Il volto sconosciuto dell’irascibile Pirandello (Con Audio lettura)

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Di Salvatore Ferlita

Così il Nobel litigava con attori, editori e professori. Carteggi e biografie disegnano il ritratto di un divo permaloso. In una lettera del 25 marzo 1887 inviata alla sorella Lina, Pirandello ebbe a scrivere: «Nulla ora mi rimane, tranne un rimpianto vago che spesso sul labbro mi si muta in sogghigno, è un’immensa voluttà di dir male di tutto e di tutti».

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irascibile Pirandello
Enrico Sacchetti, Ritratto di Luigi Pirandello. Gessetto nero. 1926

Il volto sconosciuto dell’irascibile Pirandello

da Archivio Repubblica Palermo 05 ottobre 2007

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

Giusto un secolo fa Luigi Pirandello, in qualità di presidente della commissione di maturità al Liceo classico, metteva piede a Lanciano. A far parte della stessa commissione c’era il professore Francesco Milano, il quale convinse un giorno il futuro premio Nobel a visitare lo stabilimento tipografico dell’editore Rocco Carabba, attivo sin dal 1876. Visita di certo proficua, se è vero che da quell’incontro sarebbe nata tra i due, almeno inizialmente, una proficua collaborazione. Appena un anno dopo, infatti, e cioè nel 1908, vide la luce per i tipi di Carabba il celebre saggio intitolato “L’umorismo”, edito in appena cinquecento copie. Da cosa nasce cosa: l’editore pensò bene, infatti, di commissionare a Pirandello una raccolta di novelle per “giovinetti”, ognuna delle quali retribuita con cento lire. Un compenso di certo alto per le cifre di quell’epoca, e che la dice lunga sulla precisa strategia editoriale di Carabba, il quale infatti, richiese materiale assolutamente inedito, di cui poi si sarebbe riservato diritti e utili. I primi quattro racconti arrivarono puntualmente, e lo scrittore incassò le quattrocento lire pattuite. Si trattò, però, di un anticipo avvelenato, dal momento che i testi vennero subito respinti al mittente. Difatti l’editore, una volta lette le novelle, non le stimò adeguate a un pubblico giovane.

Oltretutto, Pirandello aveva promesso dodici novelle inedite: ne inviò invece alcune già apparse su giornali o riviste, tra cui “La giara”. Lo scrittore agrigentino, ferito nell’orgoglio, non volle restituire la somma, pensando di poter comunque risolvere la delicata questione. Fece a Carabba una controproposta, inviandogli altro materiale da dare alle stampe al fine di riportare una volta per tutte i conti in pari. L’editore di Lanciano, con in testa l’idea pertinace di coltivare il filone della letteratura per ragazzi in linea con le tendenze del mercato, non fece un passo indietro. L’autore di “Uno, nessuno, centomila”, per niente intimidito dalla fermezza di Carabba, cercò di giustificarsi, facendo appello alla sensibilità del suo interlocutore. Mancandogli infatti la semplicità serena e festosa «di cui dovrebbero essere fatte le letture per giovinetti», come scrisse egli stesso all’editore, sarebbe stato inutile cercare di soddisfare al meglio quella richiesta specifica. Tornò dunque a proporre altro: Carabba rifiutò ancora, deciso com’era a riavere solo i suoi soldi. Lo scrittore agrigentino questa volta andò su tutte le furie, tanto da inviare all’editore una vera e propria letteraccia, in cui a un certo punto scrisse: «Lei capisce di letteratura quanto può capirne un cerinaio”. I nervi di Carabba, messi lungamente a dura prova, giustamente saltarono del tutto: Pirandello fu trascinato in Tribunale con l’accusa di ingiurie, e nel 1911 venne condannato dal pretore a una multa di quarantuno lire. Costò cara allo scrittore la sua intemperanza, che probabilmente ebbe a ereditare dal suo odiato padre, don Stefano.

Il fattaccio di Lanciano del resto non fu un caso isolato: a leggere infatti la vita di Pirandello attraverso la lente delle asperità caratteriali, del suo debordante umore, di una coazione ad attaccar briga, a cercare ad ogni costo la polemica, viene fuori un ritratto al vetriolo, a dir poco corrusco del grande drammaturgo. Il quale, come ha raccontato prima Gaspare Giudice e poi Andrea Camilleri, ancora adolescente, trovandosi di fronte alla scena imbarazzante del padre che se l’intende, nel monastero di San Vincenzo, con l’amante, non ebbe un attimo di esitazione: si tirò indietro col busto e sputò con forza in faccia alla donna. Nessuna reazione da parte del genitore basito: strano per uno come Stefano Pirandello, lesto di mano in diverse occasioni. Lesto di lingua fu sempre invece Luigi, come si apprende da certe pagine di Giudice e di Leonardo Sciascia (“La corda pazza”). Questa volta siamo a Roma, nel periodo in cui Pirandello frequentava la facoltà di Lettere, dove era titolare della cattedra di Letteratura latina Onorato Occioni, magnifico rettore dell’Ateneo. Campione d’oratoria, capace di incantare un allievo come d’Annunzio, l’Occioni il latino lo masticava male. Il fattaccio accadde un giorno in cui il docente traduceva il “Miles gloriosus” di Plauto. Traduceva male, se è vero che un giovane prete, che di latino s’intendeva davvero, se ne accorse dando di gomito al suo compagno di banco: Piandello, appunto. Al sacerdote scappò una risatina che l’Occioni non tollerò affatto. «Si buttò su di lui e lo coprì di vituperi – scrive Giudice – attento però a non scoprire la vera ragione della sfuriata». Pirandello non resse più e alzatosi vuotò il sacco senza alcuna esitazione.

