Quaderni di Serafino Gubbio operatore – Quaderno Terzo

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Quaderni di Serafino Gubbio - Quaderno Terzo

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Quaderno Terzo

 I.  

            Un lieve sterzo. C’è una carrozzella che corre davanti. – Pò, pòpòòò, pòòò.

            Che? La tromba dell’automobile la tira indietro? Ma sì! Ecco pare che la faccia proprio andare indietro, comicamente.

            Le tre signore dell’automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzìo di veli variopinti; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla col suo trotterello stracco, séguita a dare indietro, indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare in fondo al lungo viale fuor di porta. Scompare? No: che! È scomparsa l’automobile. La carrozzella, invece, eccola qua, che va avanti ancora, pian piano, col trotterello stracco, uguale, del suo cavalluccio sfiancato. E tutto il viale par che rivenga avanti, pian piano, con essa.

            Avete inventato le macchine? E ora godetevi questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine.

            Le tre signore dell’automobile sono tre attrici della Kosmograph, e hanno salutato con tanta vivacità la carrozzella strappata indietro dalla loro corsa meccanica non perché nella carrozzella ci sia qualcuno molto caro a loro; ma perché l’automobile, il meccanismo le inebria e suscita in loro una così sfrenata vivacità. La hanno a disposizione: servizio gratis; paga la Kosmograph. Nella carrozzella ci sono io. M’han veduto scomparire in un attimo, dando indietro comicamente, in fondo al viale; hanno riso di me; a quest’ora sono già arrivate. Ma ecco che io rivengo avanti, care mie. Pian pianino, sì; ma che avete veduto voi? una carrozzella dare indietro, come tirata da un filo, e tutto il viale assaettarsi avanti in uno striscio lungo confuso violento vertiginoso. Io, invece, ecco qua, posso consolarmi della lentezza ammirando a uno a uno, riposatamente, questi grandi platani verdi del viale, non strappati dalla vostra furia, ma ben piantati qua, che volgono a un soffio d’aria nell’oro del sole tra i bigi rami un fresco d’ombra violacea: giganti della strada, in fila, tanti, aprono e reggono con poderose braccia le immense corone palpitanti al cielo.

            Caccia, sì, ma non forte, vetturino! È così stanco codesto tuo vecchio cavalluccio sfiancato. Tutti gli passano avanti: automobili, biciclette, tram elettrici; e la furia di tanto moto per le strade sospinge anche lui, senza eh’esso lo sappia o lo voglia, gli sforza irresistibilmente le povere gambe anchilosate, affaticate nel trasporto, da un punto all’altro della grande città, di tanta gente afflitta, oppressa e smaniosa, per bisogni, miserie, faccende, aspirazioni, eh’esso non può capire! E forse più di tutti lo stancano quei pochi che montano su la carrozzella con la voglia di divertirsi, e non sanno dove né come. Povero cavalluccio, la testa gli s’abbassa di mano in mano, e non la rialza più, neanche se tu lo frusti a sangue, vetturino!

            – Ecco, a destra… volta a destra!

            La Kosmograph è qua, in questa traversa remota, fuor di porta.

 II.

            Affossata, polverosa, appena tracciata in principio, ha l’aria e la mala grazia di chi, aspettandosi di star tranquillo, si veda, al contrario, seccato di continuo.

            Ma se non ha diritto a qualche fresco cespuglietto d’erba, a tutti quei fili di suono sottili vaganti, con cui il silenzio nelle solitudini tesse la pace, al quacquà di qualche raganella quando piove e le pozze d’acqua piovana rispecchiano nella notte rasserenata le stelle; insomma a tutte le delizie della natura aperta e deserta, una strada di campagna, parecchi chilometri fuor di porta, non so chi l’abbia, veramente.

            Invece: automobili, carrozze, carri, biciclette, e tutto il giorno un trànsito ininterrotto d’attori, d’operatori, di macchinisti, d’operaj, di comparse, di fattorini, e frastuono di martelli, di seghe, di pialle, e polverone e puzzo di benzina.

            Gli edificii, alti e bassi, della grande Casa cinematografica si levano in fondo alla strada, da una parte e dall’altra; ne sorgono alcuni più là, sènz’ordine, entro il vastissimo recinto, che si estende e spazia nella campagna: uno, più alto di tutti, è sovrastato come da una torre vetrata, di vetri opachi, che sfolgorano al sole; e nel muro in vista dalla strada e dal viale, su la bianchezza abbarbagliante della calce, a lettere nere, cubitali, sta scritto:

            LA «KOSMOGRAPH»

            L’entrata è a sinistra, da una porticina accanto al cancello, che s’apre di rado. Dirimpetto è un’osteria di campagna, battezzata pomposamente Trattoria della Kosmograph, con una bella pergola su l’incannucciata, che ingabbia tutto il così detto giardino e vi fa dentro un’aria verde. Cinque o sei tavole rustiche, dentro, non molto ferme su i quattro piedi, e seggiole e panchette. Parecchi attori, truccati e parati di strani costumi, vi seggono e discutono animatamente; uno grida più forte di tutti, battendosi con furia una mano su la coscia:

            – E io vi dico che bisogna prenderla qua, qua, qua!

            E le manate, su i calzoni di pelle, pajono spari.

            Parlano certo della tigre, comperata or è poco dalla Kosmograph; del modo come dev’essere uccisa; del punto preciso in cui dev’essere colpita. Se ne son fatta una fissazione. A sentirli, pare che siano tutti di professione cacciatori di bestie feroci.

