Nietzsche e Pirandello: Paralleli e differenze

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di Michael Rossner

Ambedue dovevano guadagnarsi il pane come professori d’università (di filologia): ambedue si autodefiniscono come nature ibride tra filosofia e letteratura. Ma questi paralleli sono soltanto superficiali: le rispettive forme d’espressione della comune inquietudine intellettuale sono profondamente differenti.

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Nietzsche e Pirandello: Paralleli e differenze
Curt Stoeving (1863-1939), Ritratto di Friedrich Nietzsche – 1890. Immagine dal Web.

Nietzsche e Pirandello: Paralleli e differenze

da Ludwig-Maximilians-Universität München

Le osservazioni che seguono non riflettono soltanto l’opinione dell’autore, ma sono il frutto di discussioni svoltesi nel Centro Tedesco di Studi Pirandelliani fondato nel 1982. La tematica scelta si ricollega al tema centrale del primo convegno di quest’associazione. e la mia relazione vuole presentare così i risultati del nostro lavoro comune ai colleghi italiani e canadesi. [1]
L’autodefinizione pirandelliana come “scrittore di natura più propriamente filosofica” (nel Prologo ai Sei personaggi) è responsabile di una caratterizzazione spesso troppo superficiale di Pirandello, ossia come una specie di “traduttore” di pensieri filosofici nella forma più facilmente accessibile della narrativa o del teatro, cosicché molti critici lo consideravano “cerebrali sta” o “intellettualista”, mentre i filosofi non lo prendevano sul serio. lo credo – anche sulla base delle discussioni all’interno della critica pirandelliana tedesca di questi ultimi anni [2] – che si tratti di un “falso problema”: l’opera di Pirandello è, semmai, “post-filosofica”, cioè per lui i cosiddetti problemi filosofici sono diventati così ardentemente esistenziali che non si può più pensare a risolverli (almeno non percorrendo la strada della logica del discorso filosofico), ma soltanto a viverli, a soffrirli nel mondo della letteratura.

[1] Per la discussione del primo convegno vedi: ed. Johannes Thomas, Pirandello-Studien (Atti dello convegno del Centro Pirandelliano Tedesco), Paderbom 1984 (in particolare il mio Nietzsche und Pirandello, pp. 9-25 e il saggio di Monika Schmitz-Emans, ibidem, pp. 27-44). Gli altri convegni hanno trattato i temi seguenti: nel 1984 “Pirandello e il problema del naturalismo” e nel 1986 a Vienna “Teatralizzazione della realtà e realtà del teatro”.

[2]  Cfr. in particolare J. Thomas, Aspekte deutscher Pirandello Rezeption, in: Pirandello-Studien, op. cit., pp. 95-105, dove Thomas spiega il concetto “nachphilosophisch” (“post-filosofico”) sviluppato già nel suo articolo Dialektik der Dekadenz (in: Italienische Studien 6/1983, Vienna).

Questo saggio dunque non intende catalogare – per l’ennesima volta – l’opera pirandelliana sotto l’etichetta di una qualsiasi scuola filosofica. Inoltre quest’etichetta stessa sarebbe di natura molto dubbiosa. Mentre normalmente si suole proporre un legame tra Pirandello e Bergson o Schopenhauer, l’autore italiano che si associa quasi automaticamente con Nietzsche è proprio l’antagonista di Pirandello, Gabriele d’Annunzio. Negli ultimi dieci anni si è cercato però di collegare anche Nietzsche e Pirandello, qualche volta persino suggerendo che Pirandello abbia conosciuto Nietzsche e sia stato influenzato dalle sue opere. [3]

 [3]  Cosi Vico Faggi, Diario acritico in: Sipario, novembre 1978, p. 26, e Graziella Corsinovi, Pirandello e l’espressionismo, (Genova: 1979), soprattutto pp. 24-28

In questo contesto bisogna menzionare che la problematica “Pirandello e la filosofia tedesca” ha dato luogo a errori frequenti degli studiosi, qualche volta addirittura ha por tato alla formazione di miti su una pretesa intertestualità delle opere del Nostro – miti mai provati, ma spesso ripetuti dalla critica.
Uno di questi miti sta alla base del tema scelto per questo breve saggio. Si tratta del “mito della cultura tedesca onnicomprensiva” del giovane Pirandello. Questo mito, mi sembra, è dovuto a due ragioni: primo al fatto che Pirandello si laureò in Germania, e secondo, a un certo complesso d’inferiorità dell’italiano medio che crede di poter dare pili valore alle idee di un autore italiano se queste si lasciano ricondurre alla filosofia tedesca che, come si sa, ha fama di essere molto scrupolosa e precisa e dunque degna di fede. Già Franz Rauhut nel 1964, [4] ha suggerito che l’idea di certi critici, che Pirandello durante i suoi studi a Bonn avesse letto almeno tre quarti dell’intera letteratura e filosofia tedesca, non poteva essere altro che un mito.

