L’Umorismo – Parte Prima – Capitolo 3 – Distinzioni sommarie

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Si è troppo abusato d’una osservazione, al solito sommaria, fatta da coloro che han studiato con soverchio amore delle cose altrui le relazioni tra le letterature straniere e la nostra: la osservazione cioè che gli scrittori nostri abbiano dato sempre a tutto ciò che han tolto dagli stranieri una così detta maggiore bellezza esteriore, una linea più composta e più armoniosa; e che gli stranieri, invece, abbiano dato a tutto ciò che han tolto dagli scrittori nostri una maggiore bellezza interiore, un carattere più intimo e profondo.

Indice Saggi e Discorsi

L Umorismo - Parte Prima - Capitolo 3

Introduzione

Parte Prima
I. La parola “Umorismo”
II. Questioni preliminari
III. Distinzioni sommarie
IV. L’umorismo e la retorica
V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca
VI. Umoristi italiani

Parte Seconda
Essenza, caratteri e materia dell’umorismo

III. Distinzioni sommarie

Nel Cap. VIII del libro Notes sur l’Angleterre il Taine, com’è noto, si provò a comparare l’esprit francese e quello inglese. «Non deve dirsi che essi (gl’Inglesi) non abbiano spirito, – scrisse il Taine; – ne hanno uno per conto loro, in verità poco gradevole, ma affatto originale, di sapor forte e pungente e anche un po’ amaro, come le lor bevande nazionali. Lo chiamano humour; e, in generale, è la facezia di chi, scherzando, serba un’aria grave. Questa facezia abbonda negli scritti di Swift, di Fielding, di Sterne, di Dickens, di Thackeray, di Sydney Smith; sotto quest’aspetto, il Libro degli snobs e le Lettere di Peter Plymley son capolavori. Se ne trova anche molto, della qualità più indigena e più aspra, in Carlyle. Essa confina ora con la caricatura buffonesca, ora col sarcasmo meditato; scuote rudemente i nervi, o s’affonda e prende stanza nella memoria.

È un’opera dell’immaginazione stramba o dell’indignazione concentrata. Si piace nei contrasti stridenti, nei travestimenti impreveduti. Para la follìa con gli abiti della ragione o la ragione con gli abiti della follìa. Arrigo Heine Aristofane, Rabelais e talvolta Montesquieu, fuori dell’Inghilterra, sono quelli che ne hanno in più larga dose. Ma pur si deve in questi tre ultimi sottrarre un elemento straniero, la estrosità francese, la gioja, la gajezza, quella specie di buon vino che non si vendemmia se non nei paesi del sole. Nello stato insulare e puro, essa lascia sempre, in fine, un sapor di aceto.

     Chi scherza così è di raro benevolo e non è mai lieto, sente e tradisce fortemente le dissonanze della vita. E non ne gode; in fondo anzi ne soffre e se ne irrita. Per studiar minuziosamente un grottesco, per prolungar freddamente un’ironia, bisogna avere un sentimento continuo di tristezza e di collera. I saggi perfetti del genere si devono cercare nei grandi scrittori, ma il genere è talmente indigeno che si trova ogni giorno nella conversazione ordinaria, nella letteratura, nelle discussioni politiche, ed è la moneta corrente del Punch

     La citazione è un po’ troppo… lunga; ma opportuna per chiarir parecchie cose.

     Il Taine riesce a coglier bene la differenza generale tra la plaisanterie inglese e la francese, o meglio, il diverso umore dei due popoli. Ogni popolo ha il suo, con caratteri di distinzione sommaria. Ma, al solito, non bisogna andare tropp’oltre, non bisogna cioè prender questa distinzione sommaria come solido fondamento nel trattare d’un’espressione d’arte specialissima come la nostra.

     Che diremmo di uno il quale dal sommario accertamento che vi son certi tratti fisionomici comuni per cui, così all’ingrosso, distinguiamo un Inglese da uno Spagnuolo, un Tedesco da un Italiano, ecc., traesse la conseguenza che tutti quanti gl’Inglesi, per esempio, hanno gli stessi occhi, lo stesso naso, la stessa bocca?

