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XI.
Del bruno per la sorella e del pallore lasciatogli dalla lunga convalescenza Pepè trasse partito per apparire più «interessante» agli occhi di Stellina, come se avesse vestito il bruno per lei andata a nozze con un altro.
Si recò in casa dell’Alcozèr in via di Porta Mazzara la prima sera che gli fu concesso andar fuori. Salendo la scala, si sentiva battere così forte il cuore che, a ogni cinque o sei scalini, doveva fermarsi a riprender fiato. Pervenuto al penultimo pianerottolo, fu crudelmente ferito dalla voce di Stellina che cantava una romanza, accompagnata a pianoforte da Mauro Salvo: senza dubbio.
– Canta, canta, ingrata!
S’appoggiò al muro e si strinse forte gli occhi con una mano.
Scoppiarono applausi, e tra questi una lunga risata argentina. Pepè si scosse, salì gli ultimi scalini, tirò il cordoncino del campanello.
– Pepè! – gridò sorpreso Gasparino Salvo, venuto ad aprir la porta, e subito si recò giubilante a dar l’annunzio nel salottino. – Pepè! Pepè Alletto! È venuto Pepè!
Fifo e Mommino Garofalo e Totò Salvo accorsero nella saletta. Don Diego che pisolava sul divano, svegliato dal battìo di mani e dalle voci, si alzò in piedi, intontito, guardando Mauro Salvo, che era rimasto a sedere su la poltrona e Stellina che, con un ginocchio appoggiato a lo sgabello del pianoforte e una mano su la tastiera, mirava assorta la fiamma della candela presso il leggìo.
Pepè entrò fra l’accoglienza rumorosa degli amici, pallido, impacciato, e tese con gli occhi bassi la mano a Stellina, che gli porse la sua, inerte e fredda, mentre don Diego, inchinandosi e gestendo largamente con le braccia, gli diceva:
– Evviva! evviva! Eccovi qua, tra noi, finalmente! Guarito del tutto? Rallegramenti. Sedete qua, accanto a me.
Solo Mauro Salvo non disse nulla a Pepè. Dalla poltrona, in cui rimase seduto, lo guardò con freddezza attraverso le pàlpebre che gli ricadevano per infermità su gli occhi globulenti, e a cui il naso rincagnato in su pareva comandasse con ostinata fierezza di rialzarsi.
Pepè fermò un istante gli occhi su lui, poi li volse a Stellina, e domandò:
– Son venuto a disturbare?
Don Diego gli diede su la voce:
– Ma che dite, caro don Pepè! Tanto onore e tanto piacere. Vi abbiamo aspettato sera per sera, parlando di voi. È vero, signori miei?
Tutti, tranne Mauro Salvo e Stellina, confermarono.
– Anzi, – riprese don Diego, – ci siamo tanto afflitti della disgrazia che vi è toccata.
– Povera signora Filomena! – esclamò Fifo Garofalo, rialzandosi la lente sul naso.
Seguì al ricordo della morta un istante di silenzio, durante il quale Pepè tentennò leggermente il capo.
– Contribuì pure, – poi disse, – ad affrettarne la fine, lo spavento che si prese per me, poverina.
– Lo spavento, scusa, se lo prese, – interloquì ruvidamente Mauro Salvo con gli occhi bassi e il naso ritto, – perché, se è vero quel che si dice, tuo cognato la chiuse a chiave in una camera e non permise che entrasse a vederti, cosicché s’immaginò che fossi a dir poco in fin di vita; se ti avesse invece veduto con quella feritina…
– Feritina? – interruppe, stupito, Mommino Garofalo. – Quanti punti, Pepè?
– Sessantaquattro, – rispose Pepè, modestamente.
– Sì, – riprese Mauro, guardando in giro, attraverso le pàlpebre cadenti, i radunati, – ma certo né ferita mortale né da spaventare.
– Certo, certo… – approvò Pepè per troncare il discorso. – Intanto, vedete! Salendo, ho sentito che la signora Stellina cantava una romanza… Son dunque, veramente, venuto a disturbare.
– Ancora? V’abbiamo detto di no, caro don Pepè!
E don Diego spiegò a l’Alletto in qual modo si passavan le serate in casa sua, intercalando qua e là riflessioni su la vitaccia sciocca e la vecchiaja maledetta. Sic vivitur, sic vivitur… La compagnia per lui era più necessaria del pane; ma, compagnia di giovanotti, beninteso! Dei vecchiacci come lui non sapeva che farsene. Però, guardare e sentire, sentire e guardare… non gli restava altro, ahimè. Ma si contentava.
Parlando, don Diego aveva su le labbra quel sorrisetto ambiguo che già Pepè aveva notato durante la visita che egli, insieme con don Marcantonio, gli aveva fatta. Ma questa volta il sorrisetto pareva che fosse piuttosto per Mauro Salvo, a cui gli occhi di don Diego si rivolgevano di frequente. A torto, però, Pepè se ne turbava. Quel sorrisetto aveva un significato assai più recondito di quel che la sua gelosia gli attribuiva. Don Diego, sì, fin dal primo momento s’era accorto che il Salvo si era innamorato di Stellina; ma di questo amore, per il suo segreto disegno, non che temere, s’era rallegrato. Mauro era brutto di faccia e ruvido di modi: Stellina non gli avrebbe mai dato retta. Invece il vecchio temeva di lui, di Pepè, protetto dal suocero e forte adesso del prestigio di quel duello fatto per la moglie. E tuttavia con vera impazienza egli aveva aspettato l’intervento di lui, perché Stellina da quella sera in poi si sarebbe trovata tra due fuochi: i due rivali si sarebbero fatta la guardia a vicenda, e lui avrebbe ora potuto riposar tranquillo e sicuro; l’espediente per godersi senza pericolo la compagnia di quegli altri giovanotti allegri e spensierati si riduceva ad effetto. Ed ecco perché il vecchio sorrideva a quel modo.
La conversazione a poco a poco s’animò, e vi prese parte anche Stellina, la quale, però, di tratto in tratto, volgeva un rapido sguardo inquieto al balcone, dove Mauro Salvo, mentre gli altri parlavano, si era recato, riaccostando pian piano dietro di sé le imposte. Ora egli se ne stava lì, con le spalle al salotto, i gomiti appoggiati su la ringhiera di ferro, la testa tra le mani, a guardar la campagna nera nella notte.
Don Diego, prima ancora di Stellina, s’era accorto della scomparsa di lui dal salotto; e a un certo punto volle richiamarlo:
– E venite qua, santo Dio! Vi pigliate un malanno, così al fresco.
– Mi fa tanto male il capo, – si scusò Mauro, cupamente, rientrando e richiudendo le imposte.
Don Diego, mostrando negli occhietti calvi il sogghigno delle labbra non mosse, lo osservò un tratto; poi gli disse con amorevolezza:
– Eh sì, vi si vede in faccia, poverino. Coraggio! Non vi avvilite!
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