Quaderni di Serafino Gubbio operatore – Quaderno Settimo

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Quaderni di Serafino Gubbio - Quaderno settimo

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Quaderno Settimo

 I.  

            Ho capito, ora.

            Turbarsi? Ma no, via, perché? Tanta vita è passata; e morto è là, lontano, il passato. Ora la vita è qua, questa: un’altra. Sterrati, attorno, e piattaforme; gli edificii fuorimano, quasi in campagna, tra il verde e l’azzurro, d’una Casa di cinematografia. E lei, qua, attrice ora… Attore anche lui? oh guarda! dunque colleghi? Ma bene; piacere…

            Tutto bene, tutto liscio come l’olio. La vita. Questo fruscio della gonna di seta turchina, ora, con questa bizzarra tunica di merletto bianco, e questo cappellino alato, come il casco del dio del commercio, sui capelli color di rame… già! La vita. Un po’ di ghiaja rimossa con la punta dell’ombrellino; e un breve silenzio, con gli occhi invagati, fissi alla punta di quell’ombrellino che rimuove quel po’ di ghiaja là.

            – Come? Ah, sì, caro: una gran noja.

            Sarà, senza dubbio, avvenuto questo, jeri, durante la mia assenza. La Nestoroff, con quegli occhi invagati, stranamente aperti, sarà andata alla Kosmograph apposta, per incontrarsi con lui; gli si sarà fatta innanzi con l’aria di niente, come si va innanzi a un amico, a un conoscente che si ritrovi per caso dopo tant’anni; e il farfallino, senza sospetto della ragna, s’è messo a battervi le ali sù, tutto esultante.

            Ma come mai la signorina Luisetta non s’è accorta di nulla?

            Ecco: questa soddisfazione alla signora Nestoroff sarà mancata. Jeri, la signorina Luisetta, per festeggiare il ritorno in casa del babbo non è andata col signor Nuti allaKosmograph. E la signora Nestoroff, così, non ha potuto avere il piacere di mostrare a quella signorina sdegnosetta che il giorno avanti non aveva voluto accettare l’invito, come subito ella, appena voglia, può staccare dal fianco di qualunque signorina sdegnosetta e riprendersi tutti i signorini matti che minacciano tragedie, pst! così, con un cenno del dito, e ammansarli subito subito, ubriacarli col solo fruscio d’una gonna di seta e un po’ di ghiaja rimossa con la punta dell’ombrellino. Noja, sì, una gran noja, certo, perché a questo piacere che le è mancato, ci teneva molto la signora Nestoroff.

            La sera, ignara di tutto, la signorina Luisetta ha veduto rientrare in casa il signorino con un’altr’aria, trasfigurato, festoso. Come avrebbe pensato che quella trasfigurazione, quella festosità potessero derivargli dall’incontro con la Nestoroff, se ogni qual volta con terrore ella pensa a quest’incontro, vede rosso, nero, uno scompiglio, la follìa, la tragedia? Dunque, così cangiato, così festoso, per il ritorno di papà in casa, anche lui? Ecco: che glien’importi poi molto, a lui, del ritorno di papà in casa, la signorina Luisetta non può credere, no; ma che ne provi piacere e voglia accordarsi alla festa degli altri, via, perché no? Come si spiegherebbe allora quella festosità? E c’è da essergliene grati; c’è da esserne lieti, perché questa festosità dimostra a ogni modo che l’animo di lui s’è fatto più lieve, più aperto, tanto da potervi accogliere facilmente la gioja degli altri.

            Certo avrà pensato così la signorina Luisetta. Jeri; non oggi.

            Oggi è venuta alla Kosmograph con me, tutta scurita in viso. S’è trovato, con molta sorpresa, che il signor Nuti era già uscito di casa per tempissimo, ancora a bujo. Non voleva mostrarmi, cammin facendo, il malumore e la costernazione, dopo lo spettacolo offertomi jersera della sua letizia; e m’ha domandato dov’ero stato io jeri e che avevo fatto. – Io? Mah! Una piccola gita di piacere… – E m’ero divertito? – Oh, molto! Almeno in principio. Poi… – cose che succedono! Disponiamo tutto bene per una gita di piacere; crediamo d’aver pensato a tutto, provveduto a tutto perché riesca serena, senza incidenti che ce la guastino; ma purtroppo c’è sempre qualche cosa, tra tante, a cui non pensiamo; una cosa ci sfugge… – ecco, per esempio, se è una famigliuola con molti bambini che voglia andare a merendare in campagna con la bella giornata, il pajo di scarpette del secondo bambino, dove c’è un chiodo, una cosa da niente, un chiodino, dentro, spuntato sul calcagno, che bisognerebbe ribattere. La mammina ci ha pensato, appena levata di letto; ma poi, come si fa? tra tante cose da preparare per la scampagnata, non ci ha pensato più. E quel pajo di scarpette, con le due linguette sù, come le orecchie tese d’un coniglietto arguto, allineato in mezzo alle altre paja, lustrate tutte a dovere e pronte per essere calzate dai bimbi, resta là e par che goda in silenzio del dispetto che farà alla mammina che se n’è dimenticata e che ora, all’ultimo momento, ecco, s’affaccenda più che mai, in gran confusione, perché il babbo è giù a piè della scala e grida di far presto e anche tutti i bimbi le gridano attorno di far presto, impazienti. Quel pajo di scarpette, mentre la mammina lo piglia per calzarlo in fretta e in furia al bambino, sogghigna:

            «Eh sì, cara mammina; ma a me, vedi? non hai pensato; e vedrai che io ti guasterò tutto: a mezza strada comincerò a pungere col chiodino il piede del tuo piccolo e lo farò piangere e zoppicare».

            Ebbene, anche a me era accaduto qualcosa di simile. No, nessun chiodino nelle scarpe da ribattere. Un’altra cosa m’era sfuggita… – Che cosa? – Niente: un’altra cosa… Non glielo volli dire. Un’altra cosa, signorina Luisetta, che forse da un gran pezzo dentro di me s’è guastata.

            Che la signorina Luisetta mi prestasse molta attenzione, non potrei dire. E, cammin facendo, mentre lasciavo parlar le labbra, pensavo: «Ah, tu non ti curi, cara piccina, di ciò che ti sto dicendo? La disavventura mia ti lascia indifferente? E tu vedrai con quale aria d’indifferenza io, a mia volta, per ripagarti con la stessa moneta, accoglierò il dispiacere che t’aspetta or ora, entrando alla Kosmograph con me: vedrai».

            Difatti, dopo neanche cinque passi su lo spiazzo alberato davanti al primo edificio dellaKosmograph, ecco là accanto, come due dolcissimi amici, il signor Nuti e la signora Nestoroff: questa, con l’ombrellino aperto, appoggiato e girante su una spalla.

