Il turno – Capitolo 2

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Il turno – Capitolo 2

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II.

            Don Diego Alcozèr già si faceva vedere per la città in compagnia del futuro suocero.

            Marcantonio Ravì, bonaccione, grasso e grosso, col volto sanguigno tutto raso e un palmo di giogaja sotto il mento, con le gambe che parevan tozze sotto il pancione e che nel camminare andavano in qua e in là faticosamente, sembrava fatto apposta per compensar don Diego fino fino, piccoletto, che gli arrancava accanto con lesti brevi passetti da pernice, tenendo il cappello in mano o sul pomo del bastoncino, come se si compiacesse di mostrar quell’unica e sola ciocca di capelli, ben cresciuta e bagnata in un’acqua d’incerta – tinta (quasi color di rosa), la quale, rigirata, distribuita chi sa con quanto studio, gli nascondeva il cranio alla meglio.

            Niente baffi, don Diego, e neppur ciglia: nessun pelo; gli occhietti calvi scialbi acquosi. Gli abiti suoi più recenti contavano per lo meno vent’anni; non per avarizia del padrone, ma perché, ben guardati sempre dalle grinze e dalla polvere, non si sciupavano mai, parevano anzi incignati allora allora.

            Così, ahimè, s’era ridotto uno dei più irresistibili conquistatori di dame in crinolino del tempo di Ferdinando n re delle Due Sicilie: cavaliere compitissimo, spadaccino, ballerino. Né i suoi meriti si restringevano solo qui, nel campo, com’egli diceva, di Venere e di Marte: don Diego parlava il latino speditamente, sapeva a memoria Catullo e la maggior parte delle odi di Orazio:

                         Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint…

             Ah, Orazio; da lui, suo prediletto poeta, don Diego aveva desunto le norme epicuree. Aveva goduto tutta la vita e voleva fino all’ultimo godere; odiava perciò la solitudine, nella quale si sentiva spesso turbato da paurosi fantasmi, e amava la gioventù, di cui cercava la compagnia, sopportandone filosoficamente gli scherzi e le beffe.

            Ecco: batteva il pomo d’argento del bastoncino d’ebano sul tavolinetto innanzi al Caffè del Falcone, mentre il Ravì si lasciava cader su la seggiola che scricchiolava, e sbuffando e buttandosi su la nuca il cappellaccio a larghe tese, si asciugava il sudore dalla faccia paonazza.

            – A me, al solito, – diceva l’Alcozèr al cameriere, – un’orzata.

            E accompagnava la ordinazione con una risatina fredda, superflua, accennando di stropicciarsi le manine gracili e tremule: – Eh eh…

            Seduti al Caffè, ripigliavano il discorso del matrimonio, interrotto di tanto in tanto dai saluti che don Marcantonio distribuiva a voce alta e con larghi gesti a gl’innumerevoli suoi conoscenti:

            – Baciamo le mani! La grazia vostra! Servo umilissimo!

            Don Diego non era ancora potuto entrare in casa della promessa sposa. Stellina minacciava di graffiargli la faccia, di cavargli tutti e due gli occhi, se egli si fosse arrischiato di presentarsi a lei. Il Ravì, s’intende, non parlava a don Diego di queste minacce della figliuola; diceva soltanto che bisognava avere un po’ di pazienza, perché le ragazze, oh Dio, si sa…

            – Bene bene; quando dici tu, o meglio, quando Stellina permetterà… intra paucos dies, spero, cupio quidem, – rispondeva don Diego, tranquillo e sorridente. – Intanto, guarda, per oggi le porterai questo qui.

            E traeva dalla tasca un astuccetto di velluto.

            Oggi un braccialetto, jeri un orologino con la catenina d’oro e di perle, e prima un anellino con perle e brillanti e una spilla di smeraldi o un pajo di orecchini… L’Alcozèr non spendeva nulla; non per avarizia: aveva tante gioje delle defunte mogli: che doveva farsene? Le mandava alla nuova fidanzata, ripulite dall’orefice, chiuse in astuccetti nuovi.