 [4]  Franz Rauhut, Der junge Pirandello, (Monaco di Baviera 1964)

Pirandello si è infatti trattenuto a Bonn appena due anni. Quando arrivò nel 1889 non sapeva il tedesco, dunque dovette studiarlo per lo meno mezz’anno senza pensare a leggere letteratura. Inoltre, in questi due anni finì i suoi studi (di filologia romanza, non germanica), scrisse una tesi sulla “Parlata di Girgenti”, visse un’epoca di felice amore con Jenny Schulz-Lander, terminò Pasqua di Gea, scrisse le Elegie Romane e vari articoli, iniziò a tradurre Goethe, ecc., ecc. Qualche volta, avrà pure, mi sembra, dovuto dormire e bere il vino siciliano che tante volte chiede al padre nelle Lettere da Bonn, pubblicate poco tempo fa da Elio Providenti. Dunque, la “cultura tedesca” attribuita a Pirandello (e da lui qualche volta anche ostentata per impressionare i colleghi d’università, come nell’Umorismo ) doveva essere tutt’altro che completa.
Nonostante quanto detto sopra, è chiaro però che Pirandello conosceva certi autori tedeschi, tra cui anche dei filosofi – se non per altro, perché li doveva studiare per gli esami di laurea all’università di Bonn. [5]

 [5]  Cfr. Monika Schmitz-Emans, Das gespaltene Ich Pirandellos Theorie des Subjekts und ihre Korrespondenzen zu philosophischen Konzeptionen Schopenhauers und Nietzsches, in: ed. J. Thomas, Pirandello-Studien op. cit. pp. 27-44, p. 44, dove si trova una breve sintesi delle lezioni di filosofia tenute all’università di Bonn nel periodo in questione.

Ma nel lontano 1891, Nietzsche era tutt’altro che un filosofo canonico e non faceva certamente parte del programma di quest’esame.
Sembra dunque lecito supporre che anche la cultura di Pirandello nel settore della filosofia tedesca era tutt’altro che completa. Da questo punto di vista diventa estremamente significativo che il nome di Nietzsche non compaia mai nelle pagine dell’Umorismo, cioè dell’opera critica pili importante del Nostro, benché qualche volta si senta quasi la mancanza di una citazione nietzscheana, per esempio quando Pirandello scrive: “D’altra parte, nessuno piu si sogna di negare che anch’essi gli antichi avessero l’idea della profonda infelicità degli uomini”. [6]

 [6]  L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti vari (SPSV), (Milano: 1977) ed. M. Lo Vecchio-Musti, (4), pp. 31-32. Le altre opere di Pirandello sono citate dalle edizioni: Maschere nude (MN) I e II, (Milano (7) 1978), Novelle per un anno (NA) I e II, (Milano: 1977) (lO), e Tutti i romanzi (TR) I e II, (Milano: 1975),ed. G. Macchia.

Se avesse conosciuto già allora, nel 1908, il brano di contenuto analogo della Nascita della tragedia, a cui si riferisce in un’intervista del 1936, avrebbe certamente fatto il nome di Nietzsche, almeno in quella forma leggera e un po’ superficiale, con la quale nomina prima sulla stessa pagina Schlegel, Tieck, Fichte, Hegel e Schiller.
Considerando ciò, è difficile condividere l’opinione di Graziella Corsinovi: ” … è logico supporre che Pirandello trovandosi in Germania nel biennio 1889-1891, possa aver avuto contatto non marginale con l’opera di Nietzsche che conosceva allora il momento di maggior diffusione nei paesi nordici”. [7]

 [7]  Corsinovi, 1.c., pp. 25-26. Anche l’ultima frase della citazione è basata su un equivoco: la maggior diffusione di Nietzsche nei paesi di lingua tedesca si verifica un decennio dopo, cioè all’incirca tra il 1896 e il 1910.

