La Retorica, in somma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i modelli antichi , o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava Convenienza.
Parte Prima
I. La parola “Umorismo”
II. Questioni preliminari
III. Distinzioni sommarie
IV. L’umorismo e la retorica
V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca
VI. Umoristi italiani
Parte Seconda
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo
IV. L’umorismo e la retorica
Giacomo Barzellotti, nel suo volume Dal Rinascimento al Risorgimento [23], seguendo i concetti e il sistema del Taine e anche qualche idea espressa dal Bonghi nelle Lettere critiche, e da un saggio di etologia della nostra cultura, inteso a ricercare la mutua dipendenza tra le disposizioni morali e sociali, gli abiti della mente, gl’istinti di razza del nostro popolo e le sue abitudini a concepire e ad esprimere il bello, passando a studiare il problema storico della prosa nella Letteratura italiana, disse che uno dei pregiudizii nostri è «quello di presupporre che l’arte dello scrivere sia, solo o prima di tutto, un lavoro esterno di forma e di stile, mentre la forma stessa e lo stile, il cui studio è bensì essenziale allo scrivere sono avanti a tutto, un’opera intima di pensiero, vale a dire una cosa che si può ottener bene se si prenda immediatamente e come un fine in sé, una cosa a cui non si giunge se non muovendo da un’altra parte, cioè dal di dentro, dal pensiero, non dalla parola, dallo studio, dalla meditazione e dalla elaborazione profonda della materia, del soggetto e dell’idea».
[23] Palermo, R. Sandron ed., 1904.
Ora questo pregiudizio, come si sa, fu quello della Retorica, ch’era appunto una poetica intellettualistica, fondata tutta cioè su astrazioni, in base a un procedimento logico [24].
[24] «La retorica corrisponde alla logica» – aveva già detto Aristotile (Ret. lib. 1, c. 1).
L ’arte per essa era abito di operare secondo certi principii. E stabiliva secondo quali principii l’arte dovesse operare: principii universali, assoluti, come se l’opera d’arte fosse una conclusione da costruire al pari d’un ragionamento. Diceva: – «Così si è fatto; così si deve fare». – Raccolti, come in un museo, tanti modelli di bellezza immutabile, ne imponeva l’imitazione. Retorica e imitazione sono in fondo la stessa cosa.
E i danni che essa cagionò in ogni tempo alla letteratura sono senza dubbio come ognun sa, incalcolabili.
Fondata sul pregiudizio della così detta tradizione, insegnava ad imitare ciò che non si imita: lo stile, il carattere, la forma. Non intendeva che ogni forma dev’essere né antica né moderna, ma unica, quella cioè che è propria d’ogni singola opera d’arte e non può esser altra né di altre opere, e che perciò non può né deve esistere tradizione in arte.
Regolata com’era dalla ragione, vedeva da per tutto categorie e la letteratura come un casellario: per ogni casella, un cartellino. Tante categorie, tanti generi; e ogni genere aveva la sua forma prestabilita: quella e non altra.
È vero che tante volte, poi, s’accomodava; ma darsi per vinta non voleva mai. Quando un poeta ribelle appioppava un calcio bene scolpito al casellario e creava a suo modo una forma nuova, i retori gli abbajavano dietro per un pezzo: ma poi, alla fine, se quella forma riusciva a imporsi, essi se la prendevano, la smontavano come una macchinetta, la scioglievano in un rapporto logico, la catalogavano, magari aggiungendo una nuova casella al casellario. Così avvenne, ad esempio, per il dramma storico di quel gran barbaro dello Shakespeare. Si diede per vinta la Retorica? No: dopo avere abbajato per un pezzo, prescrisse le norme per il dramma storico, accolto nel casellario. Ma è anche vero che questi cani, quando s’abbattevano a un povero poeta indebolito di mente, ne facevano strazio e lo costringevano a tartassar la propria opera non condotta a puntino sul modello imposto alla imitazione forzata. Esempio: la Conquistata del Tasso.
