. (prendendo da una seggiola accanto al divano il tricorno di don Landolina e mostrandoglielo). Ecco qua: un tricorno e la seggiola. Conosco la buona educazione della famiglia, e…

        ROSARIA. (confusa, irritata, strappandogli di mano il tricorno). Ma lasci stare! È di Padre Landolina.

        TOTI. Non gli faccio male! Dico che non posso supporre che stia di là senza compagnia: Giacomino è certo con lui.

        ROSARIA. Nient’affatto! Padre Landolina era qua con me. Ora è di là con Filomena. Non stia a immischiarsi negli affari di casa mia.

        TOTI. Immischiarmi, io? Non ho avuto mai questo vizio, signorina. Gli altri, sì, negli affari miei, e come! (Pausa.) Dunque, Giacomino non c’è?

        ROSARIA. Non c’è.

        TOTI. E allora me ne debbo andare? Perché vuol farmi ritornare?

        ROSARIA. Le ho detto che non c’è bisogno che lei ritorni. Verrà Giacomino, a scuola.

        TOTI. Vuol farlo incomodare a venire fino a scuola, mentre io sono qua e lui di là, e potremmo senz’altro metterci a parlare.

        ROSARIA. (sbuffando, non potendone più). Sì, sì, ha ragione, professore! Vado a chiamarglielo, per farla finita una volta per sempre, poiché abbiamo da fare con un uomo così petulante!

        TOTI. Calma, calma, signorina!

        ROSARIA. Che calma! Lei è un demonio tentatore!

        TOTI. Il bambino sta a guardarla con tanto d’occhi!

        ROSARIA. Me ne vado perché non so più che cosa mi verrebbe di fare! Aspetti qua! Vado a chiamarlo! (Si ritira di furia per l’uscio a sinistra.)

        TOTI. (prendendosi sulle gambe Ninì). Niente, bellino mio, non aver paura. La zia scherza. Ora gliela faremo sbollire tutta questa furia. Sai chi verrà ora? «Giamì». Gli vuoi bene tu a «Giamì», è vero? Eh, ti porta anche lui le chicche, i giocattolini. Ma tu devi voler più bene a me, piccino mio; assai più a me che a lui, perché io per te tra poco non ci sarò più. Queste cose tu ancora non le puoi capire, figlietto mio bello, e forse non le capirai mai, perché, quando potrai capirle, non ti ricorderai più di me che t’ho tenuto in braccio così, che t’ho stretto a me così… così… e che ho pianto per te, figliuolo… (Con un dito si porta via le lagrime dagli occhi.)Che dici? «Giamì»? Sì, ora verrà. Ah, dici, d’andarcene? Ce n’andremo presto, sì. Prima però bisogna che venga «Giamì». E tu devi star bonino. Guarda, ti do questa borsetta qua. (Cava dal taschino del panciotto una borsetta di seta rossa a maglia, con anellini d’acciajo, piena di monetine.) Eccola – senti come suona? giocaci… Ma ecco «Giamì»! Va’, va’ da «Giamì»… (Si alza, posando il bambino in terra e spingendolo verso Giacomino, che entra dall’uscio a sinistra, torbido, rabbuffato. A Giacomino): Dio, che faccia! Oh, Giacomino?

        GIACOMINO. Che ha da dirmi, professore?

        TOTI. Come! Non vedi il bambino?

        GIACOMINO. Io mi sento male, professore. Ero buttato sul letto! Non posso né guardare né parlare.

        TOTI. Già, ma il bambino?

        GIACOMINO. (dolente, mortificato, chinandosi per compiacenza a carezzar la testina del bimbo). Ecco, sì. Mi dica, la prego, che cosa vuole da me.

        TOTI. Vieni, qua, Ninì… bellino mio, qua; siedi qua. No, guarda: così in ginocchio: vedrai meglio. (Lo pone in ginocchio su una sedia davanti a un tavolinetto su cui sta un vecchio album di fotografie; poi si volge a Giacomino e indicandogli l’album gli domanda): Posso prenderlo?

        GIACOMINO. Prenda quello che vuole.