Non è neanche corretto, come suppone la critica, che “il nome di Nietzsche compare spesso nelle opere di Pirandello’;: La Corsinovi cita soltanto quattro esempi, di cui la recensione delle Vergini delle rocce del 1895 (dove il nome di Nietzsche non compare, almeno nella versione contenuta nei Saggi ); due versioni di un aneddoto identico (ne “Gli occhiali”, 1897 e “Un critico fantastico”, 1907), dove Nietzsche compare come simbolo di un intellettualismo alla moda nella metafora degli occhiali d’imitazione prediletti dai letterati moderni (“Nietzsche biconcavo in un occhio, Ibsen biconvesso nell’altro”); [8]

[8]  SPSV, p. 367.

infine il brano di Suo marito (1909 – 11), nel quale Dora Barmis raccomanda a Giustino Roncella le opere del filosofo per preparare sua moglie, la scrittrice Silvia Roncella, alla vita nei circoli mondani intellettuali dell’Urbe: “un po’ di Nietzsche, un po’ di Bergson”, cocktail completato nella seconda versione del romanzo sotto il titolo Giustino Roncella nato Boggiòlo con “un po’ di Freud”. [9]

[9]  TR I, p. 659 (la seconda versione: p. 1085)

Mi sembra molto ardito voler dedurre da questi accenni brevi e futili un influsso di Nietzsche, o anche soltanto una conoscenza approfondita delle sue opere. Rimane un ultimo caso in cui Pirandello parla di Nietzsche: si tratta di un’intervista già menzionata dell’ottobre 1936, anno della morte, nella quale dichiara:

Nietzsche diceva che i Greci alzavano bianche statue contro il nero abisso per nasconderlo. lo le scrollo invece, per sollevarlo. [10]

[10]  Giovanni Cavacchioli, “Introduzione a Pirandello”, in Termini (Fiume: ottobre 1936), pp. 22-23.

La citazione è poco precisa, ma corrisponde ovviamente alla Nascita della tragedia di Nietzsche, dove il fllosofo scrive:

Il greco conobbe e senti i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata [pia precisamente: le figure splendide, nate dal sogno] degli dèi olimpici. [11] (trad. Sossio Giammetta, la correzione è mia).

[11] Le citazioni di Nietzsche sono tratte dall’edizione Montinari-Colli, Opere di F. Nietzsche (Op.); questa citazione si trova nel voI. III, t. I, (Milano, 1972), p. 32.

La trasformazione di questa frase in bocca a Pirandello rimanda all’inizio della vita del Nostro: già l’allora diciannovenne aveva scritto delle lettere alla sorella Lina, nelle quali si parla di “nero abisso” della meditazione, della necessità di salvarsi mediante gli ideali, e della sua incapacità di aggrapparsi a un ideale cosicché alla fine gli resta la verità “che è una vecchia brutta”. Da allora bisognava aspettare dunque fino all’ultimo anno della sua vita affinché Pirandello nominasse Nietzsche in un contesto diverso da quello dell’ironia sullo pseudo-intellettualismo altrui? Questo fatto sembra poco probabile se si crede alla tesi che Pirandello avesse letto Nietzsche già nel periodo 1889-1891. Le poche citazioni del nome di Nietzsche che si trovano nelle opere pirandelliane sembrano dunque un’ulteriore prova che Pirandello aveva conosciuto l’opera di Nietzsche, semmai, molto tardi e in maniera piuttosto superficiale.

Ma tutto ciò non esclude la possibilità di un parallelismo intellettuale. Se si cercano dei punti comuni, si potrebbe cominciare da fattori esterni: ambedue dovevano guadagnarsi il pane come professori d’università (di filologia): ambedue si autodefiniscono come nature ibride tra filosofia e letteratura. Ma questi paralleli sono soltanto superficiali: le rispettive forme d’espressione della comune inquietudine intellettuale sono profondamente differenti.
Dobbiamo cercare perciò i veri paralleli nei contenuti: e qui si potrebbe dire che, in Italia, i due lati della personalità di Nietzsche sono rappresentati da due scrittori antagonisti del primo Novecento: l’inventore del Superuomo, l’araldo di nuovi tempi trova il suo epigono in Gabriele d’Annunzio (che s’ispirò veramente alle opere nietzscheane); lo scettico radicale e sofferente però si rispecchia in Pirandello (che molto probabilmente non lo aveva mai letto profondamente).

Lo scettico – e il moralista Nietzsche: come lui, anche il Nostro si occupava dell’aspetto “umano, troppo umano” della vita sociale e smaschera i veri motivi del forzato “giuoco delle parti” della vita nella società degli uomini. Pirandello non condivide però la conclusione del filosofo (cioè la dominazione necessaria dei forti sui deboli), ma dimostra un’ampia comprensione delle debolezze umane. L’idea di una dominazione dell’uomo sull’uomo si trova nell’opera pirandelliana, semmai, in chiave negativa.
C’è qualche altra cosa in cui le loro strade intellettuali però coincidono: nell’intervista citata del ’36 Pirandello non sembra rendersi conto di come nel suo “scrollare le statue”, cioè gli ideali, o i miti della società della sua epoca, risieda proprio il parallelo più ovvio con il filosofo tedesco, che dichiara altrove (nel Prologo a Ecce Homo):

Non sarò io a elevare nuovi idoli, e quanto ai vecchi, comincino a imparare che vuoi dire avere i piedi di argilla. Rovesciare idoli (parola che uso per dire “ideali”) – questo si è affar mio. (trad. Roberto Calasso, Op., VoI. IV, t. III, pp. 265-266).