Spiegò la ragione dell’incidente, crocifiggendo il docente al suo errore. Fatto questo, si allontanò silenziosamente dall’aula. L’Occioni, manco a dirlo, se la legò al dito e grazie alla sua autorità di rettore, riunì con urgenza i professori della facoltà e Pirandello si vide deferito al consiglio di disciplina e costretto ad abbandonare l’università: da qui il suo trasferimento a Bonn. E sempre in ambiente accademico, lo scrittore agrigentino ebbe modo di dar prova della sua intemperanza. A pagarne le spese fu Giovanni Gentile, nel 1921 regio commissario all’Istituto superiore di Magistero femminile di Roma. Fu lui infatti a lamentare, in un’acida ma veritiera relazione al Ministero della Pubblica istruzione, la scarsa diligenza, l’assenteismo e il comportamento irregolare del professor Pirandello, bizzoso nell’esigere per le sue lezioni fasce orarie improponibili. Cosa a quanto pare confermata da alcuni suoi studenti. Lo scrittore non esitò un attimo: inviò in risposta una dichiarazione in cui l’atteggiamento del filosofo trapanese nei suoi confronti venne definito come «vera e propria, ingiusta persecuzione». La lettera in questione, scritta da Pirandello, sdegnata e in qualche punto ironica, era davvero piena di sfida.

Non andarono meglio le cose, spostandoci dalle aule universitarie ai palcoscenici, con l’attore Angelo Musco, allorché questi decise, quattro giorni dopo la prima (10 luglio 1916), di togliere dal cartellone la commedia “Pensaci, Giacuminu!”, che pure aveva fatto buoni incassi. La cosa non fece di certo piacere a Pirandello, ma all’inizio non protestò. Però, dal momento che Musco non sembrava avesse voglia di riprenderla, il 23 di luglio lo scrittore agrigentino diede mandato a Martoglio di ritirare i copioni della commedia in questione e anche di “Lumie di Sicilia”, rimproverandogli tra le altre cose di averlo costretto a scrivere per Musco contro la sua volontà. Martoglio intervenne e Musco si trovò costretto ad annunziare a Pirandello una replica per il giorno 25. Quest’ultimo rispose con una lettera durissima (è nelle missive che lo scrittore agrigentino di solito diede il meglio di sé) nella quale, rifiutando «elemosine di repliche», si dichiarò profondamente offeso dal comportamento ingiustificato e bizzarro dell’attore e ribadì il ritiro dei due copioni, concludendo: «Così, ora e sempre, mi licenzio da voi». Stesso copione in occasione della prova generale della commedia “Liolà”, che ebbe luogo il 4 novembre del 1916.

A un certo punto scoppiò un violento diverbio tra l’autore e Musco. Pirandello, su tutte le furie, strappò il copione dalle mani del suggeritore e se lo portò via proibendo la recita. Musco gli corse dietro, minacciando di recitare lo stesso senza copione, a soggetto. Gli scatti d’aggressività Pirandello li ebbe anche contro se stesso: una sorta di autopunizione forse, una pulsione masochistica. Per avere conferma di ciò, basta leggere alcuni passaggi di certe sue poesie: «E ti darò alla terra, o carne mia, / perché rinasca in fungo velenoso». Si tratta di un impeto potremmo dire luciferino (si intitolava guarda caso “Pirandello diabolico” un articolo di Brancati sul premio Nobel) che di tanto in tanto rinasce virulento. Una volta infatti Pirandello paragonò il proprio cervello a «enorme ragno in grembo a immenso ragnatelo», che «fa la posta spiando», «ne l’ansia che di smanie represse l’affatica», «poi salta, e de lo stolto / midollo dei terreni insetti si notrica». Ma c’è di più: il suo cervello a sua volta sarà nutrimento di insetti: «Ci sono i ragni! E ci son le formiche / anche per me… Ce n’ho già tante addosso! / Su, entratemi per ‘l naso, fino all’osso, / care, e il cervel ridotto in tante miche / portatevi, formiche, al vostro fosso». Del resto, in una lettera del 25 marzo 1887 inviata alla sorella Lina, Pirandello ebbe a scrivere: «Nulla ora mi rimane, tranne un rimpianto vago che spesso sul labbro mi si muta in sogghigno, è un’immensa voluttà di dir male di tutto e di tutti».

Salvatore Ferlita
05 ottobre 2007

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