            Affollati innanzi all’entrata, stanno ad ascoltarli con visi ridenti gli chauffeurs delle vetturette automobili, logore, impolverate; i vetturini delle carrozzelle in attesa, là in fondo, ove la traversa è chiusa da una siepe di stecchi e spuntoni; e tant’altra povera gente, la più miserabile ch’io mi conosca, sebbene vestita con una certa decenza. Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono i cachets avventizii, coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse. La loro petulanza è insoffribile, peggio di quella dei mendicanti; perché qua si viene a esibire una miseria, che non chiede la carità d’un soldo, ma cinque lire, per mascherarsi spesso grottescamente. Bisogna vedere che ressa, certi giorni, nel magazzino-vestiario per ghermire e indossar subito qualche straccio vistoso, e con quali arie se lo portano a spasso per le piattaforme e gli sterrati, sapendo bene che, quando riescano avestirsi, anche se non posano, tiran la mezza paga.

            Due, tre attori vengono fuori dalla trattoria, facendosi largo tra la ressa. Sono coperti d’una maglia color zafferano, col viso e le braccia impiastricciati di giallo sporco e una specie di cresta di penne colorate in capo. Indiani. Mi salutano:

            – Ciao, Gubbio.

            – Ciao, Si gira

            Si gira è il mio nomignolo. Già!

            Càpita a una pacifica tartaruga d’acquattarsi proprio là, dove un ragazzaccio maleducato si china per fare un suo bisogno. Poco dopo, la povera bestiola ignara riprende pacificamente il suo tardo andare con su la scaglia il bisogno di quel ragazzaccio, torre inopinata.

            Intoppi della vita!

            Voi ci avete perduto un occhio, e il caso è stato grave. Ma siamo tutti, chi più chi meno, segnati, e non ce n’accorgiamo. La vita ci segna; e a chi attacca un vezzo, a chi una smorfia.

            No? Ma scusate, voi, proprio voi che dite di no… ecco, magnificamente… non inzeppate di continuo tutti i vostri discorsi di questo avverbio in –mente?

            «Andai magnificamente dove m’indicarono: lo vidi e gli dissi magnificamente: Ma come, tu, magnificamente…»

            Abbiate pazienza! Nessuno ancora vi chiama Signor Magnificamente… Serafino Gubbio(Si gira…) è stato più disgraziato. Senza accorgermene, mi sarà avvenuto forse qualche volta, o più volte di seguito, di ripetere, dopo il direttore di scena, la frase sacramentale: – Si gira… –; l’avrò ripetuta con la faccia composta a quell’aria che mi è propria, di professionale impassibilità, ed è bastato questo, perché tutti ora qua, per suggerimento di Fantappiè, mi chiamino Si gira…

            Tutti i pubblici d’Italia conoscono Fantappiè, l’attore comico della Kosmograph, che s’è specializzato nella caricatura della vita militare: Fantappiè consegnato in caserma e Fantappiè al campo di tiro; Fantappiè alle grandi manovre e Fantappiè areostiere; Fantappiè di sentinellae Fantappiè soldato coloniale

            Egli se l’è appiccicato da sé, il nomignolo: un nomignolo che quadra bene alla sua specialità. Allo stato civile si chiama Roberto Chismicò.

            – Cicchetto, te ne sei avuto a male, che t’ho messo Si gira? – mi domandò, tempo fa.

            – No, caro – gli risposi sorridendo. – M’hai bollato.

            – Mi son bollato anch’io, va’ là!

            Tutti bollati, sì. E più di tutti, quelli che meno se ne accorgono, caro Fantappiè.

 III. 

            Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco nella rampa del cancello, inghiajata e incassata tra i fabbricati del secondo reparto, il Reparto Fotografico o del Positivo.

            In qualità d’operatore ho il privilegio d’aver un piede in questo reparto e l’altro nel Reparto Artistico o del Negativo. E tutte le meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica mi sono familiari.

            Qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine.

            Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alludano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno.

            La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telaj.

            Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso.

            Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica.

            E quante mani nell’ombra vi lavorano! C’è qui un intero esercito d’uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoj, all’imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi.

            Basta ch’io entri qui, in quest’oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo svapori.

            Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient’altro.

            Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta.

            Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d’impassibilità. Anzi, ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano.

            Fuori, alla luce, per tutto il vastissimo recinto, è l’animazione gaja delle imprese che prosperano e compensano puntualmente e lautamente ogni lavoro; quello scorrer facile dell’opera nella sicurezza che non ci saranno intoppi e che ogni difficoltà, per la gran copia dei mezzi, sarà agevolmente superata; una febbre anzi di porsi, quasi per sfida, le difficoltà più strane e insolite, senza badare a spese, con la certezza che il danaro, speso adesso senza contarlo, ritornerà tra poco centuplicato.

            Scenografi, macchinisti, apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte, modiste, fioraj, tant’altri operaj addetti alla calzoleria, alla cappelleria, all’armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco.

            Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa.

            Qui è tutto il contrario.

            Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare. Ma come prendere sul serio un lavoro, che altro scopo non ha, se non d’ingannare – non se stessi – ma gli altri? E ingannare, mettendo sù le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa?

            Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d’inganno, un ibrido giuoco. Ibrido, perché in esso la stupidità della finzione tanto più si scopre e avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo che meno si presta all’inganno: la riproduzione fotografica. Si dovrebbe capire, che il fantastico non può acquistare realtà, se non per mezzo dell’arte, e che quella realtà, che può dargli una macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una macchina, cioè con un mezzo che ne scopre e dimostra la finzione per il fatto stesso che lo dà e presenta come reale. Ma se è meccanismo, come può esser vita, come può esser arte? È quasi come entrare in uno di quei musei di statue viventi, di cera, vestite e dipinte. Non si prova altro che la sorpresa (che qui può essere anche ribrezzo) del movimento, dove non è possibile l’illusione d’una realtà materiale.