All’inizio sembra che persino le mete di questa attività iconoclastica siano le stesse: se Nietzsche vede il suo nemico principale nel sentimento religioso e specificamente nella religione cristiana, il giovane Pirandello biasima anche lui il cristianesimo nelle poesie di Pasqua di Gea. Come Nietzsche, critica la negazione della vita contenuta in un cristianesimo che “esalta la morte” e “crucia i vivi”, e gli oppone un paganesimo vitalistico (a sua volta quasi nietzscheano). Ma se in Nietzsche questa tendenza anti-cristiana si radicalizza sempre piu fino all’estremo dell’Anti-Cristo, in Pirandello gli attacchi alla religione e persino alla chiesa diventano sempre più rari per arrivare (in Lazzaro) a una tolleranza persino delle vecchie forme della religione se sorrette da una coscienza nuova, libera e aperta.

In questa chiave si potrebbe leggere anche la già accennata comune attività di “moralisti”, cioè di critici dei costumi della società borghese del loro tempo. Lo smascheramento delle “regole” del “giuoco delle parti” messo in opera da Pirandello nelle sue opere maggiori si trova già anticipato in vari frammenti nietzscheani, soprattutto nel frammento 25 (134) della primavera 1884, pubblicato nella nuova edizione Montinari-Colli, dove l’uomo è definito come “attore” che recita un ruolo “che è il risultato del mondo esterno al quale accordiamo la nostra persona come al suono delle corde”. Questa stessa concezione sta alla base di molte opere pirandelliane. n problema è solo che i protagonisti pirandelliani sanno che non sono liberi nella scelta della loro parte, e qualche volta si ribellano, in una forma più moderata come il grande avvocato e professore che fa la carriola col vecchio cane (in La carriola), o radicalmente tramite la distruzione cosciente della propria identità come Moscarda in Uno, nessuno e centomila; oppure interpretando il proprio ruolo ancora piu perfettamente, con la tremenda “logica dei pazzi” (Leone Gala, Baldovino, Ciampa): Questa sera si recita a soggetto, la ribellione degli attori contro i propri ruoli, sembra così un pezzo simbolico-programmatico di Pirandello.

Se Nietzsche (nello stesso frammento) parla della possibilità di cambiare ruolo, si pensa subito al vecchio Ciccino Cirinciò, “quello del mulino”, che nella novella La maschera dimenticata ha la possibilità di cambiare ruolo quando è mandato in un altro paese, dove non lo conoscono, per preparare la campagna elettorale del suo candidato. Diventa un oratore affascinante, finché arriva un omino che lo conosce e lo chiama col nomignolo: ecco che la nuova esistenza, il nuovo ruolo svanisce e il povero Cirinciò deve tornare alla misera parte di prima.

Ma tali esempi sembrano anche indicare che, sebbene i due si trovino d’accordo nella costatazione del fatto che l’uomo è condannato ad essere un attore, la valutazione di Pirandello è diversa: se Nietzsche, partendo dalla costatazione che non esiste né l’Io né la verità oggettiva, arriva alla conclusione che nessun ruolo può essere autentico e che bisogna dunque scegliere quella parte che ci dà il massimo di potere, Pirandello presenta il ruolo come maschera imposta all’uomo; uomo che, sebbene non abbia nessuna identità autentica, per lo meno ha il desiderio di libertà, del cambiare, e viene irrimedialmente fissato in questa maschera impostagli dal “mondo esterno”, cioè dalla società che lo circonda. n risultato è sofferenza, rigidezza, morte, sentimenti che prova il famoso scrittore di Quando si è qualcuno, ma anche altri protagonisti pirandelliani forzati dal loro ambiente ad assumere una volta per tutte un’identità per soddisfare la curiosità altrui, come succede in Così è (se vi pare). Lo stesso aspetto è stato osservato anche da Nietzsche che dice in un altro frammento di questo periodo (26 [205] ):

… nel commercio con gli uomini, ognuno rappresenta sempre qualche cosa, un qualche tipo; su ciò si fonda il commercio umano: che ciascuno si comporti il piu possibile univocamente, uniformemente; affinché non occorra troppa diffidenza (una dissipazione di energia mentale!).

I grandi seminatori di inquietudine e di diffidenza, che ci costringono a raccogliere tutte le energie, sono terribilmente odiati; … (Op., VoI. VII, t. III, p. 185).