La coltura, per la Retorica, non era la preparazione del terreno, la vanga, l’aratro, il sarchio, il concime, perché il germe fecondo, il polline vitale, che un’aura propizia, in un momento felice, doveva far cadere in quel terreno vi mettesse salde radici e vi trovasse abbondante nutrimento e si sviluppasse vigoroso e solido e sorgesse senza stento, alto e possente nel desiderio del sole. No: la coltura, per la Retorica, consisteva nel piantar pali e nel vestirli di frasche. Gli alberi antichi, custoditi nella sua serra, perdevano il loro verde, appassivano; e con le fronde morte, con le foglie ingiallite, coi fiori secchi essa insegnava a parar certi tronchi di idee senza radici nella vita.
Per la Retorica prima nasceva il pensiero, poi la forma. Il pensiero cioè non nasceva come Minerva armata dal cervello di Giove: nudo nasceva, poveretto; ed essa lo vestiva.
Il vestito era la forma.
La Retorica, in somma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, eran già belli e pronti, tagliati tutti su i modelli antichi , o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava Convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi.
– Vuoi essere un Idillio, tu? un Idillietto leggiadro e pettinato? Su, fammi sentire come sospiri: Ahi lasso! Oh, bravo. Hai letto Teocrito? hai letto Mosco? hai letto Bione? e di Virgilio le Bucoliche? Sì? Recita su, da bravo. Sei un pappagallino bene ammaestrato. Vieni qua.
Apriva la scansia, su la cui targa in cima si leggeva: Idillii, e ne traeva un grazioso abituccio di pastorello.
– E tu una Tragedia vorresti essere? Ma proprio proprio una Tragedia? È cosa ardua, bada! Devi essere a un tempo grave e lesta, cara mia. In ventiquattr’ore, tutto finito. E ferma, veh! Scegliti un luogo, e lì. Unità, unità, unità. Lo sai? Brava. Ma dimmi un po’: ti scorre sangue reale per le vene? E hai studiato Eschilo, Sofocle, Euripide? Anche il buon Seneca? Brava. Vuoi uccidere i figli come Medea? il marito come Clitennestra? la madre come Oreste? Tu vuoi uccidere un tiranno come Bruto; ho capito; vieni qua.
Così i pensieri facevan da manichini alla forma-vestiario. Cioè la forma non era propriamente forma, ma formazione: non nasceva, si faceva. E si faceva secondo norme prestabilite: si componeva esteriormente, come un oggetto. Era dunque artificio, non arte; copia, non creazione.
Ora si deve ad essa, senza dubbio, la scarsa intimità dello stile che si può notare in genere in tante opere della nostra letteratura; si deve ad essa se – per restringerci alla nostra indagine speciale – non pochi scrittori nostri che avrebbero avuto e anzi ebbero indubbiamente, come per tante testimonianze si può arguire, una spiccatissima disposizione all’umorismo, non riuscirono a manifestarla, a darle espressione, per rispettare appunto le leggi della composizione artistica.
L’umorismo, come vedremo, per il suo intimo, specioso, essenziale processo, inevitabilmente scompone, disordina, discorda; quando, comunemente, l’arte in genere, com’era insegnata dalla scuola, dalla retorica, era sopra tutto composizione esteriore, accordo logicamente ordinato [25].