            E nessuno crede sul serio di poterla creare, quest’illusione. Si fa alla meglio per darroba da prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro teatri di posa o nelle piattaforme. Il pubblico, come la macchina, prende tutto. Si fan denari a palate, e migliaja e migliaja di lire si possono spendere allegramente per la costruzione d’una scena, che su lo schermo non durerà più di due minuti.

            Apparatori, macchinisti, attori si dànno tutti l’aria d’ingannare la macchina, che darà apparenza di realtà a tutte le loro finzioni.

            Che sono io per essi, io che con molta serietà assisto impassibile, girando la manovella, a quel loro stupido giuoco?

 IV.

            Permettete un momento. Vado a vedere la tigre. Dirò, seguiterò a dire, riprenderò il filo del discorso più tardi, non dubitate. Bisogna che vada, per ora, a vedere la tigre.

            Dacché l’hanno comperata, sono andato ogni giorno a visitarla, prima di mettermi all’opera. Due giorni soli non ho potuto, perché non me n’hanno dato il tempo.

            Abbiamo avuto qua altre bestie feroci, sebbene molto immalinconite: due orsi bianchi, che passavano le giornate, ritti su le zampe di dietro, a picchiarsi il petto, come trinitarii in penitenza; tre leoncini freddolosi, ammucchiati sempre in un canto della gabbia, l’uno su l’altro; anche altre bestie, non propriamente feroci: un povero struzzo spaventato d’ogni rumore come un pulcino, e sempre incerto di posare il piede; parecchie scimmie indiavolate. La Kosmographè fornita di tutto, e anche d’un serraglio, per quanto gl’inquilini vi durino poco.

            Nessuna bestia m’ha parlato come questa tigre.

            Quando noi l’abbiamo avuta, era arrivata da poco, dono di non so quale illustre personaggio straniero, al Giardino Zoologico di Roma. Al Giardino Zoologico non han potuto tenerla, perché assolutamente irriducibile, non dico a farle soffiare il naso col fazzoletto, ma neanche a rispettare le regole più elementari della vita sociale. Tre, quattro volte minacciò di saltare il fosso, si provò anzi a saltarlo, per lanciarsi sui visitatori del Giardino, che stavano pacificamente ad ammirarla da lontano.

            Ma qual altro pensiero più spontaneo di questo poteva sorgere in mente a una tigre (se non volete in mente, diciamo nelle zampe), che quel fosso cioè fosse fatto appunto perché essa si provasse a saltarlo, e che quei signori si fermassero lì davanti per essere divorati da lei, se riusciva a saltare?

            È certo un pregio sapere stare allo scherzo; ma sappiamo che non tutti l’hanno. Parecchi non sanno neppure tollerare che altri pensi di poter scherzare con loro. Parlo di uomini, i quali pure, in astratto, possono riconoscer tutti che talvolta sia cosa lecita scherzare.

            La tigre, voi dite, non sta esposta in giardino zoologico per ischerzo. Lo credo. Ma non vi sembra uno scherzo pensare, ch’essa possa supporre che la teniate lì esposta per dare al popolo una «nozione vivente» di storia naturale?

            Eccoci al punto di prima. Questa – non essendo noi propriamente tigri ma uomini – è retorica.

            Possiamo aver compatimento per un uomo che non sappia stare allo scherzo; non dobbiamo averne per una bestia; tanto più se questo scherzo a cui l’abbiamo esposta, dico della «nozione vivente», può avere conseguenze funeste: cioè per i visitatori del Giardino Zoologico, una nozione troppo sperimentale della ferocia di essa.

            Questa tigre fu dunque saggiamente condannata a morte. La Società dellaKosmograph riuscì a saperlo in tempo e la comperò. Ora è qui, in una gabbia del nostro serraglio. Dacché è qui, è saggissima. Come si spiega? Il nostro trattamento, senza dubbio, le sembra molto più logico. Qui non le è data libertà di provarsi a saltare alcun fosso, nessuna illusione di color locale, come nel Giardino Zoologico. Qui ha davanti le sbarre della gabbia, che le dicono di continuo: – Tu non puoi scappare; sei prigioniera, – e sta quasi tutto il giorno sdrajata e rassegnata a guardare di tra queste sbarre, in un’attesa tranquilla e attonita.

            Ahimè, povera bestia, non sa che qui le toccherà ben altro, che quello scherzo della «nozione vivente»!

            Già è pronto lo scenario, di soggetto indiano, nel quale essa è destinata a rappresentare una delle parti principali. Scenario spettacoloso, per cui si spenderà qualche centinaio di migliaja di lire; ma quanto di più stupido e di più volgare si possa immaginare. Basterà darne il titolo: La donna e la tigre. La solita donna più tigre della tigre. Mi par d’avere inteso, che sarà una miss inglese in viaggio nelle Indie con un codazzo di corteggiatori.

            L’India sarà finta, la jungla sarà finta, il viaggio sarà finto, finta la miss e finti i corteggiatori: solo la morte di questa povera bestia non sarà finta. Ci pensate? E non vi sentite torcer le viscere dall’indignazione?

            Ucciderla, per propria difesa o per difesa dell’incolumità altrui, passi! Quantunque non da sé, per suo gusto, la belva sia venuta qua a esporsi in mezzo agli uomini, ma gli uomini stessi, per loro piacere, siano andati a catturarla, a strapparla dal suo covo selvaggio. Ma ucciderla così, in un bosco finto, in una caccia finta, per una stupida finzione, è vera nequizia che passa la parte! Uno dei corteggiatori, a un certo punto, sparerà contro un rivale a bruciapelo. Voi vedrete questo rivale traboccar giù, morto. Sissignori. Finita la scena, eccolo qua che si rialza, scotendosi dall’abito la polvere della piattaforma. Ma non si rialzerà più questa povera bestia, quando le avranno sparato. Porteranno via il bosco finto e anche, come un ingombro, il cadavere di lei. In mezzo a una finzione generale soltanto la sua morte sarà vera.