Ecco l’esperienza che farà Vitangelo Moscarda quando cerca di distruggere l’identità impostagli dal di fuori nell’episodio con Marco di Dio: invece di chiamarlo benefattore, la folla lo chiama pazzo. Ma ciò che per Nietzsche è soltanto un’osservazione sprezzante diretta contro la “morale della folla”, morale che non ha nessun effetto sul carattere veramente forte, in Pirandello è il nucleo stesso del problema: la sofferenza dell’individuo a causa della ripartizione dei ruoli impostagli dalla società. Cioè, in Pirandello esiste un antagonismo tra il bene e il male che Nietzsche credeva ormai sorpassato (“Al di là del bene e del male”): la società repressiva si oppone all’individuo sofferente che cerca di difendere il proprio diritto alla libertà e mutabilità.
Oltre questo smascheramento del “giuoco delle parti”, tipico del campo moralistico, si possono però trovare delle coincidenze anche nell’ambito più profondamente filosofico: Pirandello che si autodefinisce uno “scrittore di natura pili propriamente filosofica” e Nietzsche che si chiama qualche volta “Solo pazzo! Solo poeta!” segnano un momento nella storia del pensiero occidentale, in cui filosofia e letteratura s’incontrano su un campo comune. [12]

[12] Questa tesi si può verificare per esempio nell’opera di scrittori come Hofmannsthal o Musil, ma anche nei movimenti di avanguardia come il surrealismo. Vedi anche il mio saggio Auf der Suche nach dem verlorenen Paradies (Studien zu den Aspekten mythischen BewuBtseins in der Literatur des 20 Jahr-hunderts), di prossima pubblicazione.

Questo si riflette in due preoccupazioni centrali del filosofo tedesco e dello scrittore italiano: l’abolizione dei concetti della verità oggettiva e dell’Io indivisibile. Così Nietzsche e Pirandello rappresentano, ciascuno a modo suo, gli estremi di scetticismo radicale nella storia del dubbio che caratterizza da Descartes in poi la storia del pensiero occidentale. Se finora il dubbio era stato un metodo per arrivare ad un assoluto non più esposto al dubbio, adesso ambedue non riescono piu a fermarsi sulla strada del dubbio radicale e senza limiti, attribuito a Nietzsche da Karl Jaspers e Gianni Vattimo, [13] e onnipresente nell’opera pirandelliana, dove la definizione piu bella si trova forse nel monologo del “professor Terremoto” sulla mania di riflessione dei siciliani:

Sono così tormentosamente dialettici questi nostri bravi fratelli meridionali. Mfondano nel loro spasimo, a scavarla fino in fondo, la saetella del trapano del loro raziocinio, e fru, e fru, e fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione mentale, ma anzi al contrario, per acquistare, pio profonda e intera, la coscienza del loro dolore.

[13] Karl Jaspers, Nietzsche, Berlin (3), p. 213; Giovanni Vattimo Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, (Milano: 1974), p. 92.

Che quest’atteggiamento non valga soltanto per “il siciliano” astratto, ma anche per l’autore stesso, lo dimostrano le lettere giovanili, dove la meditazione si definisce come “abisso nero”, come “sete inestinguibile”, come “furore ostinato”; il risultato è un”‘enorme sofferenza”: ” … nel mio cervello si fa un vuoto nero, orribile, raccapricciante, come il misterioso fondo del mare popolato da mostruosi pensieri che guizzano, passando minacciosi”. [14]

[14] Lettera da Palermo alla sorella Lina del 31/10/1886 (in Lettere ai familiari, Terzo programma), (Roma: 3/1961).

Anche Nietzsche non è immune a questa sofferenza: in una lettera del 1888 parla di “disperazione nera” e si paragona a un “animale sofferente e moribondo”. [15]

[15] Lettera a Overbeck del 3/211888, in: KSA XV, p. 170.

La ragione di questa disperazione è il carattere “inaudito” del risultato della riflessione, ma questo risultato è allo stesso tempo già la disperazione: data l’autentica sofferenza che ne risulta, il pensatore scettico non si lascia più calmare dall’argomento del circolo vizioso che sembra poter confutare ogni scetticismo radicale. [16] Il pensiero si “autoconfuta”, ma la sofferenza rimane. E ciò non impedisce a Nietzsche di “scavare fino a fondo” come Pirandello: Dalle “cose ultime” come il “Ding-an-sich” di Kant, l”‘Io” di Fichte, la “volontà” di Schopenhauer, non rimane niente di incontestato.