     Per intender bene quanto sia sommario questo modo di distinguere, chiudiamoci per un momento nei confini del nostro paese. Noi tutti, d’una data nazione, possiamo notar facilmente come e quanto la fisionomia dell’uno sia diversa da quella d’un altro. Ma questa osservazione, ovvia, facilissima per noi, riesce invece difficilissima a uno straniero, per il quale noi tutti avremo uno stesso aspetto generale.

     Pensiamo a un gran bosco dove fossero parecchie famiglie di piante: querci, aceri, faggi, platani, pini, ecc. Sommariamente, a prima vista, noi distingueremo le varie famiglie dall’altezza del fusto, dalla diversa gradazione del verde, in somma dalla configurazione generale di ciascuna. Ma dobbiamo poi pensare che in ognuna di queste famiglie non solo un albero è diverso dall’altro, un tronco dall’altro, un ramo dall’altro, una fronda dall’altra, ma che, fra tutta quella incommensurabile moltitudine di foglie, non ve ne sono due, due sole, identiche tra loro.

     Ora, se si trattasse di giudicare di un’opera d’immaginazione collettiva, come sarebbe appunto un’epopea genuina, sorta viva e possente dalle leggende tradizionali primitive d’un popolo, ci potremmo in certa guisa contentare di quella sommaria distinzione. Non possiamo contentarcene più invece nel giudicar di opere che siano creazioni individuali, segnatamente poi se umoristiche.

     Colto astrattamente il tipo dell’umore inglese, il Taine mette prima in un fascio Swift e Fielding e Sterne e Dickens e Thackeray e Sidney Smith e Carlyle, e vi accozza poi Heine, Aristofane, Rabelais, Montesquieu. Bel fascio! Dall’umorismo inteso nel senso più largo, come carattere comune, tipico modo di ridere di questo o di quel popolo, saltiamo a piè pari a considerar le singole e specialissime espressioni d’un umorismo, che non è più possibile intendere in quel senso largo, se non a patto di rinunziare assolutamente alla critica: dico a quella critica che indaga e scopre tutte le singole differenze caratteristiche per cui l’espressione, e dunque l’arte, il modo d’essere, lo stile d’uno scrittore si distingue da quello dell’altro: lo Swift dal Fielding, lo Sterne dallo Swift e dal Fielding, il Dickens dallo Swift e dal Fielding e dallo Sterne e cosi via.

     Le relazioni che questi scrittori umoristici inglesi possono avere con l’umore nazionale sono affatto secondarie e superficiali come quelle che essi possono aver fra loro, e non hanno per la valutazione estetica alcuna importanza.

     Quel che di comune possono aver tra loro questi scrittori non deriva dalla qualità dell’umore nazionale inglese, ma dal solo fatto ch’essi sono umoristi, ciascuno sì a suo modo, ma umoristi tutti veramente, scrittori cioè nei quali avviene quello speciale processo intimo e caratteristico da cui risulta l’espressione umoristica. E soltanto per questo, non Arrigo Heine e il Rabelais e il Montesquieu e basta, ma tutti i veri scrittori umoristici d’ogni tempo e d’ogni nazione possono andare a schiera con quelli. Non però Aristofane, nel quale quel processo non avviene affatto. In Aristofane non abbiamo veramente il contrasto, ma soltanto l’opposizione. Egli non è mai tenuto tra il sì e il no; egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no, testardamente, contro ogni novità, cioè contro la retorica, che crea demagoghi, contro la musica nuova, che, cangiando i modi antichi e consacrati, rimuove le basi dell’educazione e dello Stato, contro la tragedia d’Euripide, che snerva i caratteri e corrompe i costumi, contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti indocili e atei, ecc. Alcune sue commedie son come le favole che scriverebbe la volpe, in risposta a quelle che hanno scritto gli uomini calunniando le bestie.

Gli uomini in esse ragionano e agiscono con la logica delle bestie mentre nelle favole le bestie ragionano e agiscono con la logica degli uomini. Sono allegorie in un dramma fantastico, nel quale la burla è satira iperbolica, spietata [16].

 [16]  Vedi Jacques Denis, La comédie grecque, vol. l, chap. VI, Paris, Hachette et Cie, 1886, e la bella e dotta prefazione di Ettore Romagnoli alla sua impareggiabile traduzione delle commedie di A. (Torino, Bocca, 1908).

Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è mai dunque il mondo della fantasia pura. Nessuno studio della verosimiglianza: egli non se ne cura perché si riferisce di continuo a cose e a persone vere: astrae iperbolicamente dalla realtà contingente e non crea una realtà fantastica, come, ad esempio, lo Swift. Umorista non è Aristofane, ma Socrate, come acutamente osserva Teodoro Lipps [17].

 [17] Theodor Lipps, Komik und Humor, «eine psychologisch-ästhetische Untersuchung» (Hamburg u. Leipzig, Voss, 1898).

Socrate che assiste alla rappresentazione delle Nuvole e ride con gli altri della derisione che fa di lui il poeta, Socrate che «versteht den Standpunkt des Volksbewusstseins zu dessen Vertreter sich Aristophanes gemacht hat, und sieht darin etwas reiativ Gutes und Vernünftiges. Er anerkennt eben damit das relative Recht derer, die seinen Kampf gegen das Volksbewusstsein verlachen. Damit erst wird sein Lachen zum Mitlachen. Andererseits lacht er doch uber die Lacher. Er thut es und kann es thun, weil er des höheren Rechtes und notwendigen Sieges seiner Anschauungen gewiss ist. Eben dieses Bewusstsein leuchtet durch sein Lachen, und lässt es in seiner Thorheit logisch berechtigt, in seiner Nichtigkeit sittlich erhaben erscheinen» [18].

 [18]  [«capisce il punto di vista della coscienza popolare, della quale Aristofane si è fatto portavoce, e vi scorge qualcosa di relativamente buono e sensato. Egli riconosce infatti il relativo diritto di coloro i quali ridicolizzano la sua battaglia contro la coscienza popolare. Con ciò il suo riso diviene in primo luogo riso collettivo. D’altronde ride di coloro che ridono. Lo fa e può farlo, poiché è sicuro di un più alto diritto e dell’importante conquista delle sue idee. Proprio questa coscienza brilla attraverso il suo riso e lo fa apparire, nella sua pazzia, logicamente fondato, nella sua futilità, moralmente elevato».]

Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane, dunque, se mai, può esser considerato umorista soltanto se intendiamo l’umorismo nell’altro senso molto più largo, e per noi improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira, la caricatura, tutto il comico in somma nelle sue varie espressioni. Ma in questo senso anche tanti e tant’altri scrittori faceti, burleschi, grotteschi, satirici, comici d’ogni tempo e d’ogni nazione dovrebbero esser considerati umoristi.

     L’errore è sempre quello: della distinzione sommaria.

     Sono innegabili le diverse qualità delle varie razze, è innegabile che la plaisanterie francese non è l’inglese come non è l’italiana, la spagnuola, la tedesca, la russa, e via dicendo; innegabile che ogni popolo ha un suo proprio umore; l’errore comincia quando quest’umore, naturalmente mutabile nelle sue manifestazioni secondo i momenti e gli ambienti, è considerato, come comunemente il volgo suol fare, quale umorismo; oppure quando per considerazioni esteriori e sommarie si afferma sostanzialmente diverso negli antichi e nei moderni; e quando in fine, per il solo fatto che gl’Inglesi chiamarono humour questo loro umore nazionale, mentre gli altri popoli lo chiamarono altrimenti, si viene a dire che soltanto gl’Inglesi hanno il vero e proprio umorismo.

     Abbiamo già veduto che, molto prima che quel gruppo di scrittori inglesi del sec. XVIII si chiamasse degli umoristi [19], in Italia avevamo avuto e umidi e umorosi e umoristi.

 [19]  Vedi su essi le sei letture del Thackeray, The english Humourists of the eighteenth Century (Leipzig, Tauchnitz, 1853). Sono: Swift, Congreve, Addison, Steele, Prior, Gay, Pope, Hogarth, Smollett, Fielding, Sterne, Goldsmith.