            E fosse almeno una finzione che con la sua bellezza e la sua nobiltà potesse in qualche modo compensare il sacrifizio di questa bestia. No. Stupidissima. L’attore che la ucciderà, non saprà forse nemmeno perché l’avrà uccisa. La scena durerà un minuto, due minuti su lo schermo in projezione, e passerà senza lasciare un ricordo duraturo negli spettatori, che usciranno dalla sala sbadigliando:

            – Oh Dio, che stupidaggine!

            Questo, o bella belva, t’aspetta. Tu non lo sai, e guardi di tra le sbarre della gabbia con codesti occhi spaventevoli, ove la pupilla a spicchio or si restringe or si dilata. Vedo quasi vaporare da tutto il tuo corpo, com’alito di bragia, la tua ferinità, e segnato nelle nere striature del tuo pelame l’impeto elastico degli slanci irrefrenabili. Chiunque t’osservi da vicino, gode della gabbia che t’imprigiona e che arresta anche in lui l’istinto feroce, che la tua vista gli rimuove irresistibilmente nel sangue.

            Tu qua non puoi stare altrimenti. O così imprigionata, o bisogna che tu sia uccisa; perché la tua ferocia – lo intendiamo – è innocente: la natura l’ha messa in te, e tu, adoprandola, ubbidisci a lei e non puoi aver rimorsi. Noi non possiamo tollerare che tu, dopo un pasto sanguinoso, possa dormir tranquillamente. La tua stessa innocenza fa innocenti noi della tua uccisione, quand’è per nostra difesa. Possiamo ucciderti, e poi, come te, dormir tranquillamente. Ma là, nelle terre selvagge, ove tu non ammetti che altri passi; non qua, non qua, ove tu non sei venuta da te, per tuo piacere. La bella innocenza ingenua della tua ferocia rende qua nauseosa l’iniquità della nostra. Vogliamo difenderci da te, dopo averti portata qua, per nostro piacere, e ti teniamo in prigione: questa non è più la tua ferocia; quest’è ferocia perfida! Ma sappiamo, non dubitare, sappiamo anche andare più in là, far di meglio: t’uccideremo per giuoco, stupidamente. Un cacciatore finto, in una caccia finta, tra alberi finti… Saremo degni in tutto, veramente, dello scenario inventato. Tigri, più tigri d’una tigre. E dire che il sentimento che questo film in preparazione vorrà destare negli spettatori, è il disprezzo della ferocia umana. Noi la metteremo in opra, questa ferocia per giuoco, e contiamo anche di guadagnarci, se ci riesce bene, una bella somma.

            Guardi? Che guardi, bella belva innocente? È proprio così. Non sei qua per altro. E io, che t’amo e t’ammiro, quando t’uccideranno, girerò impassibile la manovella di questa graziosa macchinetta qua, la vedi? L’hanno inventata. Bisogna che agisca; bisogna che mangi. Mangia tutto, qualunque stupidità le mettano davanti. Mangerà anche te; mangia tutto, ti dico! E io la servo. Verrò a collocartela più da presso, quando tu, colpita a morte, darai gli ultimi tratti. Ah, non dubitare, ricaverà dalla tua morte tutto il profitto possibile! Non le accade mica di gustar tutti i giorni un pasto simile. Puoi aver questa consolazione. E, se vuoi, anche un’altra.

            Viene ogni giorno, come me, qua davanti alla tua gabbia, una donna a studiare come tu ti muovi, come volti la testa, come guardi. La Nestoroff. Ti par poco? T’ha eletto a sua maestra. Fortune come questa, non càpitano a tutte le tigri.

            Al solito, ella prende sul serio la sua parte. Ma ho sentito dire, che la parte della miss«più tigre della tigre» non sarà assegnata a lei. Forse ella ancora non lo sa: crede che le spetti; e viene qui a studiare.

            Me l’hanno detto, ridendone. Ma io stesso l’altro giorno l’ho sorpresa, mentre veniva, e ho parlato con lei un buon pezzo.

 V.

            Non si sta invano, capirete, per una mezz’ora a guardare e a considerare una tigre, a vedere in essa un’espressione della terra, ingenua, di là dal bene e dal male, incomparabilmente bella e innocente nella sua potenza feroce. Prima che da questa «originarietà» si scenda e s’arrivi a poter vedere innanzi a noi uno, o una che sia, dei giorni nostri, e a poter riconoscerla e considerarla come un’abitante della stessa terra – almeno per me; non so se anche per voi – ci vuole un bel po’.

            Rimasi dunque per un pezzo a guardare la signora Nestoroff senza riuscire a intendere ciò che mi diceva.

            Ma la colpa, in verità, non era soltanto mia e della tigre. Il fatto ch’ella mi rivolgesse la parola, era insolito; e facilmente, se ci parli di sorpresa qualcuno con cui non abbiamo avuto relazioni di sorta, stentiamo in prima a cogliere il senso, talvolta anche il suono delle parole più comuni e domandiamo:

            – Scusi, com’ha detto?

            In poco più d’otto mesi, che son qui, tra me e lei, oltre i saluti, ci sarà statolo scambio d’appena una ventina di parole.

            Poi, ella – sì, ci fu anche questo – appressandosi, cominciò a parlarmi con molta volubilità, come si suol fare quando vogliamo distrarre l’attenzione di qualcuno che ci sorprenda in qualche atto o pensiero che vorremmo tener nascosto. (La Nestoroff parla con meravigliosa facilità e con perfetto accento la nostra lingua, come se fosse in Italia da molti anni: ma salta subito a parlar francese, appena appena, anche momentaneamente, si alteri o si riscaldi.) Voleva saper da me, se mi paresse che la professione dell’attore fosse tale, che una qualsiasi bestia (anche non metaforicamente) si potesse credere atta, senz’altro, a esercitarla.