[16]  Su questa idea si basa anche il concetto “nach-philosophisch” (“Post-fIlosofico”), vedi la nota 2. Cfr. anche Heiner Crremer, Der skeptische Zweifel, (Freiburg-Miinchen, 1974), e Far ein Neues Skeptisches Denken, (Freiburg-Miinchen, 1983).

Se seguiamo passo per passo questa critica del processo conoscitivo, vediamo che Nietzsche e Pirandello rifiutano ambedue la logica negli stessi termini: se il Nostro parla nell’Umorismo della logica come “specie di pompa di filtro”, Nietzsche in un frammento del 1885 la chiama “qualcosa di assolutamente fittizio” che funziona in maniera analoga: ”filtrando per così dire nel pensare l’accadere effettivo attraverso un dispositivo semplificatore” (Op., VoI. VII, t. III, p. 181). La logica razionale è incapace di afferrare la verità, va bene; ma bisogna chiedersi se questa verità esiste. Già nel saggio Su verità e menzogna in senso extramorale del 1873 Nietzsche definisce la verità come “obbligo di mentire secon do una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una moltitudine, in uno stile vincolante per tutti” (Op., Vol. III, t. II, pp. 361-362 ). Il circolo vizioso che colpisce anche questa riflessione può essere risolto, come ha mostrato R. Grimm, [17] se si ricorre ad un concetto diverso della verità definito in un altro testo di Nietzsche (un frammento del 1885): “La verità è quel tipo di errore senza il quale una certa specie di esseri viventi non potrebbe vivere. Nell’ultimo è decisivo il valore per la vita”.

[17] Riidiger Grimm, Nietzsche’s Theory of knowledge, (Berlin-NewYork, 1977).

Così si arriva a un sistema di verità relative, e tra quelle la verità scettica della non-esistenza di verità oggettive può avere un valore maggiore (perché liberatorio) che i sistemi della filosofia tradizionale.
Il pensiero di Pirandello è fondamentalmente analogo. Anche lui costata già nella ripetutamente citata lettera del 1886 che la verità è illusione e che è però anche necessaria per la vita (“noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare al dosso il loro guscio fragile … “). E anche lui arriva a un sistema mobile di verità relative, all’elogio del valore di verità (o concezioni della realtà) soggettive, differenti dalla “convenzione fissa della bugia” secondo Nietzsche. E qui troviamo ancora una volta l’opposizione tra individuo e società potentissima e normatrice, opposizione che abbiamo già incontrata nel “giuoco delle parti” pirandelliano. In Pirandello Mythenstürzer ho cercato di mostrare come Pirandello “scrolla” il mito della verità oggettiva in modo progressivo: da una mera simpatia del lettore/ spettatore per la verità soggettiva di Micuccio in Lumie di Sicilia attraverso la vittoria di una tale verità soggettiva in Tutto per bene fino alla perdita completa di una qualsiasi verità oggettiva in Così è (se vi pare). In quest’ultima commedia lo spettatore, tradizionalmente la parte “onnisciente” e dunque “detentore” della verità oggettiva deve andare a casa senza esser soddisfatto: la sua auto-sicurezza è incrinata. Ma così si è potuto impedire la sofferenza di almeno uno dei protagonisti, sofferenza che altrimenti, se Pirandello avesse deciso in favore di una delle due concezioni della realtà, sarebbe diventata inevitabile. Così, anche in Pirandello vince la verità “superiore” – ma non nel senso di Nietzsche, per il quale il valore superiore equivarrebbe a un aumento della “potenza”.

Il secondo mito che viene scrollato, è quello del soggetto, dell’Io unitario. Questo fatto è basato sull’idea del “giuoco delle parti”, ma risulta ancora un po’ pi6 radicale: se si dimostra che la personalità non è altro che una maschera, si deve pensare che al di sotto si possa trovare il carattere “vero”, l’io “vero”. Ma siccome Nietzsche e Pirandello hanno già rifiutato ogni concetto di “verità”, tale io “vero” non può esistere: se tutte le verità non sono altro che menzogne, tutti i ruoli sono ipocrisie. Così, l”‘io” per Nietzsche non è altro che un”‘unità di organizzazione”, e l”‘individuo” si riduce a “puro movimento” (frammento di 1885-86,2 [87] ). Questa radicale dissoluzione dell’io non si può trovare in Pirandello, perché questi mantiene, come abbiamo visto, l’antagonismo tra individuo autentico e società alienante. Ma neanche il suo “io” è unitario: la “coscienza” è già stata definita nell”‘Esclusa” del 1893 come “gli altri noi“, e l’Umorismo afferma finalmente – sotto l’influsso del Binet [18] – che “non è una anima individuale”.