            Con che occhi si voltò a guardarmi la signorina Luisetta! E allora io:

            – Vede? Passeggiano tranquilli. Fa girar l’ombrellino, lei.

            Così pallida, però, così pallida era diventata la povera piccina, che temetti non mi cadesse a terra, svenuta: istintivamente protesi una mano a sorreggerla per un braccio; con ira ritrasse quel braccio e mi fissò gli occhi negli occhi. Certo le balenò il sospetto fosse opera mia, mia manovra (chi sa? d’accordo forse col Polacco), quella tranquilla e dolce riconciliazione del Nuti con la signora Nestoroff frutto della visita da me fatta a questa signora due giorni avanti e forse anche del mio misterioso allontanamento di jeri. Scherno vigliacco dovette sembrarle tutta questa macchinazione segreta, da lei immaginata in un lampo. Farle temere come imminente per tanti e tanti giorni una tragedia, se quei due si fossero incontrati; fargliene concepire tanto terrore; farle soffrire tanto strazio per placare le furie di colui con un inganno pietoso, che tanto le era costato, perché? per offrirle in premio alla fine quel delizioso quadretto della placida passeggiatina mattinale di quei due sotto gli alberi dello spiazzo? Oh vigliaccheria! per questo? per il gusto di deridere una povera piccina che aveva preso tutto sul serio, cacciata in mezzo a quell’intrigo laido e volgare? Non s’aspettava nulla di bene, lei, nelle buffe e tristi condizioni della sua vita; ma perché questo poi? perché anche lo scherno? Era vile!

            Così mi dissero gli occhi della povera piccina. Potevo io lì per lì dimostrarle che il sospetto era ingiusto, che la vita è questa, oggi più che mai, fatta per offrire di questi spettacoli; e che io non ci avevo nessuna colpa?

            M’ero indurito; mi piaceva che l’ingiustizia del sospetto ella scontasse soffrendo per quello spettacolo là, per quella gente là, a cui tanto io che lei, non richiesti, avevamo dato qualche cosa di noi, che ora dentro ci doleva, offesa, ferita. Ma ce lo meritavamo! E ora, averla in questo compagna mi piaceva, mentre quei due passeggiavano di là, senza neppur vederci. «Indifferenza, indifferenza, signorina Luisetta, sù! Con permesso», mi veniva di dirle, «scappo a prendere la mia macchinetta per impostarmi subito qua com’è mio obbligo, impassibile.»

            E avevo su le labbra un sorriso strano, ch’era quasi il verso d’un cane, quando tra sé pensando digrigna. Guardavo intanto verso il portone dell’edificio in fondo, da cui venivano fuori, incontro a noi, Polacco, il Bertini e Fantappiè. Improvvisamente avvenne quello che in verità era da aspettarsi, e che dava ragione alla signorina Luisetta di tremare così, e torto a me di volermi serbare indifferente. La mia maschera d’indifferenza fu costretta a scomporsi d’un tratto, alla minaccia d’un pericolo che parve a tutti davvero imminente e terribile. Lo vidi dapprima balenare nell’aspetto del Polacco, che ci si era fatto vicino col Bertini e Fantappiè. Parlavano tra loro, certo di quei due che seguitavano a passeggiare sotto gli alberi, e tutti e tre ridevano per qualche frizzo scappato di bocca a Fantappiè, quando d’improvviso ci s’arrestarono davanti coi visi sbiancati, gli occhi sbarrati, tutti e tre. Ma sopra tutto nell’aspetto del Polacco vidi il terrore. Mi voltai a guardare indietro: – Carlo Ferro!

            Sopravveniva alle nostre spalle, ancora col berretto da viaggio in capo, com’era sceso or ora dal treno. E quei due, intanto, seguitavano a passeggiare di là, insieme, senz’alcun sospetto, sotto gli alberi. Li vide? Io non so. Fantappiè ebbe la presenza di spirito di gridar forte:

            – Oh, Carlo Ferro!

            La Nestoroff si voltò, piantò lì il compagno, e allora si vide – gratis – lo spettacolo commovente d’una domatrice che tra il terrore degli spettatori s’avanza incontro a una belva infuriata. Placida s’avanzò, senza fretta, ancora con l’ombrellino aperto su la spalla. E un sorriso aveva su le labbra, che diceva a noi, pur senza degnarci d’uno sguardo: «Ma che paura, imbecilli! se ci sono qua io!». E uno sguardo negli occhi, che non potrò mai dimenticare, proprio di chi sa che tutti debbano vedere che nessun timore può albergare in sé chi guardi e si faccia avanti così. L’effetto di quello sguardo su la faccia feroce, sul corpo rabbuffato, sui passi concitati di Carlo Ferro fu mirabile. Non vedemmo la faccia, vedemmo quel corpo quasi afflosciarsi e i passi rallentarsi man mano che il fascino più da vicino operava. Unico segno, che qualche agitazione doveva pur essere in lei, questo: che si mise a parlargli in francese.

            Nessuno di noi guardò laggiù, dove Aldo Nuti era rimasto solo, piantato tra gli alberi. Ma a un tratto m’accorsi che una tra noi, lei, la signorina Luisetta, guardava là, guardava lui, e non aveva forse guardato altro, come se per lei il terrore fosse là e non in quei due a cui noi altri guardavamo, sospesi e sgomenti.

            Ma non fu nulla, per il momento. A rompere la tempesta, facendo molto strepito, piombò su lo spiazzo, proprio in tempo, come un tuono provvidenziale, il commendator Borgalli insieme con parecchi socii della Casa e impiegati addetti all’amministrazione. Furono investiti il Bertini e il Polacco, ch’eran con noi; ma le fiere riprensioni del direttore generale si riferivano anche agli altri due direttori artistici assenti. – I lavori andavano a rilento! Nessun criterio direttivo; una gran confusione; babilonia, babilonia! Quindici, venti soggetti lasciati in asso: le compagnie sbandate qua e là, mentre già da un pezzo s’era detto che tutte dovevano trovarsi raccolte e pronte per il film della tigre, per cui migliaja e migliaja di lire erano state spese! Chi in montagna, chi al mare; una cuccagna! Perché tenere ancora lì quella tigre? Mancava ancora tutta la parte dell’attore che doveva ucciderla? E dov’era quest’attore? Ah, arrivato adesso? E come? dov’era stato?

            Attori, comparse, attrezzisti, una folla era sbucata fuori da ogni parte alle grida del commendator Borgalli, ch’ebbe la soddisfazione di misurar così, quanto grande fosse la sua autorità e quanto temuta e rispettata, dal silenzio in cui tutta quella gente si tenne e poi si sparpagliò, quand’egli concluse la sua concione ordinando:

            – Al lavoro! sù, al lavoro!

