««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
III.
– Ecco… va bene: io non ho fretta, Marcantonio mio, – diceva, il giorno dopo, don Diego al Ravi, nel Caffè del Falcone: – Però, ecco… non per me, ma per il vicinato: sotto le finestre di casa tua (tu forse hai il sonno greve e non senti), quasi ogni notte si fanno serenate: chitarre e mandolini, eh eh… Lo so: giovanotti allegri… Che bellezza, la gioventù! Sai chi sono? I fratelli Salvo coi cugini Garofalo e Pepè Alletto: chitarre e mandolini.
– Vi giuro, don Diego mio, che non ne so nulla, parola di galantuomo! Dite davvero? Serenate? Lasciate fare a me. Or ora vi fo vedere io, se…
– Dove vai?
– In cerca di codesti signorini che mi avete nominati.
– Sei matto? Siedi qua! Vuoi compromettermi?
– Voi non c’entrate!
– Come non c’entro, asino? Ci guastiamo, bada. Senza tante furie. Soglio far le cose con calma, io. Son giovanotti, e cantano: gioventù vuol dire allegria… Sa cantare anche Stellina, m’hai detto? Bene; il canto mi piace. Dicevo soltanto per il vicinato che sta a sentire ogni notte, e… capirai, le male lingue… Tu dovresti consigliare a codesti giovanotti un po’ di pazienza, mi spiego? perché hai la puella già sposa. Ma con buona maniera, con calma.
– Lasciate fare a me.
– Senza compromettermi, oh!
La sera di quello stesso giorno, Marcantonio Ravì, imbattendosi per via in Pepè Alletto, se lo chiamò in disparte e gli disse:
– Caro don Pepè, vi prego con buona maniera di lasciare in pace mia figlia; se no, faccio come quel tale; lo vedete questo bastone? Ve lo rompo in testa la prima volta che vi vedo ripassare col naso in aria sotto le finestre di casa mia.
Pepè Alletto lo guardò prima stordito, come se non avesse compreso; poi si tirò un passo indietro:
– Ah sì? E se io vi dicessi…
– Che siete cognato di Ciro Coppa, bau bau? – compì la frase il Ravì.
– No! – negò, acceso di sdegno, il giovanotto. – Se vi dicessi che a me personalmente bastoni su la testa non ne ha mai rotti nessuno?
Il Ravì si mise a ridere.
– O non lo vedete che scherzo? Ditemi voi stesso, don Pepè mio, in quali termini vi debbo pregare. Che volete da mia figlia? Se non siamo bestie, proviamoci a ragionare. Voi siete nobile, ma siete scarso, caro don Pepè. Anch’io sono un pover’uomo abbruciato di danari. Povertà non è vergogna. Sapete che vi voglio bene: venite qua, ragioniamo.
Gli passò una mano sotto il braccio e si avviò con lui, seguitando:
– Quanto a ballare, lo so, ballate come se non aveste fatto mai altro in vita vostra. Anche con gli speroni ai piedi, m’hanno detto. E sonare, sonate il pianoforte come un angelo… Ma, caro mio don Pepè, qui non si tratta di ballare, mi spiego? Ballare è un conto; mangiare, un altro. Senza mangiare, non si balla e non si suona. Debbo aprirvi gli occhi proprio io? Lasciatemi combinare in pace questo benedetto matrimonio, e ajutatemi anzi, diàscane! Il vecchio è ricco, ha settantadue anni e ha preso quattro mogli… Gli diamo ancora tre anni di vita? L’avvenire poi è nelle mani di Dio. Dite un po’: quale può essere l’ambizione d’un onesto padre di famiglia? La felicità della propria figliuola, ne convenite? Oh: chi è scarso è schiavo: schiavitù e felicità possono andar d’accordo? No. Ergo, prima base: denari. La libertà sta di casa con la ricchezza; e quando Stellina sarà ricca, non sarà poi libera di fare ciò che le parrà e piacerà? Dunque… che dicevamo? Ah, don Diego… Ricco, don Pepè mio! Ricchezze ne ha tante, che potrebbe lastricare di pezzi di dodici tari tutta Girgenti, beato lui! Don Pepè, accettatemi qualcosina qua al Caffè…
L’Alletto pareva caduto dalle nuvole: non sapendo che pensare di quel discorso, guardava negli occhi il Ravì sorridendo.