[18] La possibilità di leggere tali paralleli come “vasi comunicanti” (Barilli) e sulla base di una comune derivazione da pensatori “minori” del tardo Ottocento (Bodei) è stata accennata varie volte durante questo convegno della Clmadian Pirandello Society. Sono d’accordo, ma nell’ambito della mia tematica non mi interessano i problemi d’influsso, bensl voglio mostrare come partendo da una problematica comune si può arrivare a conclusioni ben diverse – e così far apparire (nell’opposizione) più distintamente le due figure intellettuali di Nietzsche e Pirandello.

Quest’idea è già accennata nel primo Pirandello (per esempio nei Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me); una delle possibili conseguenze della non-identità del soggetto, il problema del “non-riconoscersi” in un momento passato della propria vita che però è responsabile della propria “immagine sociale” è quello del Padre nei Sei personaggi e sta alla base di opere come Cinci e Non si sa come. Qui bisognerebbe anche menzionare i numerosi esempi di una “ribellione contro il proprio ruolo”: Quando si è qualcuno, Uno, nessuno e centomila, Il fu Mattia Pascal e tanti altri. Tutti questi casi rappresentano delle varianti dello stesso problema, che in Pirandello però non si presenta più (come in Nietzsche) soprattutto come un problema della teoria della conoscenza, ma come problematica esistenziale degli uomini che ne sono le vittime. Se nel “giuoco delle parti” e nel problema della verità oggettiva in Pirandello esisteva ancora un antagonismo tra il bene e il male (cioè l’individuo in cerca della propria libertà, visto in luce positiva, opposto alla società alienante e repressiva), nel caso della perdita della “coesione” dei vari “me” si tratta di una sofferenza soltanto assurda, ma necessaria, alla quale l’uomo si vede esposto privo d’aiuto: non è più l’opinione degli altri che è il problema per Romeo Daddi in Non si sa come, ma il fatto che lui stesso non può più opporre una “sua” versione, perché non può più chiamarsi “io”, perché quest’io non è piu uno, e perché “quando tutto t’è come non vero attorno, quello che fai può anche sembrarti non vero”. [19]

[19]  MN II, p. 839.

Come Nietzsche, Pirandello “scrolla” dunque con il soggetto l’ultima certezza rimasta e così fa soffrire quelli che non vi sono preparati; chi però è capace di sopportare questo riconoscimento potrà anche superarlo: come “superuomo” in Nietzsche, o come “dimissionario” (come raccomanda il dottor Mangoni della novella Niente) in Pirandello, cioè come uomo che può vivere senza il proprio io come Moscarda o Mattia Pascal.
Essere diventa costruirsi: ecco una conseguenza della perdita dell’identità. Il costruirsi senza mai arrivare a una costruzione fissa diventa un nuovo valore. E un momento problematico nel pensiero di ambedue, perché è il punto in cui le loro strade possono sfociare in una teoria fascista – quella di Nietzsche nell’elaborazione di epigoni criminali, quella di Pirandello nella sua incoerente adesione al Partito Fascista che lui stesso spiega in un’intervista del ’24 in questi termini:

Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta soltanto in potere dell’uomo di costruirla e che la si crea soltanto con l’attività di spirito. [20]

[20] Intervista per “L’idea nazionale”, (Roma: 23/10/1923). Cfr. per il problema del fascismo di Pirandello come possibile conseguenza del pensiero espresso nelle sue opere, p.e. in Uno, nessuno e centomila: Johannes Thomas, “Dialektik der Dekadenz. Faschismus und utopische Rettung bei Luigi Pirandello”, in Italienische Studien (Vienna: 6/1983), pp. 73-93.

Dunque, lo scetticismo, la critica dei valori, l’atto di “scrollare bianche statue” o idoli o ideali, sono aspetti comuni al pensiero di Nietzsche e di Pirandello; è diversa però la conclusione: in Pirandello non si esprime nella ricerca del Superuomo capace di vivere con l’inganno, ma nella pietà, la compassione che l’autore Pirandello prova nei confronti dei suoi personaggi, siano ingannati o ragionatori che smascherano l’inganno:

La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che s’ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno. [21]

[21] SPSV, p. 1286.

