Pirandello filosofo e la ricerca dell’unità perduta

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Di Giovanni Fighera

Pirandello era ritenuto grande filosofo, mente acuta, penetrante e analitica. E, nonostante le tante critiche malevole mosse contro lo scrittore, la giuria svedese del Nobel riconosceva in lui un attaccamento all’ideale, una valorizzazione dell’uomo, un anelito alla vita. La lucida coscienza critica e la domanda di comprendere la verità non annullavano mai in lui la speranza di trovare risposte.

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Pirandello filosofo e la ricerca dell’unità perduta

da La Nuova Bussola Quotidiana

L’uomo assiste spesso allo spettacolo della sua vita o vi prende parte, senza esserne davvero protagonista, senza essere davvero consapevole delle decisioni, che, per lo più, subisce come il protagonista del dramma Enrico IV che si ritrova in una forma, senza aver potuto amare la donna che avrebbe voluto sposare.

«Forte come la morte è l’amore» recita il Cantico dei cantici, ma ad Enrico IV l’amore è negato e per questo lui ha paura della vita. Nessuno, in vent’anni, ha avuto il coraggio di raccontargli la verità, tutti sono stati acquiescenti e hanno favorito in lui la cristallizzazione della forma, tutti hanno per tanti anni avuto paura che lui potesse scoprire la verità. Per questo, Enrico IV è il personaggio più tragico di Pirandello, colui che ha sempre cercato un luogo e una forma nobile e ideale, che ambisce ad appartenere ad una storia grande e imperiale, si convince per tanti anni di averla trovata fino a prendere coscienza che tutto è in realtà un’illusione, una finzione.

La vita fugge, il tempo scorre e l’uomo, quando ne prende coscienza, scopre l’invecchiamento e la morte. Così accade anche al protagonista della novella Una giornata pubblicata nel 1935 che dà anche il nome all’ultima (la quindicesima) raccolta (postuma, 1937).  Ci si può trovare alla fine scoprendo di non aver mai vissuto.

In tutta la sua produzione Pirandello cercò di mettere in luce il dramma dell’uomo contemporaneo, frammentato, senza certezze, alla ricerca di un ideale che ricomponga la sua unità perduta. Negli anni in cui Freud rivoluzionò la psicologia, Einstein introdusse la relatività, Picasso inserì la dimensione spazio-temporale nel quadro dando avvio al cubismo analitico, il grande genio di Pirandello descrisse la «perdita del centro» (Hans Sedlmayr) da parte dell’uomo, l’avvento del relativismo culturale e l’affermazione dell’homo technologicus. Un autore così, che comprende la cultura contemporanea tanto da anticiparne e coglierne gli sviluppi, non venne certamente compreso dai lettori e dagli intellettuali coevi.

Per questa ragione la sua produzione fu, spesso, ridotta e classificata all’interno di rigide e semplicistiche gabbie (da Pirandello stesso definite «pirandellismo») e altre volte venne apertamente osteggiata.

Nel 1934 arrivò finalmente il meritato riconoscimento del Premio Nobel per la letteratura, dopo che era stato attribuito alla scrittrice sarda Grazia Deledda nel 1926, l’unica donna italiana a ricevere tale onorificenza. Prima di loro, in Italia, solo Giosué Carducci l’aveva ottenuta. Nella teoria dei letterati italiani premiati sarebbero poi comparsi Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975), Dario Fo (1997).

Nelle ragioni del Nobel Pirandello venne riconosciuto come «uno scrittore notevole da molti punti di vista»:
La cosa più straordinaria […] è che sia riuscito a conquistare per qualche tempo il grande pubblico e a orientare il suo interesse verso un teatro passabilmente pieno di speculazioni filosofiche.

Fu lo scrittore svedese Per August Leonard Hallström, segretario permanente dell’Accademia e presidente del Comitato Nobel, a leggere le motivazioni. Il pubblico svedese era profondamente lontano dalla filosofia, la detestava con tutto il cuore, rifiutava le «idee pure», tutto ciò che potesse suscitare inquietudine, insinuare dubbi e far crollare le certezze. La giuria riconosceva tra l’altro che la tendenza a non farsi conquistare dalle riflessioni e dalle meditazioni fosse propria della nostra epoca e si stesse diffondendo in tutti i popoli.

La prova di forza maggiore del genio di Pirandello consisteva nell’essere riuscito a
conquistare e a tenere affascinate orecchie renitenti e spesso assai lunghe, ecco una prova indiscutibile di genio. Dal punto di vista morale Pirandello non è né paradossale né distruttivo. Il bene domina le sue idee sul mondo dell’uomo. Il suo pessimismo amaro non ha irrigidito il suo idealismo, la sua penetrante ragione analitica non ha tagliato le radici della vita. La felicità non occupa grande spazio nel mondo della sua immaginazione, ma quello che dà dignità alla vita trova ancora in essa abbastanza spazio per respirare.

Pirandello era ritenuto grande filosofo, mente acuta, penetrante e analitica. E, nonostante le tante critiche malevole mosse contro lo scrittore, la giuria svedese riconosceva in lui un attaccamento all’ideale, una valorizzazione dell’uomo, un anelito alla vita. La lucida coscienza critica e la domanda di comprendere la verità non annullavano mai in lui la speranza di trovare risposte.

Con grande modestia e con uno spirito per gran parte ancora fanciullesco Pirandello rivelava il suo maestro (la vita) e la sua grande fiducia nelle lezioni che aveva appreso:
per riuscire nelle mie fatiche letterarie ho dovuto frequentare la scuola della vita. Questa scuola, inutile per certe menti brillanti, è l’unica cosa che può aiutare una mente come la mia: attenta, concentrata, paziente, inizialmente del tutto simile a quella di un bambino. Uno scolaro docile, se non con gli insegnanti, di sicuro con la vita, uno scolaro che non verrebbe mai meno alla sua totale fede e fiducia in ciò che ha imparato. Questa fede nasce dalla semplicità di fondo della mia natura. Sentivo il bisogno di credere all’apparenza della vita senza alcuna riserva o dubbio.