Per dir la verità non aveva mai aspirato seriamente alla mano di Stellina; né questa, per altro, aveva mai dato motivo a lui di farsi qualche illusione, più che non ne avesse dato a tant’altri giovanotti che le gironzavano attorno. La ragazza, sì, gli piaceva; ma sapeva pur troppo di non essere in condizione di prender moglie, e neanche ci pensava. Viveva con la madre settantenne, che, nella sua ingenua amorevolezza, si ostinava a trattarlo ancora come quand’aveva dieci anni. Povera santa vecchina! Bisognava aver pazienza con lei; anche per compensarla di tutto quello che le era toccato di soffrire col padre, il quale in pochi anni aveva dato fondo a tutto il patrimonio; e n’era poi morto di crepacuore. Dalla rovina si era soltanto salvata, per miracolo, la vecchia casa, in cui abitava con la madre.
Donna Bettina, nobile di nascita, non voleva assolutamente permettere che egli, Pepè, entrasse in qualche impiego, che forse il cognato, Ciro Coppa, con le sue aderenze avrebbe potuto procurargli. Ma di questo, Pepè, in fondo, non s’affliggeva molto. Lavorare non era il suo forte. Ogni mattina tre ore, per lo meno, davanti allo specchio: abitudine! Che poteva farci? Il bagno, le unghie lunghe da coltivare, poi pettinarsi, raffilarsi la barba, spazzolarsi. E quando alla fine, sul far della sera, usciva di casa, pareva un milordino. La vecchia casa, al Ràbato, custodiva intanto gelosamente il segreto miserevole dei sacrifizii ostinati e delle più dure privazioni.
Ah, se invece di nascere in quella triste cittaduzza moribonda, fosse nato o cresciuto in una città viva, più grande, chi sa! chi sa! la passione che aveva per la musica gli avrebbe forse aperto un avvenire. Una forza ignota nell’anima se la sentiva: la forza che lo tirava in certi momenti alla vecchia spinetta scordata della madre e gli moveva le dita su la tastiera a improvvisare a orecchio minuetti e rondò. Certe sere, mentre contemplava dal viale solitario, all’uscita del paese, il grandioso spettacolo della campagna sottostante e del mare là in fondo rischiarato dalla luna, si sentiva preso da certi sogni, angosciato da certe malinconie. In quella campagna, una città scomparsa, Agrigento, città fastosa, ricca di marmi, splendida, e molle d’ozii sapienti. Ora vi crescevano gli alberi, intorno ai due tempii antichi, soli superstiti; e il loro fruscio misterioso si fondeva col borbogliare continuo del mare in distanza e con un tremolìo sonoro incessante, che pareva derivasse dal lume blando della luna nella quiete abbandonata, ed era il canto dei grilli, in mezzo al quale sonava di tanto in tanto il chiù lamentoso, remoto, d’un assiolo.
Ma di questi suoi strani momenti Pepè si vergognava, quasi, con se stesso, temendo che i suoi amici se n’accorgessero. Che baja, allora! No, via; neanche a pensarci: lì, nella vita gretta, meschina, monotona, di tutti i giorni, lì era la realtà, a cui bisognava adattarsi.
Che gli diceva intanto il Ravì? che voleva da lui? Evidentemente quel buon uomo sospettava che tra lui e la figlia ci fosse qualche intesa, per la quale ella non volesse acconsentire al matrimonio con l’Alcozèr. Ebbene, perché non lasciarlo in quell’inganno? Promise d’usar prudenza e di farne usare agli amici Salvo e Garofalo, e n’ebbe in ricambio l’invito alle prossime nozze, a nome anche dell’Alcozèr, che:
– Non è cattivo, in fondo, poveraccio! – concluse don Marcantonio. – Che volete farci? ha la manìa delle mogli: non può farne a meno. Ma questa, se Dio vuole, sarà l’ultima! Gli diamo, sì e no, tre anni di vita? Gliel’ho detto avanti: «Caro don Diego, siamo della vita e della morte; carte in regola!». E lui, bisogna dir la verità: subito! non m’ha nemmeno lasciato finire. Cosicché, mi spiego? su questo punto, siamo a cavallo. Non dico per me, dico per mia figlia, beninteso! Poi Stellina… ci penserà lei… Debolezze, don Pepè: dicono che don Diego riprende moglie perché, stando solo, ha paura degli spiriti… Già! Credo che di notte gli appaja la Morte con l’ali. E se lo porti via presto, don Pepè! Le darei una mano io per caricarselo meglio su le spalle… Ma già, non pesa venti chili… Ai vostri comandi, e baciamo le mani. Mosca però, don Pepè: mi raccomando.
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