            Sparì dallo spiazzo, come sommerso prima da quell’affluire di gente, poi portato via dal rifluire di essa, ogni vestigio della – diciamo – drammatica situazione di poc’anzi; là, della Nestoroff e di Carlo Ferro; più là, del Nuti, solo, discosto, sotto gli alberi. Lo spiazzo ci restò davanti vuoto. Sentii la signorina Luisetta che mi gemeva accanto:

            – Oh Dio, oh Dio, – e si storceva le manine. – Oh Dio, e adesso? che avverrà adesso?

            La guardai con stizza, ma pure mi provai a confortarla:

            – Ma che vuole che avvenga? stia tranquilla! Non ha veduto? Tutto combinato… Io ho almeno questa impressione. Ma sì, stia tranquilla! Questo ritorno di sorpresa del Ferro… Scommetto che lei lo sapeva; se pure lei stessa jeri non gli ha telegrafato di venire; sì, apposta, per farsi trovare lì in amichevole colloquio con lui, col signor Nuti. Creda pure che è così.

            – Ma lui? lui?

            – Chi lui? il Nuti?

            – Se è tutto un giuoco di quei due…

            – Teme che se n’accorga?

            – Ma sì! ma sì!

            E la povera piccina tornò a storcersi le manine.

            – Ebbene? e se se n’accorge? – dissi io. – Stia tranquilla, che non farà nulla. Creda che anche questo è calcolato.

            – Da chi? da lei? da quella donna?

            – Da quella donna. Si sarà prima accertata bene, parlando con lui, che quell’altro poteva sopravvenire a tempo, senza pericolo per nessuno; stia tranquilla! Se no, il Ferro non sarebbe sopravvenuto.

            Ricatto. Questa mia asserzione racchiudeva una profonda disistima del Nuti; se la signorina Luisetta voleva tranquillarsi, doveva accettarla. Avrebbe tanto desiderato di tranquillarsi la signorina Luisetta; ma a questo patto no, non volle. Scosse il capo violentemente: no, no.

            E allora, niente! Ma in verità, per quanta fiducia avessi nell’accortezza fredda, nel potere della Nestoroff, ricordandomi ora delle furie disperate del Nuti, non mi sentivo neanch’io ben sicuro, che non ci fosse proprio da stare in pensiero per lui. Ma questo pensiero mi faceva créscer la stizza, già mossa per lo spettacolo di quella povera piccina spaventata. Contro la risoluzione di porre e tenere tutta quella gente là davanti alla mia macchinetta come pasto da darle a mangiare girando impassibile la manovella, mi vedevo anche io costretto a interessarmi ad essa ancora, a darmi ancora pensiero de’ loro casi. Anche mi sovvennero le minacce, le fiere proteste della Nestoroff, che niente ella temeva da nessuno, perché qualunque altro male – un nuovo delitto, la prigione, la morte stessa – stimava per sé mali minori di quello che soffriva in segreto e nel quale voleva durare. S’era forse tutt’a un tratto stancata di durarvi? Si doveva a questo la risoluzione da lei presa jeri, durante la mia assenza, d’andare verso il Nuti, contrariamente a quanto il giorno avanti mi aveva detto?

            – Nessuna compassione, – mi aveva detto, – né per me né per lui!

            Ha avuto improvvisamente compassione di sé? Di lui, no, certo! Ma compassione di sé, per lei vuol dire levarsi comunque, anche a costo d’un delitto, dalla punizione che si è data convivendo con Carlo Ferro. Risolutamente, all’improvviso, è andata verso il Nuti e ha fatto venire Carlo Ferro.

            Che vuole? Che avverrà?

            È avvenuto questo, intanto, a mezzogiorno sotto il pergolato dell’osteria, dove – parte camuffati da indiani e parte da turisti inglesi – s’erano affollati moltissimi attori e attrici delle quattro compagnie. Erano tutti, o fingevano di essere adirati e in subbuglio per la sfuriata della mattina del commendator Borgalli, e cimentavano da un pezzo Carlo Ferro, facendogli intendere chiaramente che quella sfuriata la dovevano a lui, per aver egli messo avanti dapprima tante sciocche pretese e cercato poi di sottrarsi alla parte assegnatagli nel film della tigre, partendo, come se davvero ci fosse un gran rischio a uccidere una bestia mortificata da tanti mesi di prigionia: assicurazione di cento mila lire, patti, condizioni, ecc. Carlo Ferro se ne stava seduto a un tavolino, in disparte, con la Nestoroff. Era giallo; appariva chiaramente che faceva sforzi enormi per contenersi; ci aspettavamo tutti che da un momento all’altro scattasse, insorgesse. Restammo perciò in prima sbalorditi, quando, invece di lui, un altro, a cui nessuno badava, scattò d’improvviso e insorse, facendosi innanzi al tavolino, a cui stavano il Ferro e la Nestoroff. Lui, il Nuti, pallidissimo. Nel silenzio pieno d’attesa violenta, un piccolo grido di spavento s’udì, a cui subito rispose un gesto di là, imperioso, della mano di Varia Nestoroff sul braccio di Carlo Ferro.

            Il Nuti disse, guardando il Ferro fermamente negli occhi:

            – Vuol cedere a me il suo posto e la sua parte? M’impegno davanti a tutti d’assumerla senza patti e senza condizioni.

            Non balzò in piedi Carlo Ferro né s’avventò contro il provocatore. Con stupore di tutti s’abbassò invece, si distese sguajatamente su la seggiola; piegò il capo da una parte, come a guardare da sotto in sù, e prima alzò un poco il braccio su cui quella mano premeva, dicendo alla Nestoroff:

            – La prego…

            Poi, rivolgendosi al Nuti:

            – Lei? la mia parte? Ma felicissimo, caro signore! Perché io sono un gran vigliacco… ho una paura, io, che lei non si può credere. Felicissimo, felicissimo, caro signore!

            E rise, come non ho veduto mai ridere nessuno.

            Provocò un brivido in tutti quella risata, e tra questo brivido generale e sotto la sferza di quella risata restò il Nuti come smarrito, certo con l’animo vacillante nell’impeto che lo aveva spinto contro il rivale e che ora cadeva così, di fronte a quell’accoglienza sguajata e beffardamente remissiva. Si guardò attorno, e allora, all’improvviso, nel vedergli quella faccia pallida smarrita, tutti scoppiarono a ridere forte, a ridere forte di lui, irrefrenabilmente. La tensione angosciosa si scioglieva così, in quest’enorme risata di sollievo, alle spalle del provocatore. Esclamazioni di dileggio scattavano qua e là, come zampilli in mezzo al fragore della risata: – Ci ha fatto questa bella figura! – Preso intrappola! – Sorcetto!

            Avrebbe fatto meglio il Nuti a mettersi a ridere anche lui con gli altri; ma, infelicissimamente, volle sostenersi in quella parte ridicola, cercando con gli occhi qualcuno a cui afferrarsi per tenersi ancora a galla in mezzo a quella tempesta d’ilarità, e balbettava:

            – Dunque… dunque, accettato?… Farò io… Accettato!