Proprio questa compassione, che da Nietzsche viene rappresentata come errore fondamentale (nel Zarathustra e nel Crepuscolo degli idoli,) è il nucleo della poetica pirandelliana, è la conseguenza della commozione esistenziale originata dal dubbio radicale, è (come in Leopardi e Schopenhauer) la sola risposta umana dignitosa alla situazione “assurda” dell’uomo che ha perso la terra sotto i piedi ed è abbandonato indifeso a una potenza cieca (“volontà”, “natura”, “destino” o quello che sia). E la stessa compassione che si trova anche alla base della poetica esposta nell’umorismo: che altro distingue il “sentimento del contrario” dall”‘avvertimento del contrario” se non la disposizione dell’osservatore a identificarsi con la persona ridicola, cioè a una compassione? La riflessione che separa questi due momenti nel pensiero dell’umorista è proprio l’antitesi della riflessione logica rifiutata che “filtra” la vita per farne un’astrazione vuota: quest’altro tipo di riflessione restituisce alla situazione astratta (avvertimento del contrario, cioè non-adempimento delle aspettative dell’osservatore) la vita attraverso la partecipazione dell’osservatore, cioè attraverso la considerazione del caso individuale.

Sembra dunque che la grande differenza tra Nietzsche e Pirandello sia da ricercarsi in questa compassione che, a causa del rispetto davanti alla sofferenza del prossimo, limita lo scetticismo radicale. In un certo senso e malgrado tutto’ Pirandello sembra così andare più oltre che Nietzsche: lui guarisce le ferite dell’uomo che risultano dalla “morte di Dio” e dalla perdita di tutti i valori: offre, invece di un’ideologia della forza brutale e della “volontà di potenza” il rispetto dell’ingenuità degli uomini che s’ingannano e della loro sofferenza.
Rimane però ancora una domanda: che succede con coloro che non hanno l’ingenuità descritta, che non hanno realtà propria, perché hanno “scrollato” tutte le illusioni; che succede con quegli scettici come l’autore stesso per i quali il dubbio è una necessità interna? Dove può un intellettuale scettico come Nietzsche e Pirandello, come Serafino Gubbio o Moscarda o tanti, tanti altri protagonisti pirandelliani, trovare un po’ di requie alla propria sofferenza?

Nel mio saggio Pirandello Mythenstürzer ho cercato di trovare una risposta a questa domanda mediante una nuova interpretazione delle ultime opere pirandelliane: mi sembra che ci sia una strada che attraverso la rinuncia a una posizione sociale, la perdita della propria corporeità conduca in una zona di “epifania permanente”, e una specie di “libera coscienza mitica” com’è realizzata nella villa “La Scalogna” dei Giganti della montagna. L’unità intensa tra uomo e natura, un nuovo teatro dell’improvvisazione collettiva permanente: ecco alcuni tra i requisiti della villa, nella quale, secondo le parole del mago Cotrone, non esistono più i limiti tra sogno e realtà. Alcune di queste qualità sono anche richieste da Nietzsche per l’atteggiamento “conoscitivo puro”: (in Umano, troppo umano), dove si parla di una rinuncia a ricchezze e posizione sociale (come richiedono gli Scalognati per entrare nel regno della villa) e di una serenità completa. Ma nella “Scalogna” questa serenità si unisce a una mutabilità e disponibilità assolute che non sono piu dirette – come in Nietzsche – verso un perpetuo processo conoscitivo, ma verso il giuoco:

COTRONE … Facciamo i fantasmi … Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è pio un giuoco, ma una realtà meravigliosa in cui viviamo, alieneati da tutto, fino agli eccessi della demenza.

A questo teatro/giuoco al di là delle differenze tra inganno e verità, al di là del concetto d’individuo che si potrebbe esprimere ancora in un personaggio, si oppone nei Giganti un’altra concezione del teatro (e del pensiero?), quella tradizionale, rappresentata da Ilse Paulsen che crede nella sua “missione” di portare il “messaggio” del dramma agli uomini.

COTRONE. Comprendo che la contessa non può rinunziare alla sua missione.
ILSE. Fino all’ultimo!
COTRONE. Non vuole neanche lei che l’opera viva per se stessa – come potrebbe soltanto qua
ILSE. Vive in me; ma non basta! Deve vivere in mezzo agli uomini! [22]

[22]MN II, p. 134

Se teniamo presente che l”‘opera” in questione è la Favola del figlio cambiato dello stesso Pirandello, si può facilmente arrivare a un paragone tra i tipi di teatro che rappresentano Cotrone e Ilse e l’antagonismo tra i pensatori Pirandello e Nietzsche che partono degli stessi motivi di inquietudine, ma arrivano a tutt’altre conclusioni quanto alla loro “missione”. La strada di Cottone è una possibile conseguenza dell’atteggiamento scettico radicale di “scrollare” i miti che caratterizza l’attività intellettuale di ambedue, di Pirandello e di Nietzsche, ma questa strada ci conduce ben lontano da quell’altra conseguenza pericolosa che potrebbe chiamarsi fascismo.

Michael Rossner, Universitat Wien

da L’ENIGMA PIRANDELLO
Atti del Congresso Internazionale – Ottawa, 24-26 ottobre 1986

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