[25 ] Il Croce, in una recensione su la prima edizione di questo mio saggio, nel VII volume di Critica, ha voluto credere ch’io, dicendo così, contrapponessi arte e umorismo e affermassi che umorismo è l’opposto dell’arte, perché questa compone e quello scompone. Veda il lettore intelligente se è lecito e giusto argomentare dalle mie parole una così recisa e assoluta contrapposizione o opposizione; se è lecito e giusto, dopo aver con molta leggerezza e senz’alcun fondamento argomentato così, aggiungere come fa il Croce: Ma, forse, la parola è andata di là dal pensiero del P., il quale non voleva già dire che l’umorismo non sia arte, ma piuttosto che sia un genere d’arte, che si distingue dagli altri generi d’arte o dal complesso di essi». Ritornerò su questo appunto più oltre quando tratterò della speciale attività della riflessione nella concezione dell’opera umoristica. Mi contenterò qui per ora di rispondere al Croce, ch’egli fa – non so se volutamente o no – una confusione tra i cosi detti «generi letterarii» come li intendeva la retorica, la cui eliminazione è da accettare, con quelle distinzioni, che non solo sono legittime, ma anche necessarie tra le varie espressioni, quando non si voglia confondere l’una con l’altra, abolendo ogni critica, per concludere filosoficamente che tutte sono arte e che ciascuna come arte non si può distinguere dalla restante arte. L’umorismo non è un «genere letterario», come poema, commedia, romanzo, novella, e via dicendo: tanto vero che ognuno di questi componimenti letterarii può essere o non essere umoristico. L’umorismo è qualità d’espressione, che non è possibile negare per il solo fatto che ogni espressione è arte e come arte non distinguibile dalla restante arte. La molta preparazione filosofica (la mia, si sa è pochissima) ha condotto il Croce a questa edificante conclusione. Si può sì parlare di questo o di quell’umorista; egli, filosoficamente, non ha nulla in contrario; ma guai a parlar dell’umorismo! Subito la filosofia del Croce diventa un formidabile cancello di ferro che è vano scrollare. Non si passa! Ma che c’è dietro quel cancello? Niente. Questa sola equazione: intuizione = espressione, e l’affermazione che è impossibile distinguere arte da non arte, l’intuizione artistica da intuizione comune. Ah, va bene! Non vi pare che si possa benissimo passar davanti a questo cancello chiuso, senza neanche voltarci a guardarlo?
E si può veder difatti che tanto quegli scrittori nostri che si sogliono chiamare umoristi, quanto quegli altri che sono veramente e propriamente tali, o son di popolo o popolareggianti, lontani cioè dalla scuola, o son ribelli alla Retorica, cioè alle leggi esterne della tradizionale educazione letteraria. Si può vedere, infine, che quando questa tradizionale educazione letteraria fu spezzata, quando il giogo della poetica intellettualistica del classicismo fu infranto dall’irrompere del sentimento e della volontà, che caratterizza il movimento romantico, quegli scrittori che avevano una natural disposizione all’umorismo la espressero nelle loro opere non per imitazione, ma spontaneamente.
Alessandro D’Ancona in quel suo studio su Cecco Angiolieri, da cui abbiamo preso le mosse, volle scorgere i caratteri del vero umorismo nella poesia di questo nostro bizzarro poeta del sec. XIII. Ora questo, no, veramente. L’esempio dell’Angiolieri può giovarci per chiarire quanto abbiamo detto or ora e non per altro. Io ho già dimostrato altrove [26] che i caratteri del vero umorismo mancano assolutamente all’Angiolieri, come gli mancano pur quelli ritenuti tali dal D’Ancona.
[26] Vedi il mio volume Arte e scienza ( Roma, W. Modes ed., 1908): I sonetti di Cecco Angiolieri.
La parola malinconia in Cecco, ad esempio, se non ha più il senso originario che aveva nel latino di Cicerone e di Plinio, è pur lontanissima dal significare quella delicata affezione o passion d’animo che intendiamo noi: malinconia per Cecco significa sempre non aver denari da scialacquare, non tener la Becchina a sua posta, aspettare invano che il padre vecchissimo e ricco si muoja
ed e’ morrà quando il mar sarà sicco
sì ll’à dio fatto per mio strazio sano!
Un certo verso che il D’Ancona chiama singhiozzante e che cita per ultimo a concludere che ogni sforzo che il poeta faccia per liberarsi della malinconia gli riesce inutile:
con gran malinconia sempre istò,
non ha affatto il carattere compendioso, né il valore espressivo che il D’Ancona gli vuole attribuire. Il contrasto, quel che par sorriso ed è dolore, in Cecco in somma non c’è mai. A provarlo, il D’Ancona cita anche qui due versi, staccandoli da tutto il resto e dando ad essi un valore espressivo che non hanno:
Però malinconia non prenderaggio
anzi m’allegrerò del mi’ tormento.