Con una sincerità commovente il premiato non si dimenticava delle dure prove a cui la vita lo aveva sottoposto:
l’attenzione costante e la sincerità assoluta con cui ho imparato e meditato questa lezione hanno palesato un’umiltà, un amore e un rispetto della vita indispensabili per assorbire delusioni amare, esperienze dolorose, ferite terribili, e tutti gli errori dell’innocenza che donano profondità e valore alle nostre esistenze.

Il riferimento di Pirandello era generico nelle sue parole. L’allusione era probabilmente a quel matrimonio con una donna che in quindici anni aveva visto poche volte, perché internata in una casa di cura, al fallito tentativo di suicidio della figlia, a quell’amore impossibile con la giovane attrice Marta Abba, a quel senso di solitudine che l’aveva portato a recarsi a Stoccolma da solo per la premiazione.

Nel suo discorso per il Nobel Pirandello si congedava, infine, sottolineando che la scrittura era uno sforzo, una ricerca da perfezionare nel modo più sincero e vero possibile:
mi piacerebbe credere che questo premio sia stato conferito non tanto alla perizia dello scrittore, che è sempre irrilevante, quanto alla sincerità umana del mio lavoro.

In effetti, tutta l’opera di Pirandello è attraversata dalla domanda su che cosa sia l’uomo, dove possa trovare la sua autenticità, in qual modo possa vivere davvero e non solo esistere. In poche parole la questione è come la persona possa trovare il suo destino, come il «nomen» possa davvero concretare l’«omen» (che significa «profezia, augurio, destino»). Che cosa può liberarci da quella prima lettera «n» del «nomen» perché si possa trovare il proprio compimento?

Alcuni personaggi intraprendono la strada della ricerca di una libertà al di fuori di condizionamenti familiari, lavorativi, sociali.

Ad esempio, sbarazzatosi del suo nome, Mattia Pascal si tramuta in Adriano Meis, convinto di poter essere artefice del suo destino. Si rende ben presto conto che la sua libertà, che all’inizio gli era parsa senza limiti, può essere chiamata solitudine e noia e lo condanna ad «una terribile pena: quella della compagnia» di se stesso. Arriva a questa conclusione: «Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? Mi ero stimato felice con la cappa di piombo della menzogna addosso».

Vitangelo Moscarda, invece, dopo aver rinunciato a tutto, al lavoro, alla famiglia, agli averi, approda ad una sorta di annichilimento dell’io, ad una riduzione a puro spirito che si identifica di volta in volta con un aspetto della natura, rinunciando, però, a qualsiasi forma. Serafino Gubbio, divenuto homo technologicus che comunica attraverso le riprese della telecamera, si riduce alla fine all’afasia e all’incomunicabilità totale.

Sono solo alcuni esempi di personaggi che falliscono nell’impresa di divenire davvero protagonisti della propria esistenza. Che cosa può allora davvero riaccendere l’uomo, far sì che l’io viva pienamente e non semplicemente esista come i molluschi, le farfalle, i ragni?

Ecco che nella vastissima produzione pirandelliana compaiono tracce di risposta.

L’uomo assopito dal trambusto quotidiano, addormentato dalle incombenze e dal divertissement in cui vive, ha bisogno che accada qualcosa che risvegli il suo io, la sua sete di felicità. Lo capiamo dalle stupende novelle Il treno ha fischiato o Ciàula scopre la Luna. L’uomo è come un bambino, che scopre la realtà solo nel momento in cui la guarda con stupore e meraviglia.

E proprio come un bambino ciascuno di noi ha bisogno di un padre, di un autore che gli indichi una strada percorribile. È l’autore che cercano I sei personaggi, è quell’autore che Giovanni Testori, rileggendo il dramma pirandelliano, identifica nel maestro o addirittura in Dio (si veda l’opera I promessi sposi alla prova).

Ancora, poi, nella trilogia del mito, scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte del drammaturgo), Pirandello tenta di rintracciare la verità nell’ambito socio-politico, in quello artistico e in quello religioso: La nuova coloniaLazzaro e I giganti della montagna.

Nel Lazzaro il figlio Lucio afferma che è necessario «ridare le ali» a coloro a cui «sono mancati i piedi per camminare sulla terra» (speranza), si deve «vivere in Dio le opere che compiamo» (offerta), cercare il «centuplo quaggiù prima che l’eternità» (felicità e salvezza). La carità proviene dalla consapevolezza del grido e della spaccatura che albergano nel cuore dell’uomo e della grazia (gratuità assoluta) che è Cristo per la nostra vita. Cristo/carità è la Presenza che sa ridare un’unità alla persona umana frantumata, scissa, presa da mille preoccupazioni e animata da molteplici interessi che non sanno acquietare il nostro desiderio di felicità e di amore.

Lo capì Luigi Pirandello, che nell’intervista sorprendente rilasciata a Carlo Cavicchioli nel 1936 disse: «Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto […]. Nel Lazzaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro».

Nell’intervista Pirandello sottolineò altresì anche l’autonomia e la libertà dell’arte, in ogni tempo e in ogni luogo, esigenza sentita ancor più viva negli anni in cui il drammaturgo risponde alle domande di Cavicchioli, anni di regime, in cui l’arte rischiava di essere imbavagliata o esiliata o assoggettata a fini politici, ma esigenza propria di ogni epoca, perché sempre il potere ha paura della libertà dell’artista.

Giovanni Fighera

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