            – Dove? – le domandai.

            Non intese la domanda.

            – Ecco, – le spiegai, – se si tratta d’esercitarla qui, dove non c’è bisogno della parola, forse anche una bestia, perché no?, può esser capace.

            La vidi infoscarsi in volto.

            – Sarà per questo, – disse misteriosamente.

            Mi parve dapprima d’indovinare, ch’ella (come tutti gli attori di professione, scritturati qui) parlasse per dispetto di certuni, i quali, senz’averne bisogno, ma pur non sdegnando un guadagno facile, o per vanità, o per diletto, o per altro, trovano modo di farsi accettare dalla Casa e di prender posto tra gli attori, senza molta difficoltà, tolta di mezzo quella, che sarebbe più arduo per loro e forse impossibile superare senza un lungo tirocinio e una vera attitudine, voglio dire la recitazione. Ne abbiamo alla Kosmograph parecchi, che sono veri signori, tutti giovani tra i venti e i trentanni, o amici di qualche forte caratista nell’Amministrazione della Casa, o caratisti essi stessi, che si dan l’aria d’assumere in qualche film questa o quella parte, che loro piaccia, solo per diporto; e la disimpegnano molto signorilmente, e qualcuno anche in maniera da far invidia a un vero attore.

            Ma, riflettendo poi sul tono misterioso con cui ella, infoscata all’improvviso, proferì quelle parole: – Sarà per questo, – il dubbio mi sorse, che forse le fosse arrivata la notizia che Aldo Nuti, non so ancora da qual parte, stia cercando la via per entrar qui.

            Questo dubbio mi turbò non poco.

            Perché veniva ella a domandare proprio a me, avendo in mente Aldo Nuti, se la professione dell’attore mi paresse tale, che ogni bestia potesse senz’altro credersi atta a esercitarla? Sapeva dunque della mia amicizia per Giorgio Mirelli?

            Non avevo ancora, e non ho tuttora, alcun motivo di crederlo. Dalle domande che accortamente le rivolsi per chiarirmene, non ho potuto almeno acquistarne la certezza.

            Non so perché, mi dispiacerebbe molto se ella sapesse che fui amico di Giorgio Mirelli, nella prima giovinezza di lui, e che mi fu familiare la villetta di Sorrento, ov’ella portò lo scompiglio e la morte.

            Non so perché – ho detto: ma non è vero; il perché lo so, e n’ho già fatto anche cenno altrove. Non ho amore, ripeto qua, né potrei averne, per questa donna; ma odio, neppure. Qua tutti la odiano; e già questa per me sarebbe ragione fortissima di non odiarla io. Sempre, nel giudicare gli altri, mi sono sforzato di superare il cerchio de’ miei affetti, di cogliere nel frastuono della vita, fatto più di pianti che di risa, quante più note mi sia stato possibile fuori dell’accordo de’ miei sentimenti. Ho conosciuto Giorgio Mirelli, ma come? ma quale? Qual egli era nelle relazioni che aveva con me. Tale, per me, ch’io l’amavo. Ma chi era egli e com’era nelle relazioni con questa donna? Tale, ch’ella potesse amarlo? Io non lo so! Certo, non era, non poteva essere uno – lo stesso – per me e per lei. E come potrei io dunque giudicare da lui questa donna? Abbiamo tutti un falso concetto dell’unità individuale. Ogni unità è nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l’unità. Si spiega così, come uno, che a ragione sia amato da me, possa con ragione essere odiato da un altro. Io che amo e quell’altro che odia, siamo due: non solo; ma l’uno, ch’io amo, e l’uno che quell’altro odia, non son punto gli stessi; sono uno e uno: sono anche due. E noi stessi non possiamo mai sapere, quale realtà ci sia data dagli altri; chi siamo per questo e per quello.

            Ora, se la Nestoroff venisse a sapere ch’io fui molto amico di Giorgio Mirelli, forse sospetterebbe in me un odio per lei ch’io non sento: e basterebbe questo sospetto a farla diventare subito un’altra per me, pur rimanendo io nella medesima disposizione d’animo per lei; si vestirebbe per me d’una parte che me ne nasconderebbe tante altre; e non potrei più studiarla, com’ora la studio, intera.

            Le parlai della tigre, dei sentimenti che la presenza di. essa in questo luogo e la sua sorte destano in me; ma mi accorsi subito ch’ella non era in grado d’intenderli, non forse per incapacità, ma perché le relazioni, che tra lei e la belva si sono stabilite, non le consentono né pietà per essa, né sdegno per l’azione che qui sarà compiuta.

            Mi disse, acutamente:

            – Finzione, sì; anche stupida, se volete; ma quando sarà sollevato lo sportello della gabbia e questa bestia sarà fatta entrare nell’altra gabbia più grande che figurerà un pezzo di bosco, con le sbarre nascoste da fronde, il cacciatore, per quanto finto come il bosco, avrà pur diritto di difendersi da essa, appunto perché essa, come voi dite, non è una bestia finta, ma una bestia vera.

            – Ma il male è appunto questo, – esclamai: – servirsi d’una bestia vera dove tutto sarà finto.

            – Chi ve lo dice? – rimbeccò pronta. – Sarà finta la parte del cacciatore; ma di fronte a questa bestia vera sarà pure un uomo vero! E v’assicuro che se egli non la ucciderà al primo colpo, o non la ferirà in modo d’atterrarla, essa, senza tener conto che il cacciatore sarà finto e finta la caccia, gli salterà addosso e sbranerà per davvero un uomo vero.

            Sorrisi dell’arguzia della sua logica e dissi:

            – Ma chi l’avrà voluto? Guardatela com’essa è qua! Non sa nulla, questa bella bestia, senza colpa della sua ferocia.