Segue in fatti a questi due versi una terzina, che non solo spiega l’apparente contrasto, ma lo distrugge affatto. Cecco non prenderà malinconia, anzi s’allegrerà del suo tormento, perché ha udito dire a un uomo saggio:
che ven un dì che val per più di cento.
E il dì sarà quello della morte del padre, che gli permetterà di far gavazze, come allude in un altro sonetto:
Sed i’ credesse vivar un dì solo
più di colui che mi fa vivar tristo,
assa’ di volte ringrazere’ Cristo…
Questo giorno ha pur da venire: bisognerà aspettarlo con pazienza, perché:
l’uom non può sua ventura prolungare
né far più brieve c’ordinato sia;
ond’ i’ mi credo tener questa via
di lasciar la natura lavorare
e di guardarmi, s’io ’l potrò fare
che non m’accolga più malinconia,
ch’ i’ posso dir che per la mia follia
i’ ò perduto assai buon sollazzare.
Anche che troppo tardi mi n’avveggio
non lascerò ch’i’ non prenda conforto,
c’a far d’un danno due sarebbe peggio.
Ond’i’ mi allegro e aspetto buon porto,
ta’ cose nascer ciascun giorno veggio,
che ’n dì di vita (mia) non m’isconforto.
Sul valore della parola malinconia, tante volte ripetuta da Cecco, non è possibile farsi, come il D’Ancona ha voluto farsi, alcuna illusione. Cecco non s’allegra mai veramente del suo tormento, sì lo riveste d’una forma arguta e vivace, la quale per me, spesso, più che per intenzione burlesca o satirica, proviene dalla sua natura paesana, ed è affatto popolare senese.
Tutto il popolo toscano, che meritamente si vanta il più arguto d’Italia, volendo anche oggidì narrare le sue sventure e le sue afflizioni, esprimere gli odii suoi e i suoi amori, manifestar lo sdegno o il rimprovero o un desiderio, non usa una forma diversa. In genere, colorir comicamente la frase è virtù nel popolo spontanea, nativa.
Il Belli, per esempio, non vuol tradurre in romanesco per Luigi Luciano Bonaparte il vangelo di San Matteo, perché la lingua della plebe è buffona e «appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso i sacri volumi» [27].
[27] Vedi Morandi, Prefazione ai sonetti romaneschi del Belli (Città di Castello, Lapi, vol. 1, 1889)
Qui abbiamo, in somma, l’ironia, cioè quella tal contradizione fittizia tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. Il contrasto non è nel sentimento, è solo verbale.
Dobbiamo, dunque, da un canto tener conto di questo generale umore del popolo, di questa lingua buffona della plebe, e dall’altro intender l’umorismo in quel senso largo e improprio, se vogliamo includere tra gli umoristi Cecco Angiolieri e non Cecco Angiolieri soltanto, allora, ma tutto quel gruppo dl poeti toscani non di scuola, ma di popolo, pieni di naturalezza nell’arte loro non ancora ben sicura, nel cui petto per prima si ridesta o di dolce voglia o per casi reali, per sentimenti veri, un’anima di canto umano, tra le insulse sconsolanti scimierie dei poeti per distrazione o per sollazzo o per moda o per galanteria, tra i bisticci pur che siano della scuola provenzaleggiante: di quei poeti in fine, ne’ cui versi, per dirla col Bartoli, è l’annunzio del carattere realistico che assumeranno le nostre lettere.