            Ma anch’io, quantunque mi facesse pena, distolsi subito lo sguardo da lui per volgermi a guardare la Nestoroff che aveva negli occhi dilatati un riso di luce malvagio.

 II.  

            Preso in trappola. Ecco tutto. Ha voluto questo e nient’altro la Nestoroff – che nella gabbia c’entrasse lui.

            Per qual fine? Mi sembra facile intenderlo, dal modo con cui ha disposto le cose: che cioè tutti, prima, disprezzando Carlo Ferro ch’ella aveva persuaso o costretto ad allontanarsi, dicessero che nessun rischio si correva a entrare in quella gabbia, così che più ridicola poi, da parte del Nuti, apparisse la bravata d’entrarci, e dalle risa con cui questa bravata è stata accolta uscisse, se non proprio salvo, quanto meno mortificato fosse possibile, l’amor proprio di quello; e no, niente anzi mortificato, giacché per la soddisfazione maligna che si suol provare nel veder cadere un povero uccello nella pània, che quella pània non fosse una cosa gradevole ora tutti riconoscono; e bravo dunque il Ferro che se n’è saputo, a spese di quel passerotto, disimpacciare. Insomma, questo ha voluto, mi par chiaro: gabbare il Nuti, dimostrandogli che a lei stava a cuore di risparmiare al Ferro anche un fastidio da nulla e fin l’ombra d’un pericolo lontanissimo, com’è quello d’entrare in una gabbia a sparare a una bestia che tutti hanno detto mortificata da tanti mesi di prigionia. Ecco: lo ha preso pulitamente per il naso e tra le risa di tutti lo ha introdotto in quella gabbia.

            Anche i più morali moralisti, senza volerlo, tra le righe delle loro favole lasciano scorgere un vivo compiacimento per le astuzie della volpe a danno del lupo o del coniglio o della gallina: e Dio sa che cosa rappresenta la volpe in quelle favole! La morale da cavarne è sempre questa: che il danno e le beffe restano agli sciocchi, ai timidi, ai semplici, e che sopra tutto da pregiare è dunque l’astuzia, anche quando non arriva all’uva e dice che ancora non è matura. Bella morale! Ma questo tiro giuoca sempre la volpe ai moralisti, che, per far che facciano, non riescono mai a farle fare una cattiva figura. Avete voi riso della favola della volpe e dell’uva? Io no, mai. Perché nessuna saggezza m’è apparsa più saggia di questa, che insegna a guarir d’ogni voglia, disprezzandola.

            Questo ora – beninteso – lo dico per me, che vorrei esser volpe e non sono. Non so dire uva acerba, io, alla signorina Luisetta. E questa povera piccina, al cui cuore non son potuto arrivare, ecco, fa di tutto perché io perda appresso a lei la ragione, la calma impassibile, la bella saggezza che mi sono più volte proposto di seguire, insomma quel mio tanto vantato silenzio di cosa. Vorrei disprezzarla, io, la signorina Luisetta, nel vederla così perduta dietro a quello sciocco; non posso. La povera piccina non dorme più, e me lo viene a dire in camera ogni mattina, con certi occhi che le cangiano di colore, ora azzurri intensi, ora verdi pallidi, con la pupilla che or si dilata per lo sgomento, or si restringe in un puntino in cui pare infitto lo spasimo più acuto.

            Le domando: – Non dorme? Perché? –, spinto da una voglia cattiva, che vorrei e non so ricacciare indietro, di farla stizzire. La sua bella età, la stagione dovrebbero pure invitarla a dormire. No? Perché? Un bel gusto provo a costringerla a dirmelo, che non dorme per lui, perché teme che lui… Ah sì? E allora: – Ma no, dorma pure, che tutto va bene, benissimo. Vedesse con che impegno lui s’è messo a rappresentare la parte nel film della tigre! Proprio bene, perché da giovanotto, lui, lo diceva, che se il nonno glielo avesse permesso, attore drammatico si sarebbe fatto; e non avrebbe mica sbagliato! Ottima disposizione naturale; vera eleganza signorile; perfetta compostezza da gentleman inglese al seguito della perfida Miss in viaggio nelle Indie! E bisogna vedere con quale garbata arrendevolezza accetta i consigli degli attori di professione, dei direttori Bertini e Polacco, e come si compiace delle loro lodi! Niente paura, dunque, signorina. Tranquillissimo… – Come si spiega? – Ma si spiega forse così, che non avendo fatto mai nulla, beato lui, in vita sua, ora che, per combinazione, s’è messo a fare una cosa e proprio quella che un tempo gli sarebbe piaciuto di fare, ecco, ci ha preso gusto, ci si distrae, invanito.

            No? La signorina Luisetta dice di no, s’ostina a dire di no, di no, di no, che non le pare possibile; che non ci sa credere; che qualche violento proposito egli stia a covare, senza darlo a vedere.

            Nulla di più facile, quando un sospetto di questo genere si sia fissato, che scorgere in ogni minimo atto un segno rivelatore. E ne scorge tanti la signorina Luisetta! E me li viene a dire in camera ogni mattina: – scrive – è accigliato – non guarda – s’è scordato di salutare…

            – Sì, signorina: e guardi, oggi s’è soffiato il naso con la mano sinistra, invece che con la mano destra!

            Non ride la signorina Luisetta: mi guarda accigliata, per vedere s’io dico sul serio: poi se ne va sdegnata e mi manda in camera Cavalena suo padre, il quale – lo vedo – fa di tutto, pover’uomo, per superare in mia presenza la costernazione che la figliuola è riuscita a comunicargli fortissima, tentando d’assorgere a considerazioni astratte.

            – La donna! – mi dice, scotendo le mani. – Lei, per sua fortuna (e così sempre sia, gliel’auguro di tutto cuore, signor Gubbio!) non l’ha incontrata, lei, su la sua via, la Nemica. Ma guardi me! Che sciocchi tutti coloro che, sentendo definir la donna «la nemica», vi rinfacciano subito: «Ma vostra madre? le vostre sorelle? le vostre figliuole?», come se per l’uomo, che in questo caso è figlio, fratello, padre, quelle fossero donne! Che donne? Nostra madre? Bisogna che mettiamo nostra madre di fronte a nostro padre, come le nostre sorelle o le nostre figliuole di fronte ai loro mariti; allora sì la donna, la nemica verrà fuori! C’è più per me di quella mia cara povera piccina? Ma io non ho la minima difficoltà ad ammettere, signor Gubbio, che anche lei, sicuro, la mia Sesè possa diventare, come tutte le altre donne di fronte all’uomo, la nemica. E non c’è bontà, non c’è remissione che tenga, creda! Quando, a uno svolto di strada, lei incontra proprio quella, quella che dico io, la nemica: ecco qua, tra due sta: o lei la ammazza, o lei si riduce come me! Ma quanti sono capaci di ridursi come me? Mi lasci almeno questa magra soddisfazione di dire pochissimi, signor Gubbio, pochissimi!