            Mi guardò con occhi strani, come in sospetto che volessi burlarmi di lei; ma poi sorrise anch’ella, alzò appena appena le spalle e soggiunse:

            – Vi sta tanto a cuore? Ammaestratela! Fatene una tigre attrice, che sappia fingere di cader morta al finto sparo d’un cacciatore finto, e tutto allora sarà accomodato.

            A seguitare, non ci saremmo mai intesi; perché se a me stava a cuore la tigre, a lei il cacciatore.

            Difatti il cacciatore designato a ucciderla è Carlo Ferro. La Nestoroff ne dev’essere molto costernata; e forse non viene qua, come vogliono i maligni, per studiare la sua parte, ma per misurare il pericolo che il suo amante affronterà.

            Il quale, anche lui, per quanto ostenti una sprezzante indifferenza, dev’esserne, in fondo, in apprensione. So che, parlando col direttore generale, commendator Borgalli, e anche sù negli uffici d’amministrazione, ha messo avanti molte pretese: un’assicurazione su la vita di almeno centomila lire, da dare a’ suoi parenti che vivono in Sicilia, in caso di morte, che non sia mai; un’altra assicurazione, più modesta, nel caso d’inabilità al lavoro per qualche eventuale ferita, che non sia mai neppure questa; una grossa gratificazione, se tutto, com’è da augurarsi, andrà bene, e poi – pretesa curiosa, non suggerita certo, come le precedenti, da un avvocato – la pelle della tigre uccisa.

            La pelle della tigre sarà senza dubbio per la Nestoroff; per i piedini di lei; tappeto prezioso. Oh, ella avrà certo sconsigliato all’amante, pregando, scongiurando, d’assumere quella parte così pericolosa; ma poi, vedendolo deciso e impegnato, avrà suggerito lei, proprio lei, al Ferro, di pretendere almeno la pelle della tigre. Come «almeno»? Ma sì! Ch’ella gli abbia detto «almeno», mi sembra proprio indubitabile. Almeno, cioè in compenso dell’ansia angosciosa che le costerà la prova, a cui egli s’esporrà. Non è possibile che sia venuta in mente a lui, a Carlo Ferro, l’idea d’aver la pelle della belva uccisa per metterla sotto i piedini della sua amante. Non è capace, Carlo Ferro, di tali idee. Basta guardarlo per convincersene: guardare quel suo nero, testone villoso e burbanzoso di caprone.

            Egli sopravvenne, l’altro giorno, a interrompere la mia conversazione con la Nestoroff innanzi alla gabbia. Non si curò nemmeno di sapere di che cosa noi stessimo a parlare, come se per lui non potesse avere alcuna importanza una conversazione con me. Mi guardò appena, accostò appena la cannuccia di bambù al cappello per un cenno di saluto, guardò con la solita sprezzante indifferenza la tigre nella gabbia, dicendo all’amante:

            – Andiamo: Polacco è pronto; ci aspetta.

            E voltò le spalle, sicuro d’esser seguito dalla Nestoroff, come un tiranno dalla sua schiava.

            Nessuno più di lui sente e dimostra quell’istintiva antipatia, ch’io ho detto comune a quasi tutti gli attori per me, e che si spiega, o almeno, io mi spiego come un effetto, a loro stessi non chiaro, della mia professione.

            Carlo Ferro la sente più di tutti, perché, tra tante altre fortune, ha quella di credersi sul serio un grande attore.

 VI. 

            Non è tanto per me – Gubbio – l’antipatia, quanto per la mia macchinetta. Si ritorce su me, perché io sono quello che la gira.

            Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io, con la manovella in mano, sono in realtà per loro una specie d’esecutore.

            Ciascun d’essi – parlo, s’intende, dei veri attori, cioè di quelli che amano veramente la loro arte, qualunque sia il loro valore – è qui di mala voglia, è qui perché pagato meglio, e per un lavoro che, se pur gli costa qualche fatica, non gli richiede sforzi d’intelligenza. Spesso, ripeto, non sanno neppure che parte stiano a rappresentare.

            La macchina, con gli enormi guadagni che produce, se li assolda, può compensarli molto meglio che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, sicché tutte, o quasi, le compagnie drammatiche fanno ormai meschini affari; e gli attori, per non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia. Ma non odiano la macchina soltanto per l’avvilimento del lavoro stupido e muto a cui essa li condanna; la odiano sopra tutto perché si vedono allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi.

            Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore eh’esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela.

            Si sentono schiavi anch’essi di questa macchinetta stridula, che pare sul treppiedi a gambe rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica davanti al pubblico. E colui che li spoglia della loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che riduce ombra il loro corpo, chi è? Sono io, Gubbio.

            Essi restano qua, come su un palcoscenico di giorno, quando provano. La sera della rappresentazione per essi non viene mai. Il pubblico non lo vedono più. Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei. Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola.

            Mi possono voler bene?

            Un certo rinfranco all’avvilimento lo hanno nel non vedersi essi soli mortificati al servizio di questa macchinetta, che muove, agita, attrae tanto mondo attorno a sé. Scrittori illustri, commediografi, poeti, romanzieri, vengono qua, tutti al solito dignitosamente proponendo la «rigenerazione artistica» dell’industria. E a tutti il commendator Borgalli parla d’un modo, e Cocò Polacco d’un altro: quello, coi guanti da direttore generale; questo, sbottonato, da direttore di scena. Ascolta paziente tutte le proposte di scenarii, Cocò Polacco; ma a un certo punto alza una mano, dice:

            – Oh no, quest’è un po’ crudo. Dobbiamo sempre aver l’occhio agl’inglesi, caro mio!