Son toscani, questi poeti, e in Toscana segnatamente troveremo queste espressioni così dette umoristiche in senso largo: in Toscana, e nella non scarsa letteratura nostra dialettale. Perché? Perché l’umorismo ha sopra tutto bisogno d’intimità di stile, la quale fu sempre da noi ostacolata dalla preoccupazione della forma, da tutte quelle questioni retoriche che si fecero sempre da noi intorno alla lingua. L’umorismo ha bisogno del più vivace, libero, spontaneo e immediato movimento della lingua, movimento che si può avere sol quando la forma a volta a volta si crea. Ora la retorica insegnava, non a crear la forma ma ad imitarla, a comporla esteriormente; insegnava a cercar la lingua fuori, come un oggetto, e naturalmente nessuno riusciva a trovarla se non nei libri, in quei libri che essa aveva imposti come modelli, come testi. Ma che movimento si poteva imprimere a questa lingua esteriore, fissata, mummificata, a questa forma non creata a volta a volta, ma imitata, studiata, composta?
Il movimento è nella lingua viva e nella forma che si crea. E l’umorismo che non può farne a meno, (sia nel senso largo, sia nel suo proprio senso) lo troveremo – ripeto – nelle espressioni dialettali, nella poesia macaronica e negli scrittori ribelli alla retorica.
C’è bisogno d’intendersi su questa creazione della forma, cioè su le relazioni tra la lingua e lo stile? Avvertiva acutamente lo Schleiermacher nelle sue Vorles. üb. Aesth. che l’ artista adopera strumenti che di lor natura non son fatti per l’individuale, ma per l’universale: tale il linguaggio. L’artista, il poeta, deve cavar dalla lingua l’individuale, cioè appunto lo stile. La lingua è conoscenza, è oggettivazione; lo stile è il subiettivarsi di questa oggettivazione. In questo senso è creazione di forma: è, cioè, la larva della parola in noi investita e animata dal nostro particolar sentimento e mossa da una nostra particolar volontà. Non dunque creazione ex nihilo. La fantasia non crea nel senso rigoroso della parola, non produce cioè forme genuinamente nuove. Se, in fatti, esaminiamo anche i rabeschi più capricciosi, i grotteschi più strani, i centauri, le sfingi, i mostri alati, vi troveremo sempre, più o meno alterate per le loro combinazioni, immagini rispondenti a sensazioni reali.
Ebbene, una forma, press’a poco, o meglio, in un certo senso corrispondente al grottesco nelle arti figurative troviamo nell’arte della parola, ed è appunto lo stil macaronico: creazione arbitraria, contaminazione mostruosa di diversi elementi del materiale conoscitivo.
E avvertiamo che esso sorse appunto come ribellione e come derisione, e che non fu solo che ebbe cioè a compagni altri linguaggi burleschi, fittizii. «Il dialetto sprezzato – notava Giovanni Zannoni, illustrando I precursori di Merlin Cocai [28] – volle insinuarsi malignamente nel latino per sfregiare la togata lingua dei dotti e quello che era stato un elemento parziale della satira popolare e goliardica divenne elemento massimo; volle mostrare la propria flessibilità, quando il volgare ancora accademico, grave, impacciato non poteva piegarsi a tutte le esigenze dell’umorismo, e ad un tratto formò una nuova maniera di sogghigno.
[28] Città di Castello, Lapi ed.; 1883.
In tal modo, da due cause contrarie ebbe origine il linguaggio macaronico che fu la più grossa e fragorosa risata del risorgimento, la beffa più atroce al classicismo e che, pure involontariamente, giovò tanto al definitivo trionfo del volgare.»
Ma quanti furono questi scrittori ribelli? pochi o molti? pochi ahimè, perché il maggior numero è sempre dei mediocri: servum pecus. Il Barzellotti riconosce che «un primo moto di originalità e di feconda spontaneità creatrice» si era fatto «nella mente e nella vita degli Italiani durante i secoli decimoterzo e decimoquarto»; ma poi dice «tutti o quasi tutti gli umanisti avere interrotto con l’imitazione e la ripetizione degli antichi quel primo moto d’originalità».