            Io gli rispondo che sono pienamente d’accordo.

            – D’accordo? – mi domanda allora Cavalena, con sorpresa che s’affretta a dissimulare, per il timore ch’io possa per questa sorpresa indovinare il suo giuoco. – D’accordo?

            E mi guarda timidamente negli occhi, come a sorprendere il momento di scivolare, senza guastar quest’accordo, dalla considerazione astratta al caso concreto. Ma qua l’arresto subito.

            – Oh Dio, ma perché, – gli domando, – vuol credere per forza in un così fiero impegno della signora Nestoroff d’essere la nemica del signor Nuti?

            – Come come? scusi? non le sembra? ma è! è la nemica! – esclama Cavalena. – Questo mi sembra indubitabile!

            – E perché? – torno a domandargli. – Indubitabile a me sembra invece ch’ella non voglia essere per lui né amica, né nemica, né niente.

            – Ma appunto per questo! – incalza Cavalena. – Scusi, o che forse la donna bisogna considerarla in sé e per sé? Sempre di fronte a un uomo, signor Gubbio! Tanto più nemica, in certi casi, quanto più indifferente! E in questo caso poi, l’indifferenza, scusi, adesso? dopo tutto il male che gli ha fatto? E non basta; anche il dileggio? Ma scusi!

            Sto a guardarlo un poco e mi rifaccio con un sospiro a domandargli daccapo:

            – Benissimo. Ma perché ora vuol credere per forza che al signor Nuti l’indifferenza e il dileggio della signora Nestoroff abbiano provocato, non so, ira, sdegno, propositi violenti di vendetta? Da che cosa l’argomenta? Non li dà affatto a vedere! Si mostra calmissimo, attende con piacere evidente alla sua parte di gentleman inglese…

            – Non è naturale! non è naturale! – protesta Cavalena, scrollando le spalle. – Creda, signor Gubbio, non è naturale! Mia figlia ha ragione. Lo vedessi piangere d’ira o di dolore, smaniare, torcersi, macerarsi, amen, direi: «Ecco, pende verso l’uno o verso l’altro dei due partiti».

            – Cioè?

            – Dei due partiti che si possono prendere quando si ha di fronte la nemica. Mi spiego? Ma questa calma, no, non è naturale! L’abbiamo veduto pazzo qua, per questa donna, pazzo da catena; e ora… ma che! non è naturale! non è naturale!

            Io faccio allora un segno con un dito, che il povero Cavalena in prima non intende.

            – Che vuol dire? – mi domanda.

            Gli rifaccio il segno; poi, placido placido:

            – Più sù, ecco, più sù…

            – Più sù… che cosa?

            – Un gradino più sù, signor Fabrizio; salga un gradino più sù di codeste considerazioni astratte, di cui ha voluto darmi un saggio in principio. Creda che, se vuol confortarsi, è l’unica. Ed è anche di moda, oggi.

            – Come sarebbe? – mi domanda, stordito, Cavalena.

            E io:

            – Evadere, signor Fabrizio, evadere; sfuggire al dramma! È una bella cosa, e anche di moda, le ripeto. E-va-po-rar-si in dilatazioni, diciamo così, liriche, sopra le necessità brutali della vita, a contrattempo e fuori di luogo e senza logica; sù, un gradino più sù di ogni realtà che accenni a precisarcisi piccola e cruda davanti agli occhi. Imitare, insomma, gli uccellini in gabbia, signor Fabrizio, che fanno sì, qua e là, saltellando, le loro porcheriole, ma poi ci svolazzano sopra: ecco, prosa e poesia; è di moda. Appena le cose si mettono male, appena due, poniamo, vengono alle mani o ai coltelli, via, sù, guardare in sù, che tempo fa, le rondini che volano, o magari i pipistrelli, se qualche nuvola passa; in che fase è la luna e se le stelle pajono d’oro o d’argento. Si passa per originali e si fa la figura di comprendere più vastamente la vita.

            Cavalena mi guarda con tanto d’occhi: forse gli sembro impazzito.

            – Eh, – poi dice. – Poterlo fare!

            – Facilissimo, signor Fabrizio! Che ci vuole? Appena un dramma le si delinea davanti, appena le cose accennano di prendere un po’ di consistenza e stanno per balzarle davanti solide, concrete, minacciose, cavi fuori da lei il pazzo, il poeta crucciato, armato di una pompettina aspirante; si metta a pompare dalla prosa di quella realtà meschina, volgare, un po’ d’amara poesia, ed ecco fatto!

            – Ma il cuore? – mi domanda Cavalena.

            – Che cuore?

            – Perdio, il cuore! Non bisognerebbe averne!

            – Ma che cuore, signor Fabrizio! Niente. Sciocchezze. Che vuole che importi al mio cuore se Tizio piange o se Cajo si sposa, se Sempronio ammazza Filano, e via dicendo? Io evado, sfuggo al dramma, mi dilato, ecco, mi dilato!

            Dilata invece sempre più gli occhi il povero Cavalena. Io sorgo in piedi e gli dico per concludere:

            – Insomma, alla sua costernazione e a quella della sua figliuola, signor Fabrizio, io rispondo così: che non voglio più saperne di nulla; mi sono seccato di tutto, e vorrei mandare a gambe in aria ogni cosa. Signor Fabrizio, lo dica alla sua figliuola: io faccio l’operatore, ecco!

            E me ne vado alla Kosmograph.

 III.

            Siamo, se Dio vuole, alla fine. Non manca più, ormai, che l’ultimo quadro dell’uccisione della tigre.

            La tigre: ecco, preferisco, se mai, costernarmi di lei; e vado a farle una visita, l’ultima, dinanzi alla gabbia.

            S’è abituata a vedermi, la bella belva, e non si smuove. Solo aggrotta un po’ le ciglia, per fastidio; ma sopporta la mia vista insieme col peso di questo silenzio di sole, grave, attorno, che qua nella gabbia s’impregna di forte lezzo ferino. Il sole entra nella gabbia ed essa socchiude gli occhi forse per sognare, forse per non vedersi addosso le liste d’ombra projettate dalle sbarre di ferro. Ah, dev’essere tremendamente seccata anche lei; seccata anche di questa mia pietà; e credo che, per farla cessare con un giusto compenso, volentieri mi divorerebbe. Questo desiderio, eh’essa riconosce per via di quelle sbarre inattuabile, la fa sospirare profondamente; e poiché se ne sta lunga sdrajata, col capo languido abbandonato su una zampa, vedo al sospiro levarsi una nuvoletta di polvere dal tavolato della gabbia. Mi fa proprio pena questo sospiro, pure intendendo perché essa lo ha emesso: c’è il riconoscimento doloroso della privazione a cui l’hanno condannata del suo diritto naturale di divorarsi l’uomo, eh’essa ha tutta la ragione di considerare suo nemico.