        TOTI. (a Ninì). Ecco, gioca con questo – lo guardi – lo apri così – vedi com’è bello? – vedi, vedi qua – uh quanti pupi! – vedi? – poi, volti così, ma piano eh? senza strappare. Uh, guarda, guarda qua: lo riconosci chi è questo? chi è? «Giamì», lo vedi? «Giamì», quand’era piccino come te, coi riccioli come questi tuoi – lo vedi? Bene, ora guarda da te. (Voltandosi a Giacomino): Me l’ero immaginato, che ti dovessi sentir male. Il capo, eh? Si vede.

        GIACOMINO. (impaziente). Professore…

        TOTI. Siedi. Così, in piedi non possiamo discorrere. (Siede sul divano e invita Giacomino a sedergli accanto. Poi si volta di nuovo verso Ninì): Senza strappare, eh Ninì. Piano piano. (A Giacomino): Ti volevo domandare se il direttore della Banca t’ha detto qualche cosa.

        GIACOMINO. No. Niente. Non l’ho visto nemmeno.

        TOTI. Non ci vai da tre giorni.

        GIACOMINO. Non sono andato, perché…

        TOTI. (interrompendolo). Non voglio saperlo. Te lo domandavo perché jeri lo incontrai per istrada e mi chiese di te. Discorrendo, si parlò del tuo stipendio, e io gli feci notare che non è quello che dovrebbe essere. Siamo rimasti d’accordo che ti sarà cresciuto.

        GIACOMINO. (sulle spine, strizzandosi le mani). Professore, io la ringrazio; ma –

        TOTI. – di che mi ringrazii? –

        GIACOMINO. (seguitando). – ma mi faccia il piacere, la carità di… di non incomodarsi più, di… non curarsi più di me, ecco!

        TOTI. Ah sì? Bravo, bravo. Non abbiamo più bisogno di nessuno, ora, eh?

        GIACOMINO. Non per questo, professore. Se lei non vuol capire!

        TOTI. Che vuoi che capisca? Mi puoi impedire, scusa, se voglio farti un po’ di bene, che te lo faccia?

        GIACOMINO. Ma se io non lo voglio?

        TOTI. Tu non lo vuoi, e io te lo voglio fare. Per mio piacere. Non sono padrone? Oh guarda un po’. Mi dici che non debbo più curarmi di te. E di chi vuoi che mi curi io, allora? (A un metodi Giacomino): Aspetta. Senza furie. Poi parlerai tu. Lascia parlare a me, adesso. Devi sapere, figliuolo mio, che ai vecchi – ai vecchi, s’intende, che non siano egoisti e che abbiano stentato nella vita, com’ho stentato io, per arrivare a farsi, bene o male, uno stato – piace vedere i giovani che se lo meritano farsi avanti per loro mezzo, e godono se essi sono contenti, godono se possono risparmiar loro tutti gli stenti provati. Tu lo sai ch’io ti considero come un figliuolo. (Si volta a guardarlo bene e s’interrompe): Che fai? Piangi? (Giacomino ha nascosto infatti il volto tra le mani e sussulta come per un impeto di singhiozzi che vorrebbe frenare. Fa per posargli amorosamente una mano sulla spalla, domandando): Come? perché? (Ma Giacomino balza in piedi):

        GIACOMINO. (convulso, come per ribrezzo, e mostrando il viso alterato, sconvolto, per una fiera risoluzione improvvisa). Non mi tocchi! Non mi s’accosti, professore! Lei mi sta facendo soffrire una pena d’inferno –

        TOTI. – io? –

        GIACOMINO. – lei, lei – non voglio codesto suo affetto! – per carità, la scongiuro, se ne vada! se ne vada! e si scordi ch’io esisto!

        TOTI (sbalordito). Ma perché? Che hai?

        GIACOMINO. Vuol sapere che ho? Glielo dico subito. Mi sono fidanzato, professore. Ha capito? Mi sono fidanzato.

        TOTI. (vacilla, come per una mazzata sul capo; si porta le mani alla testa; casca a sedere quasi stroncato; balbetta): Fi… fidan… fidanzato?

        GIACOMINO. Sì! E dunque, basta! basta per sempre, professore! Capirà che ora non posso più vederla qua, comportare la sua presenza in casa mia.