Questo, se si vuol discutere sul nome . Se si vuol poi discutere intorno alla cosa, è da osservare innanzi tutto che, intendendo in questo senso largo l’umorismo, tanti e tanti scrittori che noi chiamiamo burleschi o ironici o satirici o comici ecc., sarebbero chiamati umoristi dagli Inglesi, i quali sentirebbero in essi quel tal sapore che noi sentiamo nei loro scrittori e non sentiamo più nei nostri per quella particolarissima ragione, che con molto accorgimento fu messa in chiaro dal Pascoli.

 «C’è, – disse il Pascoli, – in ogni lingua e letteratura un quid speciale e intraducibile, che pochi sanno percepire nella lingua e letteratura lor propria e avvertono, invece, senza difficoltà nelle altrui. Ogni lingua straniera, pur da noi non intesa, vi suona all’orecchio più, dirò, mirabilmente, che la vostra. Un racconto, una poesia, esotici, vi sembrano più belli, anche se mediocri, di molte belle cose nostrane; e tanto più, quanto più conservano di quell’essenza nazionale. Ora non crediate che la vostra lingua e letteratura non abbiano a fare il medesimo effetto negli altri che quelle altre in noi!»

     Una prova di questo fatto si può avere in ciò che W. Roscoe scrisse nel cap. XVI, par. 12, della sua opera Vita e pontificato di Leon x, a proposito del Berni. Il Roscoe, inglese, e che perciò di quel che comunemente nel suo paese s’intende per humour doveva aver coscienza scrisse che le facili composizioni del Berni e del Bini e del Mauro, ecc. «non è improbabile che abbiano aperta la strada ad una simile eccentricità di stile in altri paesi» e che «in verità può concepirsi l’idea più caratteristica degli scritti del Berni e dei compagni e seguaci di lui col considerare esser quelli in versi facili e vivaci la stessa cosa, che sono le opere in prosa di Rabelais, di Cervantes e di Sterne».

         E non ci dà Antonio Panizzi, che lungamente visse in Inghilterra e degli scrittori nostri scrisse in inglese, una definizione dello stile del Berni, che risponde in gran parte a quella che il Nencioni poi volle dare dell’umorismo?

«I precipui elementi dello stile del Berni – dice il Panizzi – sono: l’ingegno che non trova somiglianza tra oggetti distanti e la rapidità onde subitamente connette le idee più remote; il modo solenne onde allude ad avvenimenti ridicoli e profferisce un’assurdità; l’aria d’innocenza e d’ingenuità con che fa osservazioni piene d’accorgimento e conoscenza del mondo, la peculiar bonarietà con che sembra riguardare con indulgenza… gli errori e le malvagità umane [20];  la sottile ironia che egli adopera con tanta apparenza di semplicità e d’avversione all’acerbezza; la singolare schiettezza con che pare desideroso di scusare uomini e opere nello stesso momento che è tutto inteso a farne strazio.»

 [20]  Nencioni definisce l’umorismo «una naturale disposizione del cuore e della mente a osservare con simpatica indulgenza le contradizioni e le assurdità della vita».

 A ogni modo, è certo che il Roscoe sentiva nel Berni e negli altri nostri poeti bajoni lo stesso sapore che sentiva negli scrittori suoi connazionali dotati di humour.

     E non lo sentiva forse il Byron nel nostro Pulci, di cui tradusse finanche il primo canto delMorgante? E lo stesso Sterne non lo sentiva finanche nel nostro Gian Carlo Passeroni (Passeroni dabben, come lo chiamava il Parini), quel buon prete nizzardo che nel canto XVII, parte III del suo Cicerone ci fa sapere (str. 122a):

E già mi disse un chiaro letterato
Inglese, che da questa mia stampita<
Il disegno, il modello avea cavato
Di scrivere in più tomi la sua vita [21]
E pien di gratitudine e d’amore
Mi chiamava suo duce e precettore.

 [21] Allude alla Vita e opinioni di Tristram Shandy.

     E, d’altro canto, non risente proprio per nulla degli scrittori francesi del grand siècle e anche di altri che non appartengono a questo, quel gruppo di umoristi inglesi di cui abbiamo or ora fatto parola?    Il Voltaire, parlando dello Swift nelle sue Lettres sur les Anglais dice: «Mr. Swift est Rabelais dans son bon sens et vivant en bonne compagnie. Il n’a pas, à la verité, la gaîté du premier, mais il a toute la finesse, la raison, le choix, le bon gout qui manquent à notre curé de Meudon [22]. Ses vers sont d’un gout singulier et presque inimitable; la bonne plaisanterie est son partage en vers et en prose; mais pour le bien entendre, il faut faire un petit voyage dans son pays».