            – Domani, – le dico. – Domattina, cara, codesto supplizio finirà. È vero che codesto supplizio è ancora una cosa per te, e che, quando sarà finito, per te non sarà più niente. Ma tra codesto supplizio e niente, forse meglio niente! Così, lontana dai tuoi selvaggi luoghi, senza poter sbranare né far più paura a nessuno, che tigre sei tu? Senti, senti… Preparano di là la gabbia grande… Tu sei già avvezza a sentire queste martellate, e non ci fai più caso. Vedi, in questo sei più fortunata dell’uomo: l’uomo può pensare, udendo le martellate: «Ecco sono per me; sono quelle del fabbro che mi sta apparecchiando la cassa». Tu già ci sei, nella cassa, e non lo sai: sarà una gabbia molto più grande di questa; e avrai la consolazione d’un po’ di colore locale anche qui: figurerà un pezzo di bosco. La gabbia, ove ora stai, sarà trasportata di là e accostata fino a farla combaciare con quella. Un macchinista salirà qua, sul cielo di questa, e ne tirerà sù lo sportello, mentre un altro macchinista tirerà lo sportello dell’altra; e tu allora di fra i tronchi degli alberi t’introdurrai guardinga e meravigliata. Ma avvertirai subito un ticchettìo curioso. Niente! Sarò io, che girerò sul treppiedi la macchinetta; sì, dentro la gabbia anch’io, con te; ma tu non badare a me! vedi? appostato un po’ innanzi a me c’è un altro, un altro che prende la mira e ti spara, ah! eccoti giù, pesante, fulminata nello slancio… Mi accosterò; farò cogliere senza più pericolo alla macchinetta i tuoi ultimi tratti, e addio!

            Se finirà così…

            Questa sera, uscendo dal Reparto del Positivo, ove, per la premura che fa il Borgalli, ho dato una mano anch’io per lo sviluppo e la legatura dei pezzi di questo film mostruoso, mi son veduto venire incontro Aldo Nuti per accompagnarsi insolitamente con me fino a casa. Ho notato subito che si studiava, o meglio, si sforzava di non dare a vedere che aveva qualche cosa da dirmi.

            – Va a casa?

            – Sì.

            – Anch’io.

            A un certo punto mi domandò:

            – È stato oggi alla Sala di prova?

            – No. Ho lavorato giù, al Reparto.

            Silenzio per un tratto. Poi ha tentato con pena un sorriso, che voleva parere di compiacimento:

            – Si sono provati i miei pezzi. Hanno fatto buona impressione a tutti. Non avrei immaginato che potessero riuscire così bene. Uno specialmente. Avrei voluto che lei lo vedesse.

            – Quale?

            – Quello che mi presenta solo, per un tratto, staccato dal quadro, ingrandito, con un dito così su la bocca, in atto di pensare. Forse dura un po’ troppo… viene troppo avanti la figura… con quegli occhi… Si possono contare i peli delle ciglia. Non mi pareva l’ora che sparisse dallo schermo.

            Mi voltai a guardarlo; ma mi sfuggì subito in un’ovvia considerazione:

            – Già! – disse. – È curioso l’effetto che ci fa la nostra immagine riprodotta fotograficamente, anche in un semplice ritratto, quando ci facciamo a guardarla la prima volta. Perché?

            – Forse, – gli risposi, – perché ci sentiamo lì fissati in un momento, che già non è più in noi; che resterà, e che si farà man mano sempre più lontano.

            – Forse! – sospirò. – Sempre più lontano per noi…

            – No, – soggiunsi, – anche per l’immagine. L’immagine invecchia anch’essa, tal quale come invecchiamo noi a mano a mano. Invecchia, pure fissata lì sempre in quel momento; invecchia giovane, se siamo giovani, perché quel giovane lì diviene d’anno in anno sempre più vecchio con noi, in noi.

            – Non capisco.

            – È facile intenderlo, se ci pensa un poco. Guardi: il tempo, da lì, da quel ritratto, non procede più innanzi, non s’allontana sempre più d’ora in ora con noi verso l’avvenire; pare che resti lì fissato, ma s’allontana anch’esso, in senso inverso; si sprofonda sempre più nel passato, il tempo. Per conseguenza l’immagine, lì, è una cosa morta che col tempo s’allontana man mano anch’essa sempre più nel passato: e più è giovane e più diviene vecchia e lontana.

            – Ah già, così… Si, sì, – disse. – Ma c’è qualche cosa di più triste. Un’immagine invecchiata giovane a vuoto.

            – Come, a vuoto?

            – L’immagine di qualcuno morto giovane.

            Mi voltai di nuovo a guardarlo; ma egli soggiunse subito:

            – Ho un ritratto di mio padre, morto giovanissimo, circa all’età mia; tanto che io non l’ho conosciuto. L’ho custodita con reverenza, quest’immagine, benché non mi dica nulla. S’è invecchiata anch’essa, sì, profondandosi, come lei dice, nel passato. Ma il tempo che ha invecchiato l’immagine, non ha invecchiato mio padre; mio padre non l’ha vissuto questo tempo. E si presenta a me, a vuoto, dal vuoto di tutta questa vita che per lui non è stata; si presenta a me con la sua vecchia immagine di giovane che non mi dice nulla, che non può dirmi nulla, perché non sa neppure ch’io ci sia. E difatti è un ritratto ch’egli si fece prima di sposare; ritratto, dunque, di quando non era mio padre. Io in lui, lì, non ci sono, come tutta la mia vita è stata senza di lui.

            – È triste…

            – Triste, sì. Ma in ogni famiglia, nei vecchi album di fotografie, sui tavolinetti davanti al canapè dei salotti provinciali, pensi quante immagini ingiallite di gente che non dice più nulla, che non si sa più chi sia stata, che abbia fatto, come sia morta…

            D’improvviso cambiò discorso per domandarmi, accigliato:

            – Quanto può durare una pellicola?

            Non si rivolgeva più a me, come a uno con cui avesse piacere di conversare;ma a me come operatore. E il tono della voce era così diverso, così cangiata l’espressione del volto, ch’io sentii di nuovo, a un tratto, sommuoversi dentro di me il dispetto che covo in fondo da un pezzo contro tutto e contro tutti. Perché voleva sapere quanto può durare una pellicola? S’era accompagnato con me per informarsi di questo? o per il gusto di farmi spavento, lasciandomi trapelare che intendeva di compiere qualche sproposito il giorno appresso, così che di quella passeggiata dovesse restarmi un tragico ricordo o un rimorso?

