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IX.
Pepè Alletto s’era preso un gran colpo a bandoliera, da la spalla sinistra giù giù fino al fianco destro: sessantaquattro punti di cucitura, uno dopo l’altro, sul vivo della ferita. E durante l’operazione era svenuto due volte.
Ma il Tucciarello e il D’Ambrosio non erano imbronciti per l’esito doloroso del duello; bensì per il contegno del loro primo di fronte all’avversario. Non che Pepè avesse fatto propriamente una cattiva figura; ma, appena impugnata la sciabola, Cristo santo! – pensava il Tucciarello, morsicchiandosi con le labbra la punta della barba, – appena impugnata la sciabola, era diventato più pallido di una carogna; per poco le braccia non gli eran cascate su la persona, come se la sciabola fosse stata di bronzo massiccio. Parare? sfalsare? Niente! Lì come un pupazzo da teatrino… E allora, si sa, zic-zac, al primo scontro, pàffete! Meno male, che non se l’era presa in testa. Il Borrani lo avrebbe spaccato in due, come un mellone.
Ciro Coppa aveva già saputo dai padrini dell’avversario, tornati su prima in paese, l’esito del duello, e aveva fatto preparare un letto per accogliere il ferito. Non poteva certo mandarlo, in quello stato, in casa della madre, sua suocera, vecchia di settant’anni.
Ora, aspettando, andava a gran passi per lo studio, e intanto borbottava ingiurie e imprecazioni contro le donne, impiccio degli uomini. Auff! Già, una prima scena con la moglie malata: grida, pianti, escandescenze, deliquio – e perché? Perché un coniglio aveva voluto far la parte del leone. Imbecille!
– La carrozza! la carrozza! – venne ad annunziargli la serva, di corsa.
– Non entra nessuno! – gridò il Coppa, immaginando subito che, dietro il ferito, una folla di curiosi stésse per irrompere in casa sua. – Soltanto il medico e il malato!
E via, dietro la serva.
Pepè fu portato, su una seggiola, dalla vettura al letto. Ciro scappò sù avanti, a chiuder sotto chiave la moglie.
– Voglio vederlo! Per carità, Ciro, lasciamelo vedere! – scongiurava piangendo Filomena, e spingeva l’uscio con le mani e coi ginocchi.
Ma già Ciro era corso alla camera del ferito per dargli a suo modo il ben tornato:
– Sei il più gran minchione che esista su la faccia della terra!
– Zitto, avvocato, zitto! Ha la febbre… – lo ammonì il medico.
– Non entra nessuno! – gridò il Coppa sotto il naso al medico, per tutta risposta, nell’esaltazione del momento. E ripetè: – Non entra nessuno! Vo a mettermi io stesso di guardia davanti alla porta… Guaj a chi entra!
E via di nuovo, di corsa.
– Pepè! Pepè! Lasciatemelo vedere! Voglio vederlo! Per carità! – seguitava a pregare la moglie.
Ciro si fermò di botto, aprì l’uscio e, con gli occhi fuori dell’orbita:
– Cristo, Madonna, Padreterno, che vuoi? Te li faccio scendere tutti dal Paradiso! Non puoi vederlo, t’ho detto! Lo spogliano, è nudo! Non entra nessuno!
E davvero per quel giorno non fece entrare né anche i più intimi amici del cognato. Solo qualcuno, appena, nei giorni successivi. Ma già, tanto non c’era più pericolo che i visitatori potessero veder Filomena. La poveretta, al colpo inatteso, s’era dovuta mettere a letto per un subito aggravamento del male.
Furon così ammessi alla vista del ferito anche Marcantonio Ravì e l’Alcozèr, venuti insieme, questi tutto sorridente e cerimonioso, quegli intozzato, su di sé, per la bile che gli fermentava in corpo come in una fornace.
– Don Pepè! don Pepè mio!
E gli volle per forza baciare una mano, rompendo in lagrime, come se Pepè fosse lì, moribondo.
La ferita invece non era di rischio, per quanto lunga e dolorosa. Pepè si lagnò coi due visitatori solo dell’immobilità a cui era costretto, e intanto con gli occhi in quelli di don Marcantonio cercava di legger notizie di Stellina.
Il Ravì gli parlò dell’interessamento di tutta la sua famiglia per lui; e don Diego confermò col capo le espressioni del suocero. Ah sì? dunque pure Stellina aveva saputo del duello? Pepè ne provò una vivissima gioja, turbata solo dal curioso sorriso con cui don Diego accompagnava quel suo tentennar del capo quasi a ogni parola del Ravì.
– Tornate, tornate a vedermi, – disse alla fine Pepè. – Ne avrò per molto tempo, ha detto il medico. Non potete neanche immaginare il piacere che mi farete…
– Piacere? voi? e io? – proruppe don Marcantonio. – La vita mia vi darei, don Pepè! Lo sa Dio ciò che ho sofferto nel sapervi… Basta! qui non posso parlare. Vi saluto. Ritorno domani… se però mi lasciano entrare. Sapete che, il giorno del duello, vostro cognato mi lasciò fuori la porta? Lasciar fuori me, che avrei voluto portarvi in braccio a casa mia per curarvi come un figliuolo! Basta. A rivederci, don Pepè.
Il Ravì tornò infatti, solo, non il domani, ma alcuni giorni dopo, e si trattenne a lungo a conversare con Pepè; gli disse che ogni giorno mandava la moglie da donna Bettina a darle notizia di lui, a confortarla, a tenerle compagnia, perché la poverina si struggeva dalla rabbia e dal dolore di non poter venire a vedere il figliuolo; gli parlò poi della bella casa dell’Alcozèr, del modo con cui questi trattava la moglie che finalmente si era arresa, delle visite che egli faceva a Stellina giornalmente per raccomandarle prudenza e pazienza:
– Perché, capite, don Pepè mio? Il vecchio, da un canto, ha coscienza di sé, dall’altro però, voi lo sapete, ama la compagnia, cosicché… mi spiego? gente in casa, giovanotti… Ora questo, se da una parte mi fa piacere, perché così Stellina ha un certo svago e non sta sola sola, dall’altra ho paura che dia cagione alle male lingue di sparlare. Sapete com’è il nostro paese… Ci vanno i vostri amici: i fratelli Salvo coi cugini Garofalo, buoni ragazzi allegri, lo so… e quanto a Stellina, non perché figlia mia, ma voi la conoscete: un angioletto! Tuttavia, vi par giusto metter la paglia accanto al fuoco? Basta, io, per me, non c’entro più: ora deve pensarci il marito, il quale esperienza dovrebbe averne, non vi pare? Ma, del resto, sapete come si dice? Ne sa più un pazzo in casa propria, che cento savii in quella degli altri .
«E Stellina? Stellina?», avrebbe voluto domandar Pepè. «Ride, canta, scherza coi Salvo, coi Garofalo, mentr’io sono qua inchiodato a letto per lei?»
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