            Trovata genialissima, questa degli Inglesi. Veramente la maggior parte delle pellicole prodotte dalla Kosmograph va in Inghilterra. Bisogna dunque per la scelta degli argomenti adattarsi al gusto inglese. E quante cose allora non vogliono gl’inglesi nelle pellicole, secondo Cocò Polacco!

            – La pruderie inglese, tu capisci! Basta che dicano shocking, e addio ogni cosa!

            Se le pellicole andassero direttamente al giudizio del pubblico, forse forse tante cose passerebbero; ma no: per l’importazione delle pellicole in Inghilterra ci sono gli agenti, c’è lo scoglio, c’è la piaga degli agenti. Decidono loro, gli agenti, inappellabilmente: questo va, questo non va. E per ogni film che non vada, sono centinaja di migliaja di lire perdute o che vengono meno.

            Oppure Cocò Polacco esclama:

            – Bellissimo! Ma questo, caro mio, è un dramma, un dramma perfetto! Successone sicuro! Vuoi farne una pellicola? Non te lo permetterò mai! Come pellicola non va: te l’ho detto? caro, troppo fino, troppo fino. Qua ci vuol altro! Tu sei troppo intelligente, e lo intendi.

            In fondo, Cocò Polacco, se rifiuta loro i soggetti, fa pure un elogio: dice loro che non sono stupidi abbastanza per scrivere per il cinematografo. Da un canto, perciò, essi vorrebbero capire, si rassegnerebbero a capire; ma, dall’altro, vorrebbero anche accettati i soggetti. Cento, duecento cinquanta, trecento lire, in certi momenti… Il dubbio, che l’elogio della loro intelligenza e il disprezzo del cinematografo quale strumento d’arte siano messi avanti per rifiutare con un certo garbo i soggetti balena a qualcuno di loro; ma la dignità è salva e se ne possono andar via a testa alta. Da lontano gli attori li salutano come compagni di sventura.

            – Tutti bisogna che passino di qua! – pensano tra loro con gioja maligna. – Anche le teste coronate! Tutti di qua, stampati per un momento su un lenzuolo!

            Giorni sono, ero con Fantappiè nel cortile ov’è la Sala di prova e l’ufficio della Direzione artistica, quando scorgemmo un vecchietto zazzeruto, in cappello a stajo, dal naso enorme, dagli occhi loschi dietro gli occhiali d’oro, la barbetta a collana, che pareva tutto ristretto in sé per paura dei grandi manifesti illustrati incollati al muro, rossi, gialli, azzurri, sgargianti, terribili, dei films che più hanno fatto onore alla Casa.

            – Illustre senatore! – esclamò Fantappiè con un balzo, accorrendo e poi piantandosi su l’attenti con la mano levata comicamente al saluto militare. – È venuto per la prova?

            – Già… sì… mi avevano detto per le dieci, – rispose l’illustre senatore, sforzandosi di discernere con chi parlava.

            – Per le dieci? Chi gliel’ha detto? Polacco?

            – Non capisco…

            – Il direttore Polacco?

            – No, un italiano… uno che chiamano l’ingegnere…

            – Ah, capito: Bertini! Le aveva detto per le dieci? Non dubiti. Sono le dieci e mezzo. Per le undici certo sarà qui.

            Era il venerando Professor Zeme, l’insigne astronomo, direttore dell’Osservatorio e senatore del Regno, accademico dei Lincei, insignito di non so quante onorificenze italiane e straniere, invitato a tutti i pranzi di Corte.

            – E… scusi, senatore, – riprese quel burlone di Fantappiè. – Una domanda: non potrebbe farmi andare nella Luna?

            – Io? nella Luna?

            – Sì, dico… cinematograficamente, si capisce… Fantappiè nella Luna: sarebbe delizioso! In ricognizione, con otto soldati. Ci pensi un po’, senatore. Concerterei la scenetta… No? Dice di no?

            Il senator Zeme disse di no, con la mano, se non proprio sdegnosamente, certo con molta austerità. Uno scienziato pari suo non poteva prestarsi a mettere a servizio d’una buffonata la sua scienza. Si è prestato, sì, a farsi prendere in tutti gli atteggiamenti nel suo Osservatorio; ha voluto anche projettato su lo schermo il registro delle firme dei più illustri visitatori dell’Osservatorio, perché il pubblico vi leggesse le firme delle LL.MM il Re e la Regina e delle LL.AA.RR. il Principe Ereditario e le Principessine e di S. M. il Re di Spagna e di altri re e ministri di Stato e ambasciatori; ma tutto questo a maggior gloria della sua scienza e per dare al popolo una qualche immagine delle Meraviglie dei cieli (titolo della pellicola) e delle formidabili grandezze, in mezzo alle quali lui, il senator Zeme, pur così piccoletto com’è, vive e lavora.

            – Martuf! – esclamò sotto sotto Fantappiè, da buon piemontese, con una delle sue solite smorfie, andando via con me.

            Ma ritornammo indietro, poco dopo, attirati da un gran clamore di voci, che s’era levato nel cortile.

            Attori, attrici, operatori, direttori di scena, macchinisti erano usciti dai camerini e dallaSala di prova e stavano attorno al senator Zeme alle prese con Simone Pau, che suol venire di tanto in tanto a trovarmi alla Kosmograph.