            Mi sorse la tentazione di piantarmi su due piedi e di gridargli in faccia:

            «Oh sai, caro? Con me la puoi smettere, perché di te non me n’importa proprio nulla! Tu puoi far tutte le pazzie che ti parrà e piacerà, questa sera, domani: io non mi commuovo! Mi domandi forse quanto può durare una pellicola per farmi pensare che tu lasci di te quella tua immagine col dito su la bocca? E credi forse di dover riempire e spaventare tutto il mondo con quella tua immagine ingrandita nella quale si possono contare i peli delle ciglia! Ma che vuoi che duri una pellicola?».

            Scrollai le spalle e gli risposi:

            – Secondo l’uso che se ne fa.

            Anche lui dal tono della mia voce, cangiato, comprese certo cangiata la disposizione del mio animo verso di lui, e mi guardò allora in un modo che mi fece pena.

            Ecco: egli era qua ancora su la terra un piccolo essere. Inutile, quasi nullo; ma era, e m’era accanto, e soffriva. Pure lui soffriva, come tutti gli altri, della vita che è il vero male di tutti. Per non degne ragioni ne soffriva sì lui; ma di chi la colpa se così piccolo era nato? Anche così piccolo soffriva e la sua sofferenza era grande per lui, comunque indegna… Era della vita! per uno dei tanti casi della vita, che s’era abbattuto su lui per togliergli tutto quel poco che aveva in sé e schiantarlo e distruggerlo! Ora era qua, ancora accanto a me, in una sera di giugno, di cui non poteva respirare la dolcezza; domani forse, poiché la vita gli s’era così voltata dentro, non sarebbe stato più: quelle sue gambe non le avrebbe più mosse per camminare; non lo avrebbe più veduto quel viale per cui andavamo; e non se le sarebbe più calzate al piede da sé quelle belle scarpette verniciate e quei calzini di seta, e né più si sarebbe, anche in mezzo alla disperazione, compiaciuto ogni mattina, davanti allo specchio dell’armadio, dell’eleganza del suo abito inappuntabile su la bella persona svelta ch’io potevo toccare, ecco, ancora viva, sensibile, accanto a me.

            «Fratello…»

            No: non gli dissi questa parola. Si sentono certe parole, in un momento fuggevole: non si dicono. Gesù potè dirle, che non vestiva come me e non faceva come me l’operatore. In una umanità che prende diletto d’uno spettacolo cinematografico e ammette in sé un mestiere come il mio, certe parole, certi moti dell’animo diventano ridicoli.

            «Se dicessi fratello a questo signor Nuti», pensai, «egli se n’offenderebbe; perché… sì, avrò potuto fargli un po’ di filosofia su le immagini che invecchiano, ma che sono io per lui? Un operatore: una mano che gira una manovella.»

            Egli è un «signore», con la follia forse già dentro la scatoletta del cranio, con la disperazione in cuore, ma un ricco «signore titolato» che si ricorda bene d’avermi conosciuto studentello povero, umile ripetitore di Giorgio Mirelli nella villetta di Sorrento. Vuol tenere la distanza tra me e lui, e mi obbliga a tenerla anch’io, ora, tra lui e me: quella che il tempo e la professione mia hanno stabilito. Tra lui e me, la macchinetta.

            – Scusi, – mi domandò, poco prima d’arrivare a casa, – domani come farà lei a prendere la scena dell’uccisione della tigre?

            – È facile, – risposi. – Starò dietro di lei.

            – Ma non ci saranno i ferri della gabbia? l’ingombro delle piante?

            – Per me, no. Starò dentro la gabbia con lei.

            Si fermò a guardarmi, sorpreso:

            – Dentro la gabbia anche lei?

            – Certo, – risposi placidamente.

            – E se… se io fallissi il colpo?

            – So che lei è un tiratore provetto. Ma, del resto, poco male! Tutti gli attori, domani, staranno attorno alla gabbia ad assistere alla scena. Parecchi saranno armati e pronti a sparare anch’essi.

            Stette un po’ aggrondato a pensare, come se questa notizia lo contrariasse.

            – Non spareranno mica prima di me, – poi disse.

            – No, certo. Spareranno, se ce ne sarà bisogno.

            – Ma allora, – domandò, – perché quel signore là… quel signor Ferro aveva messo avanti tutte quelle pretese, se non c’è veramente nessun pericolo?

            – Perché col Ferro questi altri, fuori della gabbia, armati, forse non ci sarebbero stati.

            – Ah, dunque ci sono per me? Hanno preso questa misura di precauzione per me? È ridicolo! Chi l’ha presa? L’ha forse presa lei?

            – Io no. Che c’entro io?

            – Come lo sa, allora?

            – L’ha detto Polacco.

            – L’ha detto a lei? Dunque, l’ha presa Polacco? Ah, domani mattina mi sentirà! Io non voglio, ha capito? io non voglio!

            – Lo dice a me?

            – Anche a lei!

            – Caro signore, creda pure che a me non fa né caldo né freddo: colpisca o fallisca il colpo; faccia dentro la gabbia tutte le pazzie che vuole: io non mi commuovo, stia sicuro. Qualunque cosa accada, seguiterò impassibile a girar la macchinetta. Se lo tenga bene in mente!

 IV. 

            Girare, ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’una macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro me. Sta bene. Nessuno intanto potrà negare ch’io non abbia ora raggiunto la mia perfezione.

            Come operatore, io sono ora, veramente, perfetto.

            Dopo circa un mese dal fatto atrocissimo, di cui ancora si parla da per tutto, conchiudo queste mie note.

            Una penna e un pezzo di carta: non mi resta più altro mezzo per comunicare con gli uomini. Ho perduto la voce; sono rimasto muto per sempre. In una parte di queste mie note sta scritto: «Soffro di questo mio silenzio, in cui tutti entrano come in un luogo di sicura ospitalità.Vorrei ora che il mio silenzio si chiudesse del tutto intorno a me». Ecco, s’è chiuso. Non potrei meglio di così impostarmi servitore d’una macchina.

            Ma ecco tutta la scena, come s’è svolta.

            Quello sciagurato, la mattina appresso, si recò dal Borgalli a protestare fieramente contro il Polacco per la figura ridicola a cui questi a suo credere intendeva esporlo con quella misura di precauzione. Pretese a ogni costo che fosse revocata, dando un saggio a tutti, se occorreva, della sua ben nota valentia di tiratore. Il Polacco si scusò davanti al Borgalli dicendo d’aver preso quella misura non per poca fiducia nel coraggio o nell’occhio del Nuti, ma per prudenza, conoscendo il Nuti molto nervoso, come del resto ne dava or ora la prova con quella protesta così concitata, in luogo del doveroso, amichevole ringraziamento ch’egli s’aspettava.

