Di Sonia Gentili.
Non deve sembrare incongruo riattraversare oggi la produzione di Luigi Pirandello, autore ben digerito dai manuali scolastici e tuttavia sfuggente alle canonizzazioni per il suo posizionamento rispetto alla nostra tradizione letteraria, partendo dalle severe indicazioni che l’autore vergò su un foglietto in merito alle proprie esequie.
L’insostenibile spinta del destino
da “Il Manifesto” – 14 luglio 2017
«Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».
Non deve sembrare incongruo riattraversare oggi la produzione di Luigi Pirandello, autore ben digerito dai manuali scolastici e tuttavia sfuggente alle canonizzazioni per il suo posizionamento rispetto alla nostra tradizione letteraria, partendo dalle severe indicazioni che l’autore vergò su un foglietto in merito alle proprie esequie. La volontà di essere avvolto nudo in un lenzuolo va letta naturalmente come rifiuto di indossare la maschera anche al cospetto della morte: l’attinenza di questa scelta finale con la visione del mondo dell’autore che fece delle Maschere nude il paradosso identitario su cui incardinare il proprio teatro e la propria concezione dell’io è evidente.
IL VERO DRAMMA della scena e della narrazione pirandelliana non è però di ordine rappresentativo – la cosiddetta destrutturazione dell’io, con le ovvie connessioni al contesto europeo, surrealista, cubista, psicanalitico ecc. – bensì di tipo epistemico, poiché la nudità, cioè la dimensione di verità dell’io, coincide con la negazione della sua conoscibilità. A questa aporia di fondo, che separa non tanto il vestito da chi lo indossa, quanto la conoscibilità dell’abito dall’inconoscibilità di colui che lo porta, deve riconnettersi non solo il tema fondamentale della produzione romanzesca a partire dal notissimo Uno, nessuno e centomila (iniziato nel 1909 e pubblicato nel ’25) ma anche il pessimismo ironico e molto leopardiano con cui Pirandello interroga le opposte certezze della cultura del suo tempo.
Nella novella La casa del Granella (1905), l’avvocato Zummo si trova ad affrontare con gli strumenti «positivi» e scientifici della giurisprudenza il caso che oppone la famiglia Piccirilli, inquilina di una casa infestata da spiriti, al Granella, proprietario della dimora, che nega il fenomeno. L’avvocato, esponente prototipico della cultura del suo tempo sospesa tra culto positivistico della scienza e culto misticheggiante di ciò che alla scienza sfugge, passa dall’una all’altra «fede» scoprendo che il mistero dello spirito, cioè dell’anima immortale, esiste, ma… «potevano quei poveri Piccirilli condividere questo generoso entusiasmo del loro avvocato? Lo presero per matto. Da buoni credenti, essi non avevano mai avuto il minimo dubbio su l’immortalità delle loro afflitte e meschine animelle».
IL PERCORSO CULTURALE del personaggio Zummo dalla fede nella scienza alla fede nel misticismo dell’anima è sbeffeggiato da Pirandello come banale riscoperta dell’esistenza di ciò che sfugge all’occhio umano, vissuta con la stupida esaltazione della novità. Che questo percorso non sia fantasia, ma pura realtà ideologica di primo Novecento, lo prova uno scritto di Giovanni Pascoli di sei anni precedente, cioè L’era nuova (1899), in cui si teorizza che le evidenze «positive» della scienza hanno provato l’ineluttabilità del nostro destino di morte, ma la fede religiosa ci consente il «riconoscimento e la venerazione» di tale destino.
L’ITINERARIO DI PASCOLI che parte dalla fede nella scienza per approdare a quella nel mistero della morte è analogo a quello sbeffeggiato nello Zummo pirandelliano. Tanto il misticismo scientistico – religioso di Pascoli è celebrativo e patetico, quanto la sua liquidazione è attuata da Pirandello con asciutta ironia antiprogressiva: agli ex devoti al positivismo poi riscopritori del mistero Pirandello risponde che il cammino del pensiero umano torna circolarmente sulle invarianti esistenziali; l’unica novità è l’entusiasmo, del tutto incongruo, con cui la scoperta di ciò che già si sapeva (o meglio: si sapeva di non poter conoscere) viene compiuta.
TANTO BASTA a confermare da un lato il nocciolo misticheggiante del socialismo pascoliano, sintesi di scientismo e fideismo che lo scrittore assorbì dal prete modernista Giovanni Semeria, approdato presso entrambi all’esaltazione della morte in guerra (Pascoli in occasione della campagna di Libia del 1911, Semeria come interventista nel 1914) e, dall’altro, a mostrare che l’adesione pirandelliana al fascismo, oggettiva e indiscutibile, resta inconciliabile con la filosofia dell’autore. Pirandello non ebbe un rapporto facile col regime, che al momento opportuno seppe riconoscerne e ostacolarne il formidabile potenziale antiautoritario: nel 1933 vari brani della Favola del figlio cambiato, libretto pirandelliano dell’omonima opera di Malipiero, vennero sforbiciati dalla censura mussoliniana.
Ma torniamo ancora alla nudità che Pirandello chiese per il proprio corpo defunto e di qui procediamo di nuovo verso la sua opera. Nel mondo pirandelliano la messa a nudo dell’io, cioè la sua verità, risiede nella sua inafferrabilità radicale e assoluta: La vita nuda (1907) è la celebre novella in cui si narra l’impossibilità di ritrarre fedelmente un morto nel monumento funebre a lui dedicato.
La volontà pirandelliana di sottrarsi alla celebrazione funebre e di consegnarsi nudo alla morte è, infatti, diametralmente opposta alla celebrazione del sepolcro e alla monumentalizzazione della memoria come mezzo di sopravvivenza presso i posteri che conosce nel Foscolo dei Sepolcri e nel culto neoclassico della marmorea eternità dell’arte il suo capitolo più noto. Ma in sostanza tutta la linea maestra della nostra tradizione letteraria corre sul filo del mito di eternità dell’autore attraverso l’opera resa marmorea dal sepolcro e consegnata alla memoria dei posteri.
POCHI SCRITTORI hanno avuto il coraggio intellettuale di irridere quest’immagine delle opere umane riducendola ad illusione: prima di Pirandello lo ha fatto Leopardi col mausoleo di sabbia sotto cui resta sepolto il protagonista del Dialogo della Natura e di un Islandese; prima ancora lo avevano fatto i rari autori che si usa porre nel solco di Luciano di Samosata, il grande scrittore tardoantico autore dei Dialoghi dei morti che ha inventato lo sguardo sulla terra dalla luna – cioè da un punto di vista altro, che relativizza radicalmente quello umano –preso a modello da Leopardi per la composizione delle Operette morali.
Ironia leopardiana e umorismo pirandelliano sono le maggiori forze di questa linea autoriale minoritaria eppure capitale, che rifiuta la letteratura come monumento eternatore per praticarla come indagine antropologica sulla natura radicalmente inafferrabile e transeunte dell’umano.
Sonia Gentili
14 luglio 2017
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