Ora questa a noi sembra un’altra di quelle considerazioni molto sommarie che abbiamo deplorato più su, considerazione che s’accorda con altre simili su la scettica indifferenza, ad esempio, su la pagana serenità, su la mortificazione delle energie individuali, su la mancanza d’aspirazioni, sul riposo nelle forme e nel senso, ecc., ecc., del nostro grande rinascimento, come se il culto dell’antichità non fosse stato già di per sé un’idealità grande, tanto grande che illuminò tutto il mondo, il riacquisto d’un patrimonio che si fece fruttare sapientemente e produsse opere immortali, e come se esso non fosse venuto anzi a tempo a riempire il vuoto d’idealità cadute o cadenti; come se insieme con quattro o cinque dotti aridi e vacui non ce ne fossero stati tant’altri pieni di vita e d’ardire, nel cui latino palpitano e vibrano le energie tutte della lingua italiana; come se per entro al Facetiarum libellus unicus di Poggio, per esempio, non spirassero aure nuove [29]; come se il Valla fosse soltanto autore del trattato Elegantiarum latinae linguae; come se nel Pontano e nel Poliziano e in tanti altri non fosse così intero e fresco il sentimento della realtà, che il Poliziano poi, componendo in volgare, poté aver tutte le grazie ingenue d’un poeta popolare.
[29] Quanti spunti di vero e proprio umorismo in Poggio! Basterà ricordare il patto di quel buon’uomo col cantastorie di piazza per differir la morte di Ettore, che tanto lo addolorava; la risposta di quel cardinal di Spagna ai soldati della Santa Sede:
«Ancora non ho fame»; la disperazione di quel bandito per la goccia di latte venutagli in gola durante la quaresima, ecc. ecc.
E sotto questo mondo dei dotti, così sommariamente considerato, non c’era forse il popolo? E si può dire, d’altro canto, che i nostri poeti cavallereschi, ad esempio, diedero solamente una maggior bellezza esteriore, una linea più composta, più armoniosa alla materia romanzesca, se da capo a fondo la ricrearono con la fantasia? Altro che bellezza esteriore!
Si è troppo ripetuto, e con troppa leggerezza, che nell’indole della nostra gente predomini l’intelletto più che il sentimento e la volontà, cioè la parte obiettiva più che la subiettiva dello spirito, donde il carattere dell’arte nostra più intellettualistica che sentimentale, più esteriore che interiore.
L’equivoco qui è fondato nell’ignoranza del procedimento di quell’attività creatrice dello spirito, che si chiama fantasia: ignoranza che era fondamentale nella Retorica. L’artista deve sentire la propria opera com’essa si sente e volerla com’essa si vuole. Avere un fine e una volontà esteriori, vuol dire uscire dall’arte.
E ne escono difatti quanti s’ostinano a ripetere che l’arte nostra del rinascimento fu splendida di fuori e vuota di dentro. Vuota in che senso? Nel senso che non ebbe volontà e fini oltre a sé stessa? Ma questo fu un pregio e non un difetto. O se no, bisognerebbe dimostrare che fu arte falsa, cioè artificio. Si può dimostrar questo? Sì, certamente, se prendiamo i mediocri, gli schiavi della retorica, la quale insegnava appunto l’artificio, la copia! Ma perchè dobbiamo prendere i mediocri? perché dobbiam guardare cosi taineamente all’ingrosso, senza distinguere? Arte falsa, quella dell’Ariosto?
Buttando via in un fascio i mediocri, e affrontando i veri poeti, ci accorgeremo subito di fare una questione di contenuto e non di forma, una questione dunque estranea all’arte. Ma questo stesso contenuto, che fa tanto dispetto, come fu assunto dai poeti veri, da coloro che ebbero innegabilmente uno stile, e dunque originalità e intimità? Non c’è proprio nulla che riempia il vuoto che ci si vuol sentire? Non c’è l’ironia di questi poeti? E perché non si vuol riconoscere il valore positivo, sottinteso, di questa ironia? Itali rident, sì, ma con questo riso si cacciò il Medio Evo; e quanto fiele sotto a questo riso! E che ha di diverso questo riso in Erasmo di Rotterdam, in Ulrico di Hutten? Perché si disconosce soltanto nei nostri questo valore positivo dell’ironia e si riconosce invece negli stranieri? si disconosce in Pulci e nel Folengo per esempio, e si riconosce in Rabelais? Forse perché questi ebbe l’accortezza d’invitare i lettori a imitare il cane innanzi all’osso e quegli altri no? «…Vites-vous oncques chiens rencontrans quelque os méduilaire? C’est, comme Platon dit (lib. Il De Rep.), la bête du monde plus philosophe. Si vû l’avez, vous avez pû noter de quelle dévotion il le guette, de quel soin il le garde, de quelle ferveur il le tient, de quelle prudence il l’entomme, de quelle affection il le bris et de quelle diligence il le succe. Qui l’induit à ce faire? Quel est l’espoir de son étude? Quel bien prétend-il? Rien plus sinon qu’un peu de moüelle.»
