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««« Introduzione ai romanzi di Luigi Pirandello
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Leggi e ascolta. Voce di Edoardo Camponeschi.
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IX.
Prima dell’alba del giorno appresso furono destate di soprassalto da uno strepito indiavolato giù per la strada: urli, grida scomposte che andavano al cielo, fischi spaventevoli di bùccine marine.
– I pescatori… – disse Maria, quasi tra sé, in un sospiro, nel bujo della camera.
Eh sì: quello era il giorno della festa dei santi Patroni del paese. Chi ci aveva pensato?
Come ogni anno, sù dalla borgata marina venivano in tumulto, su lo spuntar del giorno, i così detti pescatori: quasi tutta la gente che abitava in riva al mare, non dedita alla pesca soltanto.
A loro, a gli abitanti della borgata, era serbato per antica abitudine l’onore di portare in trionfo per le vie della città il fèrcolo de’ due santi Patroni, che appunto nel mare avevano sofferto il loro primo martirio, e su i marinaj perciò facevano valere più specialmente la loro protezione.
Così ogni anno la città era destata da quell’invasione fragorosa, come dal mare stesso in tempesta. Lungo le vie si schiudevano le finestre frettolosamente, da cui si sporgevano braccia nude, subito ritirate, e facce pallide di sonno, avvolte in vecchi scialli, in cuffie, in fazzoletti.
Nessuna delle tre sconsolate pensò di scendere dal letto. Rimasero con gli occhi aperti nel bujo, e a ciascuna passò innanzi alla mente la visione di quegli energumeni giù per la via, tra il fumo e le fiamme sanguigne delle torce a vento squassate, vestiti di bianco, in camicia e mutande, coi piedi scalzi, una fascia rossa alla vita, un fazzoletto giallo legato intorno al capo. Tant’altre volte, negli anni lieti, li avevano veduti.
Passata quella furia infernale, la strada ricadde nel silenzio notturno; ma si ravvivò poco dopo festivamente. Maria affondò la faccia nel guanciale e si mise a piangere in silenzio, angosciata dai ricordi.
S’intese il primo grido degli scalzi miracolati:
– Il Santo delle grazie, divoti!
Erano ragazzi, giovinotti, uomini maturi, che per miracolo dei santi Cosimo e Damiano (di cui il popolo faceva un santo solo in due persone) si ritenevano scampati da qualche pericolo o guariti da qualche infermità, e che, ogni anno, per voto, andavano in giro per il paese, in peduli, vestiti di bianco come i pescatori, e con un vassojo davanti sostenuto da una fascia di seta a tracolla. Sul vassojo erano immagini dei due Martiri, da uno, da due, da tre soldi e più.
– Il Santo delle grazie, divoti!
Salivano nelle case per vendere quelle immagini; ricevevano dalle famiglie, in adempimento dei voti, offerte d’uno o più ceri dorati, d’uno o più galletti infettucciati; offerte e quattrini recavano d’ora in ora alla Commissione dei festajoli nella chiesetta dei Santi.
Oltre ai ceri e ai galletti, offerte maggiori andavano a quella chiesa pompaticamente, a suon di tamburi: agnelli, pecore, montoni, anch’essi infettucciati, dal vello candido, pettinato, e frumentazioni su muli parati con ricche gualdrappe e variopinti festelli.
Nelle prime ore del mattino giunse Anna Veronica, vestita di nero, al solito, col lungo scialle da penitente. Bisognava adempiere al voto fatto durante la malattia di Marta: recare alla chiesa le due torce promesse e la tovaglietta ricamata.
E Marta doveva andare con lei. Nello scompiglio di quegli ultimi giorni, dopo la fuga di Paolo, ella non aveva pensato ad avvertirne Marta, la vigilia.
– Sù, sù, figliuola, fatti coraggio. A un voto non si può mancare.
Marta, tutta chiusa in sé, come avvolta in un silenzio tetro, le rispose subito, urtata:
– Non vengo… lasciami! Non vengo.
– Come! – esclamò Anna. – Che dici?
E guardò, ferita, Maria e l’amica.
– Avete ragione, sì, – rispose, scrollando il capo. – Ma chi può ajutarci?
Marta sorse in piedi.
– Debbo dimostrarmi grata per giunta, è vero? della grazia che ho ricevuto, guarendo…
– Ma è facile morire, figliuola mia, – sospirò Anna Veronica, socchiudendo gli occhi. – Se sei rimasta in vita, non ti par segno che Dio ti vuol viva per qualche cosa?
Marta non rispose; come se queste parole dell’amica, pronunciate con la consueta dolcezza, avessero risposto a un suo segreto sentimento, a un segreto proposito, corrugò le ciglia e s’avviò per la sua camera.
– Ti servirà anche di svago, – aggiunse Anna.