            Marcantonio Ravì profondeva lodi, esclamazioni ammirative, ringraziamenti.

            – Ma voi così, don Diego mio, ci confondete…

            – Non ti confondere, asino! Ho esperienza del mondo e so che i regali ci vogliono.

            Don Marcantonio si cacciava in tasca il dono e sbuffava dalla stizza per la caparbia ostinazione della figliuola, che, pur di non cedere, si contentava di star chiusa in una camera, assediata, rifiutando anche il cibo.

            La madre stava di guardia presso l’uscio di quella camera, come una sentinella. Venivano i parenti, la Mèndola o qualche altra vicina a tentare ancora di metterla su contro il marito, ma ella tornava col solito gesto ad accennare il segno della croce.

            – In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo! Non mi mettete altra legna sul fuoco: me ne manca forse, donna Carmela mia? Vedete in quale inferno mi trovo? Zia Carmela! – chiamava Stellina, dietro l’uscio.

            – Figlia mia bella, che vuoi?

            – Dica a sua figlia Tina che si affacci alla finestra: voglio farle vedere una cosa.

            – Sì, cuore mio bello! Or ora glielo dico. Coraggio, cuore mio! Pigliati quest’involtino: te lo faccio passare di sotto l’uscio. Mangia, che ti piacerà.

            – Tante grazie, zia Carmela!

            – Niente, figliuola cara. E tieni duro, tieni duro! non ci vuol altro…

            La si-donna Rosa lasciava dire e lasciava fare. E ogni giorno, appena il marito rincasava, gli rivolgeva la solita domanda:

            – Debbo? – E con la mano faceva il gesto di mandar la chiave per aprire l’uscio.

            – No! – le gridava egli. – Stia lì, lì, brutta ingrata! cuor di macigno! Come se non lo facessi per lei, per il suo bene! Tieni: un altro regalo, un braccialetto… faglielo vedere!

            La si-donna Rosa si alzava, chiudeva gli occhi, sospirava e, con l’astuccetto in mano, entrava nella camera della figliuola.

            Stellina se ne stava presso il letto, accoccolata per terra, sul tappetino, come una cagnetta ringhiosa. Strappava di mano alla madre il regalo e lo scaraventava a terra.

            – Grazie tante, non lo voglio!

            La madre allora perdeva la pazienza anche lei.

            – Sedici onze di braccialetto, asinaccia! Non sei neanche degna di guardarla tanta grazia di Dio!

            Stellina, appena uscita la madre, stropicciava il gomito del braccio sinistro sulla palma della mano destra e diceva a denti stretti:

            – Rodetevi! Rodetevi!

            Poi si ricomponeva la veste su le gambe, si alzava da sedere, gironzava un po’ per la camera e, finalmente, eccola lì, presso il cassettone a guardar sottecchi il regalo raccattato dalla madre. La curiosità era più forte della repulsione per il vecchio donatore.

            Si guardava nello specchietto a bilico, si rialzava i capelli dietro la nuca e sorrideva alla propria immagine: il visetto fresco e leggiadro apriva in quello specchio due occhi azzurri limpidi e gaj. Con quel sorriso, pareva susurrasse a se stessa: «Birichina!». E le veniva la tentazione di aprire quegli astucci, di provarsi… via, almeno gli orecchini… per un minuto, gli orecchini.

            – No, questo è l’anello… M’andrà certo troppo largo… No preciso! oh guarda… par fatto apposta per il mio dito…

            E si ammirava la manina bianca inanellata, avvicinandola, allontanandola, piegandola or di qua or di là. E poi gli orecchi con gli orecchini, e poi i polsi coi braccialetti, e poi sul seno la lunga catena d’oro dell’orologino; e, così parata, andava a farsi un profondo inchino allo specchio dell’armadio:

            – A rivederla, signora Alcozèr!

            E una gran risata.

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