E l’osso gettato dal Rabelais ai critici è stato difatti spiato con devozione, preso con cura, tenuto con fervore, scalfito con prudenza, spezzato con affetto e succhiato con diligenza. E perché non così quelli del Pulci e del Folengo? [30]
[30] Vedi sul Pulci il libro di Attilio Momigliano L’indole e il riso di L.P. (Rocca S. Casciano, Cappelli, 1907), da cui però in gran parte io dissento, come dirò appresso; e quel che dicono del Folengo il De Sanctis nella sua Storia d. lett. ital., cap. XIV, il Canello nel suo Cinquecento e gli studii dello Zumbini e dello Zannoni.
Ma ogni qual volta si butta un osso a un critico si deve dunque dire: – Bada, c’è dentro il midollo? – o far che questo midollo si mostri un tantino da qualche parte fuori dell’osso? Ma tanto più pregevole è un’opera d’arte, quanto maggiore è l’assorbimento della volontà e del fine nella creazione artistica. Questo maggiore assorbimento rischia di parere indifferenza verso gli ideali della vita a chi consideri le opere con criterii estranei all’arte, e le opere d’arte superficialmente; ma – a prescindere che gl’ideali della vita, per sé stessi, non hanno nulla da vedere con l’arte, che dev’essere creazione spontanea e indipendente – pure quell’indifferenza, in fondo non c’è, perché altrimenti non ci sarebbe neppur l’ironia. Se l’ironia c’è, ed è innegabile, non c’è l’indifferenza, di cui tanto s’è parlato.
Piuttosto deve dirsi che questa ironia non riesce se non di rado a drammatizzarsi comicamente, come avviene nei veri umoristi: resta quasi sempre comica senza dramma, e dunque facezia, burla, caricatura più o men grottesca. Lo stesso però avviene in Rabelais:
Mieulx est de ris que des larmes escripre:
Pour ce que rire est le propre de l’homme.
E Alcofribas Nasier è condamné en Sorbonne pour les facétiès de haute graisse qui caractérisent son livre. Che hanno di più o di diverso queste facéties de haute graisse di quelle del Pulci e del Folengo e del Berni? Rileggiamo con questo intento il Morgante Maggiore e ilBaldus e poi La vie de Gargantua e Les faits et les dits héroïques du bon Pantagruel roi des Dipsodes, e ci salteranno agli occhi a ogni passo la parentela spirituale innegabile, le innegabili derivazioni.
E rileggiamo il Berni. Lasciando anche da parte le 18 stanze al principio del canto xx del Rifacimento dell’Orlando Innamorato e l’opuscolo del Vergerio sul protestantesimo del Berni e tutte le altre riflessioni filosofiche, sociali e politiche sparse qua e là nel Rifacimento stesso, lasciando da parte il Dialogo contro i poeti e le parodie del Petrarca in derisione dei petrarchisti, e l’invettiva famosa: Nel tempo che fu fatto papa Adriano VI e i sonetti contro Clemente VII:
Il papa non fa altro che mangiare,
Il papa non fa altro che dormire;
e tutti gli altri sonetti contro a preti e abati, e anche quel sonetto che comincia:
Poiché da voi, signor, m’è pur vietato
Che dir le vere mie ragion non possa,
Per consumarmi le midolle e l’ossa
Con questo nuovo strazio e non usato [31];
[31] Si legga a questo proposito quel che dice il Graf nel suo aureo libro Attraverso il Cinquecento su le condizioni del letterato nel sec. XVI.