Giù per le vie era un gran fermento di popolo. Dalla marina, dai paeselli montani, da tutto il circondario, era affluita gente in numerose comitive, che ora procedevano a disagio, prese per mano per non smarrirsi, a schiere di cinque o sei: le donne, gaiamente parate, con lunghi scialli ricamati o con brevi mantelline di panno bianco, azzurro o nero, grandi fazzoletti a fiorami, di cotone o di seta, in capo e sul seno, grossi cerchi d’oro a gli orecchi e collane e spille a pendagli e a lagrimoni; gli uomini: contadini, solfaraj, marinaj, impacciati dai ruvidi abiti nuovi, dagli scarponi imbullettati.
Marta e Anna Veronica, che sotto lo scialle nascondeva le torce e la tovaglietta, tra la folla fluttuante, stordita, senza direzione, andavano quanto più sollecitamente potevano.
Giunsero alla fine nella piazza davanti alla chiesuola, rigurgitante di popolo. Il baccano era enorme, incessante; la confusione, indescrivibile. S’erano improvvisate tutt’intorno baracche con grandi lenzuola palpitanti: vi si vendevano giocattoli e frutta secche e dolciumi, gridati a squarciagola; andavano in giro i figurinaj con le imagini di gesso dipinte, rifacendo il verso degli scalzi miracolati; i frullonaj, tirando e allargando la cordicella del frullo; i gelataj coi loro carretti a mano parati di lampioncini variopinti e di bicchieri:
– Lo scialacuore! lo scialacuore!
E al gajo bando seguiva una distribuzione di scappellotti ai monelli più molesti, che attorniavano i carretti come un nugolo ostinato di mosche.
Contrastava con quel vario allegro berciare dei venditori la cantilena lamentosa opprimente d’una turba di mendicanti su gli scalini davanti al portone della chiesa, dove la gente accalcata faceva a gomitate per entrare. Marta e Anna Veronica si trovarono prese, quasi schiacciate tra quel pigia pigia e sospinte alla fine senza muover piede entro la chiesa buja, zeppa di curiosi e di di voti.
Deposto in mezzo alla navata centrale s’ergeva il fèrcolo enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse della disordinata bestiale processione. Sul fèrcolo, le statue dei due santi dalle teste di ferro, quasi identiche nell’atteggiamento, con le tuniche fino ai piedi e una palma in mano. In fondo, sotto un arco della navata, a sinistra, tra due colonne, attorno a un’ampia tavola, stava in gran faccende la Commissione dei festaioli, che riceveva dai divoti l’adempimento delle promesse: tabelle votive, in cui era rappresentato rozzamente il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d’altare, gambe, braccia, mammelle, piedi e mani di cera.
Tra i festaioli, quell’anno, era Antonio Pentàgora.
Per fortuna, Anna Veronica se n’accorse prima d’accostarsi alla tavola; ristette perplessa, confusa.
– Rimani qua un momentino, Marta. M’accosto io sola.
– Perché? – domandò Marta, che s’era fatta d’improvviso pallidissima; e aggiunse, con gli occhi bassi: – C’è Nicola in chiesa.
– È lì al banco, il padre, – disse Anna, sottovoce. – Meglio che tu stia qua. Mi sbrigo subito.
Niccolino non s’aspettava quell’incontro con Marta. Non la aveva più riveduta dalla vigilia della rottura col fratello. Restò come stralunato a mirarla; poi s’allontanò mogio mogio, si confuse tra la folla, vergognoso. Ne aveva avuto sempre una gran soggezione; aveva tanto desiderato d’esser voluto bene da lei come un fratello minore, cresciuto com’era senza madre, senza sorelle. Di tra quel rimescolìo di teste cercò di scorgerla da lontano, senza più farsi vedere: la scorse; rimase a contemplarla, a spiarla; poi, intrufolandosi tra la ressa, la seguì con gli occhi fino all’uscita della chiesa. Per un pezzo non potè più avere né occhi né orecchi per lo spettacolo della festa. Si ritrovò, senza saper come, in mezzo alla piazza stipata, soffocato tra la folla enormemente cresciuta, che aspettava ora l’uscita del fèrcolo dalla chiesa. Dalla calca dei corpi ammaccati si levavano tutt’intorno, su i colli tesi, le facce accaldate, congestionate, smanianti nell’oppressura il respiro; alcune con una espressione supplice, d’avvilimento, negli occhi, altre con una espressione feroce. Le campane in alto sonavano a distesa su quel fermento, e le campane delle altre chiese rispondevano in distanza.
A un tratto, tutta la folla si commosse, si sospinse premuta da mille forze contrarie, non badando agli urti, alle ammaccature, alla soffocazione, pur di vedere.
– Eccolo! Eccolo! Spunta!
Le donne singhiozzavano, molti imprecavano inferociti, divincolandosi rabbiosamente tra la calca che impediva loro di vedere; tutti vociavano in preda al delirio. E le campane rintoccavano, come impazzite dagli urli della folla.
