Di Marcello Benfante.
Il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti viene rapito e vigliaccamente massacrato. Il fascismo è quasi sul punto di essere spazzato via dall’ostilità montante dell’ opinione pubblica. In questa temperie politica, il 17 di settembre, Pirandello decide inaspettatamente di esprimere pubblicamente con una lettera ai giornali la propria adesione al fascismo.
Pirandello il fascismo e l’affare Matteotti
È un paradosso pirandelliano la morte di Giacomo Matteotti. Questa, almeno, è la tesi che Marco Maugeri, giornalista e insegnante catanese, espone in un suo stringato e avvincente saggio pasolinianamente intitolato “Le ceneri di Matteotti” (L’ancora del Mediterraneo). Va detto subito che si tratta di uno studio che, per passione civile e per affilata sintesi, è immediatamente riconducibile allo Sciascia de “L’affaire Moro” e “La scomparsa di Majorana”, ma che tuttavia conserva una sua specifica necessità morale e intellettuale. Più che a una ratio chiara e distinta, puntata con acribia metodologica sui misteri della storia, Maugeri fa infatti ricorso a un pensiero analogico che procede per intuizioni, accostamenti, suggestioni. La rapida ricostruzione dei fatti che ottant’anni fa diedero luogo al più clamoroso dei delitti del fascismo si accompagna nell’accurata analisi di Maugeri a una serie di rimandi culturali che sondano le dimensioni profonde di un episodio criminale che ebbe ripercussioni enormi sulla sorte di un’ intera nazione e forse anche a livello internazionale.
Il 10 giugno 1924, Matteotti, deputato socialista “reo” di aver denunciato in Parlamento i brogli elettorali che avevano consentito a Mussolini una scontata vittoria, viene rapito da un gruppo di uomini della Ceka e vigliaccamente massacrato nella loro automobile. L’Italia ha un sussulto d’ indignazione e orgoglio. Il fascismo è quasi sul punto di essere spazzato via dall’ostilità montante dell’ opinione pubblica. In questa temperie politica, il 17 di settembre, Pirandello decide inaspettatamente di esprimere pubblicamente con una lettera ai giornali la propria adesione al fascismo.
«Sento che è questo il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio, e se l’Eccellenza vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregherò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario», scrive Pirandello.
Quali le ragioni di una così improvvida tempestività? Maugeri, per dovere di cronaca, menziona la possibilità che Pirandello abbia «preso la tessera del partito per dare una svolta alla carriera, per accaparrarsi quella celebrità che per troppi anni gli era stata negata». Ma il caso Pirandello era esploso già vent’anni prima con il romanzo “Il fu Mattia Pascal” e ben più clamorosa deflagrazione si era verificata nel 1921 con lo scandalo dei “Sei personaggi in cerca d’ autore”. Non è dunque per semplice opportunismo che lo scrittore agrigentino offre il suo appoggio a Mussolini (peraltro in un momento di crisi della sua popolarità, che tuttavia prelude alla piena instaurazione del regime). Né d’ altra parte la clamorosa sortita pirandelliana è riconducibile a una consapevole adesione ideologica. In giro per il mondo, il grande drammaturgo ostenta o forse recita un certo distacco dalla politica, frutto magari di prudenza oppure di autentico disinteresse.
Scrive infatti Maugeri: «Ricordò, ma solo quando glielo chiesero, il fascismo, la sua modernità; ma per il resto si limitava a dire che la sua arte era la sua arte, e che le due cose erano completamente distinte». Una simile presa di distanza non poteva ovviamente essere gradita a Mussolini, che mostrò infatti sempre una certa irritazione per il fatto che Pirandello continuava a negare un’ inequivocabile “opera fascista” come atto di fede che magnificasse i trionfi del genio littorio. In realtà, sull’effettivo fascismo di Pirandello si potrebbe molto obiettare. E Maugeri, infatti, sottolinea che i «rapporti di Pirandello con il regime non furono del resto mai lineari» e a ben guardare anche la sua opera (soprattutto il suo teatro) svolse un ruolo destabilizzante: «Se si pensa che questa assoluta novità dell’ animo umano poté convivere con una delle sue più riuscite dittature, non si può non realizzare non solo la contraddizione, ma l’ assurdità stessa della situazione in cui Pirandello si trovò a vivere per anni».
D’altra parte, Pirandello fu personalità quanto mai lacerata e mutevole. E tuttavia l’ adesione a coloro i quali con ogni evidenza erano i mandanti degli assassini di Matteotti rimane una di quelle contraddizioni che sconfinano nel nonsenso. La tragica assurdità sta nel contrasto stridente, nell’opposizione inconciliabile tra un uomo che viene ucciso per ciò che ha detto e un altro che “invece insegnava a diffidare delle parole, a svuotarle completamente di senso”.
C’è un’eloquente teatralità anche di Matteotti. Interamente vestito di bianco (candidus, a significare un’immacolata probità che dal Senato romano rimbalza all’agnello cristiano per poi divenire simbolo della ragione disarmata con Voltaire e ancora Sciascia) recita il suo ultimo discorso, pienamente consapevole delle conseguenze ferali del suo j’accuse. Si avverte un’eco shakespereana nella frase che rivolse al collega Cosattini dopo la sua requisitoria: «E adesso preparatevi a recitare la mia orazione funebre».
Granguignolesco e guittesco è invece il teatro del fascismo, la sua oscena spettacolarizzazione del potere e della forza, che trionfa nella farsa di un processo grottesco. E soprattutto plateali (e pirandelliani, ma in un senso deteriore) sono Dumini e gli altri assassini di Matteotti, con le tasche piene di documenti falsi. Uno, nessuno e centomila. Personaggi in cerca d’ autore. Che furiosamente interpretano la terribile demenza della Storia.
Marcello Benfante
26 giugno 2004
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