            – Poi, – soggiunse infelicemente, indicando me, – ecco, commendatore, c’è anche Gubbio qua, che deve entrar nella gabbia…

            Mi guardò con tale disprezzo quel disgraziato, che subito io scattai, rivolto a Polacco:

            – Ma no, caro! Non dire per me, ti prego! Tu sai bene ch’io starò a girare tranquillo, anche se vedo questo signore in bocca e tra le zampe della bestia!

            Risero gli attori accorsi ad assistere alla scena; e allora Polacco si strinse nelle spalle e si rimise, o piuttosto, finse di rimettersi. Per mia fortuna, com’ho saputo dopo, pregò segretamente Fantappiè e un altro di tenersi di nascosto armati e pronti al bisogno. Il Nuti andò nel suo camerino a vestirsi da cacciatore; io andai nel Reparto del Negativo a preparare per il pasto la macchinetta. Per fortuna della Casa, tolsi là di pellicola vergine molto più che non bisognasse, a giudicare approssimativamente della durata della scena. Quando ritornai su lo spiazzo ingombro, in mezzo del gabbione enorme iscenato da bosco, l’altra gabbia, con la tigre dentro, era già stata trasportata e accostata per modo che le due gabbie s’inserivano l’una nell’altra. Non c’era che da tirar sù lo sportello della gabbia più piccola.

            Moltissimi attori delle quattro compagnie s’erano disposti di qua e di là, da presso, per poter vedere dentro la gabbia di fra i tronchi e le fronde che nascondevano le sbarre. Sperai per un momento che la Nestoroff, ottenuto l’intento che s’era proposto, avesse avuto almeno la prudenza di non venire. Ma eccola là, purtroppo.

            Si teneva fuori della ressa, discosta, in disparte, con Carlo Ferro, vestita di verde gajo, e sorrideva chinando frequentemente il capo alle parole che il Ferro le diceva, benché dall’atteggiamento fosco con cui il Ferro le stava accanto apparisse chiaro che a quelle parole ella non avrebbe dovuto rispondere con quel sorriso. Ma era per gli altri, quel sorriso, per tutti coloro che stavano a guardarla, e fu anche per me, più vivo, quando la fissai; e mi disse ancora una volta che non temeva di nulla, perché quale fosse per lei il maggior male io lo sapevo: ella lo aveva accanto – eccolo là – il Ferro; era la sua condanna, e fino all’ultimo con quel sorriso voleva assaporarlo nelle parole villane, ch’egli forse in quel punto le diceva.

            Distogliendo gli occhi da lei, cercai quelli del Nuti. Erano torbidi. Evidentemente anche lui aveva scorto la Nestoroff là in distanza; ma volle finger di no. Tutto il viso gli s’era come stirato. Si sforzava di sorridere, ma sorrideva con le sole labbra, appena, nervosamente, alle parole che qualcuno gli rivolgeva. Il berretto di velluto nero in capo, dalla lunga visiera, la giubba rossa, una tromba da caccia, d’ottone, a tracolla, i calzoni bianchi, di pelle, aderenti alle cosce, gli stivali con gli sproni, il fucile in mano: ecco, era pronto.

            Fu sollevato di qua lo sportello del gabbione, per cui dovevamo introdurci io e lui; a facilitarci la salita, due apparatori accostarono uno sgabello a due gradi. S’introdusse prima lui, poi io. Mentre disponevo la macchina sul treppiedi, che m’era stato porto attraverso lo sportello, notai che il Nuti prima s’inginocchiò nel punto segnato per il suo appostamento, poi si alzò e andò a scostare un po’ in una parte del gabbione le fronde, come per aprirvi uno spiraglio. Io solo avrei potuto domandargli:

            «Perché?».

            Ma la disposizione d’animo stabilitasi tra noi non ammetteva che ci scambiassimo in quel punto neppure una parola. Quell’atto poi poteva essere da me interpretato in più modi, che m’avrebbero tenuto incerto in un momento che la certezza più sicura e precisa m’era necessaria. E allora fu per me come se il Nuti non si fosse proprio mosso; non solo non pensai più a quel suo atto, ma fu proprio come se io non lo avessi affatto notato.

            Egli si riappostò al punto segnato, imbracciando il fucile; io dissi:

            – Pronti.

            S’udì dall’altra gabbia il rumore dello sportello che s’alzava. Polacco, forse vedendo la belva muoversi per entrare attraverso lo sportello alzato, gridò nel silenzio:

            – Attenti, si gira!

            E io mi misi a girare la manovella, con gli occhi ai tronchi in fondo, da cui già spuntava la testa della belva, bassa, come protesa a spiare in agguato; vidi quella testa piano ritrarsi indietro, le due zampe davanti restar ferme, unite, e quelle di dietro a poco a poco silenziosamente raccogliersi e la schiena tendersi ad arco per spiccare il salto. La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto, più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa – ferma, lucida, inflessibile – nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire; così che seguitò la mano a obbedire anche quando con terrore io vidi il Nuti distrarre dalla belva la mira e volgere lentamente la punta del fucile là dove poc’anzi aveva aperto tra le frondi lo spiraglio, e sparare, e la tigre subito dopo lanciarsi su lui e con lui mescolarsi, sotto gli occhi miei, in un orribile groviglio. Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l’affanno orrendo dell’uomo che s’era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto; udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell’affanno là, il ticchettìo continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; e m’aspettavo che la belva ora si sarebbe lanciata addosso a me, atterrato quello; e gli attimi di quell’attesa mi parevano eterni e mi pareva che per l’eternità io li scandissi girando, girando ancora la manovella, senza poterne fare a meno, quando un braccio alla fine s’introdusse tra le sbarre armato di rivoltella e tirò un colpo a bruciapelo in un’orecchia della tigre sul Nuti già sbranato; e io fui tratto indietro, strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta così serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela. Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s’era spenta in gola, per sempre.

            Ecco. Ho reso alla Casa un servizio che frutterà tesori. Appena ho potuto, alla gente che mi stava attorno atterrita, ho prima significato con cenni, poi per iscritto, che fosse ben custodita la macchina, che a stento m’era stata strappata dalla mano: aveva in corpo quella macchina la vita d’un uomo; gliel’avevo data da mangiare fino all’ultimo, fino al punto che quel braccio s’era proteso a uccidere la tigre. Tesori si sarebbero cavati da quel film, col chiasso enorme e la curiosità morbosa, che la volgare atrocità del dramma di quei due uccisi avrebbe suscitato da per tutto.

            Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d’un uomo a una delle tante macchine dall’uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s’è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall’altro, per forza, e quella più e questa un po’ meno bollate da un marchio di volgarità.

            Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s’ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d’un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l’agiatezza con la retribuzione che la Casa m’ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, chelo rende furente. Vorrebbe ch’io ne piangessi, ch’io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch’io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappare via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un’operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapore d’eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m’uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei.

            No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore.

            La scena è pronta?

            – Attenti, si gira…

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Quaderni di Serafino Gubbio operatore – Indice

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