e lasciando anche da parte il capitolo in lode d’Aristotile (che non affetta il favellar toscano) dedicato a Messer Pietro Buffetto cuoco, spigoliamo proprio in quei capitoli che pajono i più frivoli e spigoliamo nelle lettere del Berni. A Messer Latino Juvenale scrive: «Ecco il Valerio mi riprende, e dice ch’io farei bene a lasciare andar queste baje e a rivolgere i miei pensieri a miglior parte; che maledetto sia egli, e chi sente talmente seco. Che penitenza è la mia, a dare ad intendere al mondo che questo si debba piuttosto imputare alla mia disgrazia che ad alcuna elezione? Io non ho comprato a contanti questo tormento, né me lo sono andato cercando a posta per far rider la gente del fatto mio: che non se ne ridon però se non gli scempi». E a Monsignor Cornaro scrive: «Ma che la natura e la fortuna mi ha fatto tale, dico, asciutto di parole e poco cerimonioso, e per ristoro intrigato in servitù». In un’altra lettera confessa: «Io, spinto dalla furia del dolore, sono ricorso al rimedio della poesia». Egli si governa, come dice in una poesia, a volte di cervello, e a Messer Agnolo Divizio scrive: «conciossiaché alla giornata io operi e faccia tutte le mie azioni. Che si cava di questo mondo finalmente altro che ’l contentarsi o almeno cercare di contentarsi».
Ciascun faccia secondo il suo cervello
Che non siam tutti d’una fantasia.
E a Giovan Francesco Bini: «Nondimeno ancora io sono stoico come voi, e lascio correre alla ’ngiù l’acqua di questo fiume». In mezzo alla peste, allo stesso Divizio suo padrone, che andava fuggendo di qua e di là per paura, scrive: «Se ben son uomo, e come uomo tengo conto della vita, ho anche tanta grazia da Dio, che a luogo e tempo so non ne tener conto; ch’è anche cosa da uomo. Sicché non mi dite pauroso, ché io sono piuttosto degno di esser chiamato temerario». E come uno stoico veramente fu in mezzo alla peste, ne vinse il terrore e riuscì ad acquistarne quel sentimento che vedremo essere fondamentale dell’umorismo, cioè il sentimento del contrario: l’ironia, nei due capitoli in lode della peste, riesce a drammatizzarsi comicamente, e però va oltre alla facezia, oltre alla burla, oltre al comico. Nel flagello vede, come vedrà poi don Abbondio, la scopa, ma con ben altre riflessioni filosofiche.
Non fu mai malattia senza ricetta
La natura l’ha fatte tutt’e due,
Ella imbratta le cose, ella le netta.
E la natura, dopo aver trovato il bujo e le candele e aver fatto gli orecchi e le campane,
Trovò la peste perché bisognava;
bisognava, perché:
… a questo corpaccio del mondo
Che per esser maggior più feccia mena,
Bisogna spesso risciacquare il fondo.
E la natura che si sente piena
Piglia una medicina di moria.
Ma la natura ha anche «forte del buffone» e il Berni sa bene avvertirne tutti i contrasti amari e le aspre dissonanze e riderne, rappresentandoli. In una lettera in versi al pittore Sebastiano del Piombo, parlando anche di Michelangelo, comune amico, dice:
Ad ogni modo è disonesto a dire
che voi che fate i legni e i sassi vivi,
Abbiate poi com’asini a morire.
Basta che vivon le querci e gli olivi,
I sorbi, le cornacchie, i cervi e i cani,
E mille animalacci più cattivi.
Ma questi son ragionamenti vani,
Però lasciamli andar, ché non si dica
Che noi siam mammalucchi o luterani.
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IV. L’umorismo e la retorica
V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca
VI. Umoristi italiani
Parte Seconda
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo
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