            – Ma che educazione del popolo! – urlava Simone Pau. – Mi faccia il piacere! Mandi Fantappiè nella Luna! Lo faccia giocare alle bocce con le stelle! O crede forse che siano sue, le stelle? Qua, le consegni qua alla divina Sciocchezza degli uomini, che ha tutto il diritto d’appropriarsene e di giocarci alle bocce! Del resto… del resto, scusi, che fa lei? che crede d’esser lei? Lei non vede che l’oggetto! Lei non ha coscienza che dell’oggetto! Dunque, religione. E il suo Dio è il cannocchiale! Lei crede che sia il suo strumento? Non è vero! Quello è il suo Dio, e lei lo venera! Lei è come Gubbio, qua, con la sua macchinetta! Il servitore… non voglio offenderla, dirò il sacerdote, il pontefice massimo, le basta? di quel suo Dio, e giura nel domma della sua infallibilità. Dov’è Gubbio? Viva Gubbio! viva Gubbio! Aspetti, non se ne vada, Senatore!Io sono venuto qua, questa mattina, per consolare un infelice. Gli ho dato convegno qua: già dovrebbe esser qua! Un infelice, mio compagno avventore dell’albergo del Falco… Non c’è miglior mezzo per consolare un infelice, che mostrargli e fargli toccar con mano, che non è solo. E l’ho invitato qua, tra questi bravi amici artisti. È un artista anche lui! Eccolo qua! eccolo qua!

            E l’uomo dal violino, lungo lungo, inarcocchiato e tenebroso, ch’io vidi or è più di un anno nell’ospizio di mendicità, si fece avanti, come assorto, al solito, a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.

            Tutti fecero largo. Nel silenzio sopravvenuto, crepitò qualche scoppio di risa, qua e là. Ma lo stupore e un certo senso di ribrezzo teneva la maggior parte nel vedere quell’uomo avanzarsi a capo chino con gli occhi a quel modo assorti ai peli delle sopracciglia, quasi non volesse vedersi il naso carnuto e rosso, peso enorme e castigo della sua intemperanza. Più che mai, adesso, avanzandosi, pareva dicesse: «Silenzio! Fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d’un uomo?».

            Simone Pau lo presentò al senator Zeme, che scappò via, indignato; risero tutti; ma Simone Pau, serio, riprese a far la presentazione alle attrici, agli attori, ai direttori di scena, narrando a scatti un po’ all’uno un po’ all’altro, la storia del suo amico, e come e perché dopo quell’ultimo famoso intoppo non avesse più sonato. Alla fine, tutto acceso, gridò:

            – Ma egli oggi sonerà, signori! Sonerà! Romperà l’incanto malefico! Mi ha promesso che sonerà! Ma non a voi, signori! Voi vi terrete discosti. M’ha promesso che sonerà alla tigre! Sì, sì, alla tigre! alla tigre! Bisogna rispettare questa sua idea! Certo avrà le sue buone ragioni! Andiamo, sù, andiamo tutti… Ci terremo discosti… Egli si farà, solo, innanzi alla gabbia, e sonerà!

            Tra gridi, risa, applausi, sospinti tutti da una vivissima curiosità per la bizzarra avventura, seguimmo Simone Pau, che aveva preso sotto braccio il suo uomo, e lo spingeva avanti seguendo le indicazioni che gli si gridavano dietro, su la via da tenere per andare al serraglio. In vista delle gabbie, ci arrestò tutti, raccomandando silenzio, e mandò avanti, solo, quell’uomo col suo violino.

            Al rumore, dai cantieri, dai magazzini, operaj, macchinisti, apparatori, accorsero in gran numero per assistere dietro di noi alla scena: una folla.

            La belva s’era ritratta d’un balzo in fondo alla gabbia; inarcata, a testa bassa, i denti digrignanti, le zampe artigliate, pronta all’assalto: terribile!

            L’uomo la guatò, sbigottito; si voltò perplesso a cercare con gli occhi tra noi Simone Pau.

            – Suona! – gli gridò questi. – Non temere! Suona! Ti comprenderà!

            E allora quello, come liberandosi con un tremendo sforzo da un incubo, levò finalmente la testa, scrollandola, buttò a terra il cappellaccio sformato, si passò una mano sui lunghi capelli arruffati, trasse il violino dalla vecchia fodera di panno verde, e buttò via anche questa, sul cappello.

            Qualche lazzo partì dagli operaj affollati dietro a noi, seguito da risa e da commenti, mentr’egli accordava il violino; ma un gran silenzio si fece subito appena egli prese a sonare, dapprima un po’ incerto, esitante, come se si sentisse ferire dal suono del suo strumento non più udito da gran tempo; poi, d’un tratto, vincendo l’incertezza, e forse i fremiti dolorosi, con alcuni strappi energici. Seguì a questi strappi come un affanno a mano a mano crescente, incalzante, di strane note aspre e sorde, un groviglio fitto, da cui ogni tanto una nota accennava ad allungarsi, come chi tenti di trarre un sospiro tra i singhiozzi. Alla fine questa nota si distese, si sviluppò, s’abbandonò, liberata dall’affanno, in una linea melodica, limpida, dolcissima e intensa, vibrante d’infinito spasimo: e una profonda commozione allora invase noi tutti, che in Simone Pau si rigò di lagrime. Con le braccia levate egli faceva cenno di star zitti, di non manifestare in alcun modo la nostra ammirazione, perché nel silenzio quel bislacco straccione meraviglioso potesse ascoltare la sua anima.

            Non durò a lungo. Abbassò le mani, come esausto, col violino e l’archetto, e si rivolse a noi col volto trasfigurato, bagnato di pianto, dicendo:

            – Ecco…

            Scoppiarono applausi fragorosi. Fu preso, portato in trionfo. Poi, condotto alla prossima trattoria, non ostanti le preghiere e le minacce di Simone Pau, bevve e s’ubriacò. .

            Polacco s’è morso un dito dalla rabbia, per non aver pensato di mandarmi subito a prendere la macchinetta per fissare quella scena della sonata alla tigre.

            Come capisce bene tutto, sempre, Cocò Polacco! Io non potei rispondergli perché pensavo agli occhi della signora Nestoroff, che aveva assistito alla scena, come in un’estasi piena di sgomento.

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