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XV.
Sentendo il campanello della porta, donna Bettina non mancò neppur quella sera di gridare:
– Nettatevi le scarpe!
– Me le son nettate, – rispose Pepè, rientrando, – sui calzoni di certa gente che non vuol farsi gli affari suoi.
La madre si spaventò:
– Un’altra lite?
– No… ma quasi! – s’affrettò a rassicurarla Pepè. – Ci è mancato poco, non ne facessi un’altra delle mie.
– Pepè, figlio mio, ancora bestialità? – gemette donna Bettina, pronunziando con tono amorevole questa domanda, che soleva spesso rivolgere al figliuolo. Pareva invecchiata di dieci anni, dopo la morte di Filomena. Non aveva voluto mostrar con lagrime il suo cordoglio, ma era evidente ch’esso ancora, in silenzio, le divorava il cuore.
Pepè, scotendo le pugna in aria, gridò:
– Li concio per le feste! Un duello già l’ho fatto! Ah, ma la vedremo… la vedremo…
E si mise ad andare in su e in giù per la stanza, come un leoncello in gabbia. Donna Bettina lo guardava a bocca aperta come istupidita; poi gli domandò, congiungendo le mani:
– Per carità, dimmi che t’è accaduto, Pepè! Mi fai morire.
– Nulla, – le rispose il figlio. – Certi amici miei… Si cena o non si cena stasera?
– Pepè, – lo ammonì la madre, – t’avverto che una certa età io ce l’ho e non posso più prendermi tanti dispiaceri… non posso più… non posso più… Tu sarai la causa della mia morte… tu solo, sai? tu solo…
– Va bene… basta, mammà, non ne parliamo più! – sbuffò Pepè, e si mise a cenare di buon appetito come se il suo corpo volesse compensarsi della vergogna per l’affronto patito.
«Lasciatelo morire, e la vedremo!», pensava, intanto, alludendo tra sé e sé a don Diego.
Rimandava così mentalmente l’incontro col Salvo alla morte dell’Alcozèr, per non fermare il pensiero al giorno seguente, in cui, secondo la minaccia, avrebbe trovato il rivale davanti alla porta di don Diego. Guardando all’avvenire, sentiva quanto più forte fosse la sua posizione di fronte a quella del Salvo; ma tuttavia questo sentimento non riusciva a confortarlo del tutto per la prova del domani.
Durante la notte non chiuse occhio, pensando a ciò che avrebbe potuto rispondere, lì per lì, al rivale.
Contemporaneamente, nel lettuccio accanto, donna Bettina, che non aveva più, proprio, la testa a segno, faceva un sogno assai strano. Le pareva di vedersi comparir don Diego sorridente e cerimonioso; le s’inchinava con una mano sul cuore, le s’inginocchiava ai piedi, poi le prendeva una mano e gliela baciava, sospirando: «Oh, Bettina, in grazia dell’antico amore!». Allora ella scoppiava a ridere, e don Diego, ferito da quel riso, le proponeva questa tarda ammenda: avrebbe ceduto la moglie, troppo giovine per lui, a Pepè, a patto che donna Bettina lo accettasse per marito: «Unione di due vecchi che pensano alla pace, unione di due giovani che ardono d’amore…».
A questo punto ella si svegliò, e sorprese Pepè che, messo quasi a sedere sul letto, con le spalle appoggiate al guanciale rialzato su la testata della lettiera, diceva a denti stretti, con un braccio levato:
– E io t’ammazzo!
– Pepè, – chiamò ella. – Che dici? che hai?
– Nulla… penso!
– Di notte tempo? Dimmi che hai…
– Non ho sonno, e penso, – rispose Pepè infastidito. – Dormi… dormi…
Donna Bettina tacque per un momento e rimise la testa sul guanciale; poidomandò piano, insinuante, con un certo imbarazzo, sperando di provocare una confidenza da parte del figliuolo:
– A che pensi?
Pepè non rispose. Soltanto, dopo un pezzo, scotendo il capo, emise nel silenzio della camera questo sospiro:
– Morto di fame…
– Perdona a tuo padre, Pepè, che si perdette per le sue follie, – concluse donna Bettina, sospirando a sua volta.
E pian piano, di lì a poco, la vecchietta addolorata si rimise a dormire.
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