 [22]  Come suonano curiose queste lodi a uno scrittore inglese raffrontato con uno scrittore francese dopo aver letto nel Taine la pagina su l’esprit francese e su l’inglese!

     Dans son pays, va bene; ma c’è anche chi vuol dire che bisognerebbe far pure un piccolo viaggio alla luna in compagnia di Cyrano de Bergerac.

     E chi metterà in dubbio l’azione del Voltaire e del Boileau sul Pope? E ricorderemo che il Lessing, accusando il Gottsched nelle sue Lettere su la letteratura moderna, dice che meglio sarebbe convenuta al gusto e al costume tedesco l’imitazione degli Inglesi, di Shakespeare, di Jonson, di Beaumont e Fletcher, anzi che quella dell’infranciosato Addison.

     Ma una prova anche più chiara si può cavar dal fatto che, mentre nessuno di quelli che da noi si sono occupati di umorismo e, per un pregiudizio snobistico, lo hanno veduto soltanto in Inghilterra, si è mai sognato dl chiamare umorista il Boccaccio per quelle molte sue novelle che ridono, umorista e anzi il primo degli umoristi è ritenuto invece in Inghilterra pe’ suoi Canterbury-Tales il Chaucer.

     Han voluto vedere nel poeta inglese, non – com’era giusto – il quid speciale della diversa lingua, un altro stile; ma, nello stile, una maggiore intimità, e dimostrar questa maggiore intimità innanzi tutto nell’ingegnoso pretesto delle novelle (il pellegrinaggio a Canterbury), nei ritratti dei pellegrini novellatori, segnatamente di quella indimenticabile, graziosissima Prioressa, Suor Eglantina, e di sir Thopas e della donna di Bath, poi nella rispondenza delle novelle ai caratteri di chi le racconta, o meglio, nel modo con cui le varie novelle, che il Chaucer non inventa, prendono colore e qualità dai pellegrini.

     Ma questa che vuol parere un’osservazione profonda, è, invece, superficialissima, perché si arresta soltanto alla cornice del quadro. La magnifica opulenza dello stile boccaccesco, la copia e l’appariscenza della forma si possono forse da un canto considerare come esteriori e implicano forse dall’altro scarsezza d’intimità psicologica? Esaminiamo, sotto questo aspetto, a una a una le novelle, i caratteri dei singoli personaggi, lo svolgimento delle passioni, la dipintura minuta, spiccata, evidente della realtà, che sottintende una sottilissima analisi, una conoscenza profonda del cuore umano, e vedremo se il Boccaccio, segnatamente nell’arte di render verosimili certe avventure troppo strane, non supera di gran lunga il Chaucer.

     Si è troppo abusato d’una osservazione, al solito sommaria, fatta da coloro che han studiato con soverchio amore delle cose altrui le relazioni tra le letterature straniere e la nostra: la osservazione cioè che gli scrittori nostri abbiano dato sempre a tutto ciò che han tolto dagli stranieri una così detta maggiore bellezza esteriore, una linea più composta e più armoniosa; e che gli stranieri, invece, abbiano dato a tutto ciò che han tolto dagli scrittori nostri una maggiore bellezza interiore, un carattere più intimo e profondo.

     Ora questo, se mai, può valere per certi scrittori nostri mediocri, da cui qualche sommo scrittore straniero abbia tolto questo o quell’argomento: può valere ad esempio per certi novellieri nostri, da cui lo Shakespeare cavò la favola per alcuni suoi drammi possenti. Non può valere per il Boccaccio e per il Chaucer. Bisogna invece considerare, in questo caso, che cosa uno scheletrico fabliau francese (ammesso che il Chaucer non abbia preso nulla direttamente dal Boccaccio) sia diventato nelle novelle dell’uno e dell’altro.

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III. Distinzioni sommarie
IV. L’umorismo e la retorica
V. L’ironia comica nella poesia cavalleresca
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