        TOTI. (quasi senza voce, istupidito). Mi… mi cacci via?

        GIACOMINO. (dolente, con rispetto). No, no… ma se ne vada… è bene che lei… che lei se ne vada, professore.

        TOTI. (si leva a stento, per andarsene; s’appressa pian piano a Ninì; lo guarda; gli carezza i capellucci: poi voltandosi a Giacomino). Quando è stato? Senza… senza dirmene nulla…

        GIACOMINO. Già da un mese.

        TOTI.. Da un mese? E seguitavi a venire a casa mia?

        GIACOMINO. Lei sa come ci venivo.

        TOTI. (gli fa cenno con la mano di non aggiunger altro. Poi). Con chi? (E poiché Giacomino tarda a rispondere): Dimmelo!

        GIACOMINO. Con una povera orfana come me, amica di mia sorella.

        TOTI. (seguita a guardarlo come inebetito, con la bocca aperta, e non trova più neanche la voce per parlare). E… e… e si lascia tutto, così?… e… e… e non si pensa più a… a niente? non… non si tien più conto di niente?

        GIACOMINO. Ma scusi, professore, mi voleva schiavo?

        TOTI. Schiavo? (Ha uno schianto nella voce, e insorge a poco a poco.) Io che t’ho fatto padrone della mia casa? Ah, codesta sì, che è vera ingratitudine! Il bene che t’ho fatto, il bene che t’ho fatto, te l’ho forse fatto per me? E che n’ho avuto io, del bene che t’ho fatto? Le ingiurie, la baja di tutta la gente stupida che non vuol capire il sentimento mio. Ah, dunque, non vuoi più capirlo neanche tu il sentimento di questo povero vecchio che sta per andarsene e che era tranquillo di lasciar tutto a posto, una madre, il bambino, te, uniti, contenti, in buone condizioni? Non so – non so ancora – non voglio sapere chi sia la tua fidanzata. Sarà – se l’hai scelta tu – sarà una giovane per bene. Ma pensa che non è possibile che tu abbia trovato di meglio, Giacomino, della madre di questo bambino. Non ti parlo dell’agiatezza soltanto, bada! Ma tu hai ora la tua famiglia, in cui non ci sono di più che io, ancora per poco, io che non conto per nulla. Che fastidio vi do, io? Sono come il padre di tutti; e posso anche, se tu vuoi, per la vostra pace, posso anche andarmene. Ma dimmi, com’è stato? che cos’è accaduto? come ti s’è voltato così tutt’a un tratto il cervello? (Lo prende per le braccia.) Figliuolo mio… dimmelo dimmelo.

        GIACOMINO. Che vuole che le dica? Come non s’accorge, professore, che tutta codesta sua bontà –

        TOTI. – questa mia bontà – seguita! che vuoi dire?

        GIACOMINO. Mi lasci stare! Non mi faccia parlare!

        TOTI. No, parla, anzi! Devi parlare!

        GIACOMINO. Vuole che glielo dica? Non comprende dunque da sé che certe cose si possono fare soltanto di nascosto, e non sono possibili alla vista di tutti, con lei che sa, con la gente che ride?

        TOTI. Ah, è per la gente? E parli tu della gente che ride? Ma ride di me, la gente, e ride perché non capisce, e io la lascio ridere perché non me n’importa niente! All’ultimo vedrai chi riderà meglio! È l’invidia, credi a me, l’invidia, figliuolo, di vederti a posto, sicuro del tuo avvenire.

        GIACOMINO. Se è così – guardi, professore – se è così, lasci star me – ci sono tant’altri giovani che hanno bisogno d’ajuto.

        TOTI. (ferito, con un feroce scatto di indignazione: gli va con le mani sulla faccia, poi gli afferra il bavero della giacca e lo scrolla). Oh! che cosa… che cosa hai detto? È giovane Lillina; ma è onesta, perdio! E tu lo sai! Nessuno meglio di te lo può sapere! È qua, è qua, il suo male!(Si picchia forte sul petto.) Dove credi che sia? Pezzo d’ingrato! Ah, ora la insulti per giunta! E non ti vergogni? non ne senti rimorso in faccia a me? tu? E per chi l’hai presa? Ah credi che possa passare dall’uno all’altro, così come niente? Madre di questo bambino, che tu sai bene di chi è! Ma che dici? Ma come puoi parlare così?

