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Il turno
Capitolo 28
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Voce di Giuseppe Tizza
– Sono matto? Geloso d’un vecchio, io, Ciro Coppa?
Appena giunto in città, si sentì liberato da quell’incubo che lo aveva oppresso tanti mesi in campagna. E nella nuova disposizione d’animo, volle fare a fidanza con sé stesso. Non temeva più rivali. Lui, Ciro Coppa, doveva temere di Pepè Alletto, per esempio? Eh via!
Lo cercò anzi per la città, e, trovatolo, lo chiamò a sé, mentre l’Alletto, facendo le viste di non essersi accorto di lui, tirava via diritto.
– Pepè! Ti avevo promesso una volta un posticino… Ebbene, te l’ho trovato. Vuoi venire da me?
– Da te?

– Nel mio studio. Lo riapro domani. Avrai da copiare: meglio tu, che un altro. Purché non mi faccia errori d’ortografia…
Pepè rimase a guardarlo a bocca aperta.
– Vieni, vieni, – insistette Ciro. – Hai inteso?
– Ho inteso, sì, – rispose Pepè, non sapendo ancora capacitarsi come e perché il Coppa potesse fargli quella proposta.
– Accetti?
– Io?… E perché no?
– Dunque t’aspetto domattina, alle otto. Ci intenderemo. Addio.
«È ammattito?», si domandò Pepè, appena il Coppa si fu allontanato. «Che vuole da me? Vuole accertarsi se tra me e Stellina non ci fu nulla? Spera di coglierci in fallo?»
Pensò di non andare; si pentì di non aver saputo dirgli di no. Ma ora, avendo accettato la proposta, non poteva più ritirarsi. No, no: doveva andare assolutamente per non fargli supporre ch’egli potesse aver qualche ragione di temere di lui.
E il giorno dopo, alle otto in punto, pallido, con l’animo in subbuglio, fu nello studio di Ciro.
– Vedi? Tutto cambiato! – gli disse questi mostrandogli la nuova scrivania, gli scaffali nuovi e le nuove seggiole lungo le pareti dello scrittojo. – E si cambia vita, caro mio! Arriva un giorno, in cui l’uomo forte sente il dovere d’impegnarsi in una lotta superiore, non più contro gli altri, ma contro sé stesso: vincere, dominar la propria natura, l’essenza bestiale, e acquistare sovr’essa una padronanza assoluta.
Così dicendo, agitava in aria nervosamente il frustino, mentre Pepè confuso, stordito, approvava col capo.
– Approvi, ma non comprendi! – riprese Ciro, dopo averlo osservato un momento, con calma. – Non son cose che tu possa comprendere così di leggieri.
– Veramente non… – balbettò Pepè, tentando un sorrisetto nell’imbarazzo.
– Lo so! lo so! Te lo spiego con un esempio. Fino al giorno d’oggi, io sono arrivato al punto che tu, Pepè Alletto, debolissimo uomo, puoi dire a me, Ciro Coppa, così: «Ciro, io sostengo che tu sei un vigliacco!». – Non ridere, imbecille! – Se mi dicessi così, io, guarda, forse in prima impallidirei un po’, stringerei le pugna per contenermi, chiuderei gli occhi, inghiottirei; poi, dominato l’impeto, ti risponderei con la massima calma e con garbo anche: «Caro Pepè, ti sembro un vigliacco? Ragioniamo, se non ti dispiace, codesto tuo asserto». Che te ne pare? Né mi fermerò qui, sai! Ogni giorno una nuova conquista su la mia natura, su la bestia. La vincerò io, non dubitare! Intanto, siedi là: quello è il tuo tavolino. Ci son carte da copiare: calligrafia chiara: attento alla punteggiatura, e bada all’ortografia… Non ti dico altro.
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