Il fèrcolo irruppe a un tratto, violentemente, dal portone e s’arrestò di botto là, davanti alla chiesa. Allora il grido uscì frenetico da migliaja di gole:
– Viva San Cosimo e Damiano!
E migliaja, migliaia di braccia s’agitarono per aria, come se tutto il popolo si fosse levato in furore, a una mischia disperata.
– Largo! Largo! – si gridò da ogni parte, poco dopo. – La via al Santo! La via al Santo!
E davanti al fèrcolo, lungo la piazza, la gente cominciò a ritrarsi di qua e di là a stento, respinta con violenza dalle guardie, per aprire un solco. Si sapeva che i due Santi procedevano per via quasi di corsa, a tempesta: erano i Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie del colera, e dovevano correre perciò di qua e di là, continuamente. Quella corsa era tradizionale: senz’essa la festa avrebbe perduto tutto il brio e il carattere. Ciascuno però temeva di restarne schiacciato.
Squillò davanti alla chiesa stridulamente un campanello. Allora, tra le poderose stanghe della bara s’impegnò una zuffa tra i pescatori che dovevano caricarsela sulle spalle. A ogni tappa, lungo la via, si ripeteva quella zuffa, sedata a stento ogni volta dai festaioli che dirigevano la processione.
Cento teste sanguigne, scarmigliate, da energumeni, si cacciarono tra le stanghe della macchina, avanti e dietro. Era un groviglio di nerborute braccia nude, paonazze, tra camice strappate, facce grondanti sudore a rivi, tra mugolìi e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani nodose, ferocemente aggrappate al legno. E ciascuno di quei furibondi, sotto l’immane carico, invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile per amore dei Santi, tirava a sé la bara, e così le forze si escludevano, e i Santi andavano com’ebbri tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.
A ogni breve tappa, dopo una corsa, dai balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrcolo e su la folla, da canestri, da ceste, fette di pan nero, spugnoso. E, sotto, la folla s’azzuffava per ghermirle. Nel frattempo, i portatori imbottavano fiaschi di vino e s’ubriacavano, sebbene quasi tutto il vino tracannato, di lì a poco, se n’andasse in sudore.
A quando a quando il fèrcolo diventava d’una leggerezza portentosa: procedeva allora con slancio irresistibile, salterellando tra l’allegro schiamazzo della folla. Tal’altra, al contrario, diventava d’una pesantezza insopportabile: i Santi non volevano andare avanti, rinculavano improvvisamente: accadevano allora disgrazie; qualcuno tra la folla rimaneva pesto. Un momento di pànico; poi tutti, per rifarsi animo, gridavano: – Viva San Cosimo e Damiano! – dimenticavano e procedevano oltre. Ma più volte, giunti allo stesso punto di prima, ecco di nuovo il fèrcolo arrestarsi improvvisamente; tutti gli occhi allora si volgevano alle finestre, e la folla, minacciando, imprecando, costringeva coloro che vi erano affacciati a ritirarsi, poiché era segno che fra essi doveva esserci qualcuno che o non aveva adempiuto alla promessa o aveva fatto parlar male di sé e non era degno perciò di guardare i Santi.
Così il popolo in quel giorno si rendeva censore.
Stavano a un balcone, affacciate, Marta e Anna Veronica, tra la signora Agata e Maria. Antonio Pentàgora già da un pezzo aveva dato il segno ai portatori. Dapprima, le quattro povere donne non compresero la mossa dei Santi: li videro rinculare, ma non credettero che quella manovra si facesse per loro. Quando il fèrcolo pervenne di nuovo sotto il balcone e s’arrestò, tutta la folla levò gli occhi e le braccia contro di loro gridando, imprecando, esasperata per la sciagura d’un povero ragazzo tratto allora da terra, fracassato e sanguinante. Subito Marta e Anna Veronica si ritrassero dal balcone, seguite da Maria che piangeva; la signora Agata pallidissima, tutta vibrante di sdegno, chiuse così di furia le imposte, che un vetro andò in frantumi. Parve quest’atto un insulto alla folla fanatica: gli urli, gl’improperii salirono al cielo. E a quella tempesta imperversante sotto la loro casa tremavano le quattro povere donne a verga a verga, tenendosi strette l’una all’altra, rincantucciate; e nell’attesa angosciosa udirono contro la ringhiera di ferro del balcone battere una, due, tre volte, poderosamente, la testa d’uno dei Santi.
A ogni testata tremava la casa.
Poi la furia a poco a poco si quietò; successe nella strada un gran silenzio.
– Vili! vili! – diceva Marta a denti stretti, pallida, fremente. Anna Veronica piangeva con la faccia nascosta tra le mani. Maria s’appressò paurosamente al balcone e, attraverso il vetro, vide una bacchetta della ringhiera torta dalle ferree testate.
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