        GIACOMINO. E lei, professore, mi scusi, come può lei piuttosto parlare così?

        TOTI. (d’improvviso, come vaneggiando, grattandosi lievemente le tempie). Hai ragione… hai ragione… hai ragione. (Rompe in un pianto disperato, cadendo a sedere sul divano e abbracciando forte forte il bambino, il quale, sentendolo piangere, sarà accorso a lui.) Ah, povero Ninì mio! povero piccino mio! che sciagura! che rovina! E che ne sarà della tua mammina ora? che ne sarà di te, Ninì, bello mio, con una mammina come la tua, senza esperienza, senza più chi l’assista e chi la guidi? Che baratro! che baratro! (Sollevando il capo, rivolto a Giacomino): Piango, perché mio è il rimorso; piango, perché io t’ho protetto: io t’ho accolto in casa; io le ho parlato di te in modo da toglierle ogni scrupolo d’amarti! E ora che t’amava sicura, madre di questo bambino, qua, ora tu… (Balza in piedi d’improvviso, risoluto, convulso.) Pensaci, Giacomino! Io sono buono, ma appunto perché sono così buono, se vedo la rovina d’una povera donna, la rovina tua, la rovina di questa creaturina innocente, io divento capace di tutto! Pensaci, Giacomino! Io ti faccio cacciar via dalla Banca! Ti butto di nuovo in mezzo a una strada!

        GIACOMINO. Ma sì, faccia quello che vuole, professore. Io già me l’aspettavo.

        TOTI. Ah, te l’aspettavi? Ma son capace di fare anche quello che non t’aspetti, sai? Vado ora stesso, con questo bambino per mano, a presentarmi alla tua fidanzata.

        GIACOMINO. Ah no, perdio, questo lei non lo farà, professore!

        TOTI. Non lo farò? E chi potrà impedirmelo?

        GIACOMINO. Gliel’impedirò io! perché lei non ha il diritto d’andare a turbare una povera ragazza!

        TOTI. Non ho il diritto? E chi t’ha detto che non l’ho? Io difendo la madre a questa creaturina! difendo questa creaturina! e difendo anche te, ingrato, che non ragioni più! Andrò a parlarle, a parlare ai parenti, mostrerò questo piccino e domanderò se c’è coscienza a rovinar così una casa, una famiglia, a far morire di crepacuore un povero vecchio, una povera madre, e lasciar senza ajuto e senza guida un povero innocente come questo, Giacomino, come questo… Ma non lo vedi? non hai più cuore, figliuolo mio? non lo vedi qua il tuo piccino? È tuo! È tuo! (Lo prende e glielo appende al collo. Giacomino non resiste più, lo abbraccia, lo bacia sulla testa; e allora il professor Toti, al colmo della commozione, ride, piange, come impazzito, grida): Santo figliuolo… santo figliuolo mio… ah che bene mi fai… lo volevo dire… lo volevo dire… Su su, andiamo, ora! Andiamo via subito! Non perdiamo tempo! Così come ti trovi! Via, via, tutti e tre!

        (A questo punto si spalanca l’uscio laterale a destra e irrompono Rosaria, don Landolina e Filomena, gridando insieme):

        ROSARIA. No, no, Giacomino, che fai? che fai? Così ti lasci trascinare?

        LANDOLINA. Di violenza? È inaudito! Peccato mortale, Giacomino!

        FILOMENA. Misericordia! Misericordia!

        GIACOMINO. (a Rosaria). Non posso più sciogliermi, Rosaria! Lasciami andare!

        TOTI. (a Landolina, parandoglisi davanti). Vade retro! vade retro! – Via, via, Giacomino, non ti voltare! (E mentre Giacomino e Ninì passano la soglia, seguita imperterrito a gridare): Vade retro! Distruttore delle famiglie! Vade retro!

        LANDOLINA. (accorrendo, gridando). Giacomino, io credo…

        TOTI. (subito, dandogli sulla voce). Che crede? Lei neanche a Cristo crede!

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