Tesina – Pirandello tra vita e forma: Il fu Mattia Pascal

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Al tempo in cui uscì il racconto, le reazioni negative non mancarono: critici abituati al metodo della narrativa ottocentesca non esitarono a giudicare assurde le innovazioni di Pirandello.

Il fu Mattia Pascal - Tesina
Marcello Mastroianni e Laura Morante – Le due vite di Mattia Pascal di Mario Monicelli – 1985

Un personaggio, signore, può sempre chiedere ad un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre “qualcuno”. Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere “nessuno”.

Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

Pirandello tra vita e forma: Il fu Mattia Pascal

Introduzione

Vissuto nel periodo a cavallo tra ’800 e ‘900, fra il naturalismo e l’inizio del decadentismo Pirandello, come Svevo, è definito uno scrittore isolato, difficile da inquadrare in un movimento letterario ben definito. Proprio a cavallo tra i due secoli si determina la crisi dei valori ottocenteschi, dove viene meno la fiducia nella scienza, nella razionalità e nei valori borghesi. Pirandello vive e rappresenta questa crisi sentendone le contraddizioni, e porta nella letteratura italiana alcuni dei caratteri fondamentali dell’avanguardia europea scaturiti proprio da questa crisi, come il relativismo, la tendenza alla scomposizione e alla deformazione, il gusto per il paradosso, la scelta dell’ironia e dell’espressionismo. Di questa crisi delle ideologie e dei valori morali e culturali, Pirandello ne mostra coscienza già nel saggio Arte e coscienza d’oggi pubblicato nel 1893. In esso descrive la crisi intellettuale e morale della sua stessa generazione dove sono “crollate le vecchie norme” e “non sono ancor sorte o bene stabilite le nuove”, e, a causa di questo, “nessuno più riesce a stabilirsi un punto fermo e incrollabile” perché “i termini astratti han perduto il loro valore, mancando la comune intesa, che li rendeva comprensibili”. A causa di questa “relatività di ogni cosa”, la modernità appare a Pirandello come un intreccio contraddittorio di spinte e controspinte, ciascuna delle quali relegata alla relatività del proprio punto di vista e perciò incapace di aspirare alla verità.

La poetica di Pirandello

L’umorismo
L’elaborazione della poetica dell’umorismo avviene fra il 1904, data delle due premesse iniziali de Il fu Mattia Pascal che gettano già le basi della nuova poetica, e il 1908, anno in cui esce il volume l’Umorismo. L’umorismo pirandelliano è l’espressione del pensiero e della cultura del relativismo filosofico il quale presuppone sia la messa in discussione del positivismo, sia delle ideologie romantiche. Del positivismo Pirandello rifiuta il criterio della verità oggettiva, garantita dalla scienza; del Romanticismo l’idea della verità soggettiva e della centralità del soggetto. Entrano in crisi tanto soggettività quanto la oggettività, ed è il concetto stesso di verità che viene posto radicalmente in questione. Ne deriva un assoluto relativismo che sul piano artistico trova elaborazione nella poetica pirandelliana dell’umorismo. Anche se Pirandello tenta di darle un fondamento eterno e ontologico, in realtà la poetica dell’umorismo nasce da una riflessione sulla modernità. La stessa contrapposizione fra l’arte umoristica e quella epica e tragica, di cui si parla nell’Umorismo, deriva dalla constatazione che nella modernità la poesia fondata sul tragico e sull’eroico non è più possibile. Le categorie di bene e di male, su cui si basavano la tragedia, sono infatti venute a mancare. Non esistono più parametri certi di verità perciò l’umorismo non propone valori, ma un atteggiamento esclusivamente critico , e personaggi problematici, inetti nell’azione pratica; mette in rilievo le contraddizioni e le miserie della vita, irridendo e compatendo allo stesso tempo. L’uomo contemporaneo, non avendo più valori su cui fondare il proprio agire, vive creandosi delle illusioni. L’illusione fa si che noi ci vediamo non quali siamo, ma quali vorremmo essere. L’umorista scompone l’illusione e ne scopre il gioco. L’ipocrisia è alla base del vivere sociale perché è più facile attraverso una comune menzogna conciliare tendenze contrastanti. L’umorista toglie la maschera all’ipocrisia e mostra il suo vero volto. Quanto più si è deboli tanto più si sente il bisogno di ingannare gli altri simulando la forza, l’onesta e così via. L’umorista svela quest’ inganno. Come si mente nella vita sociale, presentandoci diversi da quelli che siamo, allo stesso modo si mente a noi stessi, sdoppiandoci e moltiplicandoci, sfuggendo da un’analisi profonda dei veri aspetti della nostra personalità. E’ l’umorista allora che compie quest’analisi.

Vita e forma, maschere e maschere nude
Per tornare alla discordanza tra arte tragica e umoristica, un’altra differenza possiamo trovarla nel modo di rappresentazione del mondo interiore dei personaggi; usando le parole dello stesso Pirandello possiamo dire che:

“un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e ripugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze.” 

Proprio per la sua attitudine alla scomposizione e alla conseguente analisi  che l’arte umoristica riesce così bene a evidenziare il contrasto tra forma e vita e tra personaggio e persona. L’uomo crede che la vita abbia un senso e perciò organizza l’esistenza secondo convenzioni. Sono questi autoinganni che costituiscono la forma dell’esistenza: essa è data dagli ideali che noi ci poniamo, dalle leggi civili e dal meccanismo stesso della vita associata. La forma blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, essa cristallizza e paralizza la vita. Quest’ultima è una forza profonda e oscura, un flusso continuo che fermenta sotto la forma in cui noi ci fissiamo ma che riesce ad emergere solo nei momenti di malattia, di notte o negli intervalli in cui non siamo coinvolti nel meccanismo dell’esistenza. L’umorismo sottolinea ironicamente i modi in cui la forma reprime la vita e rivela gli autoinganni con cui il soggetto si difende dalla forza sconvolgente dei bisogni vitali. Il soggetto è costretto a vivere nella forma, non è più una persona integra, coerente e compatta, ma si riduce ad una maschera (o a un personaggio) che recita la parte che la società esige da lui e che egli stesso si impone secondo i suoi ideali morali. Proprio per questo nell’arte umoristica non sono più possibili né persone né eroi, ma solo maschere o personaggi.
Il personaggio ha davanti a se solo due strade: o sceglie l’ipocrisia, l’adeguamento passivo alle forme, oppure vive consapevolmente, amaramente e autoironicamente, la scissione tra vita e forma. Nel primo caso è solo una maschera, nel secondo diventa una maschera nuda dolorosamente consapevole degli autoinganni propri e altrui, ma impotente a risolvere la contraddizione che pure individua. In questo caso interviene la riflessione e il personaggio più che vivere, si guarda vivere.

Dal comico all’umoristico
Chi si guarda vivere non compatisce solo gl’altri, ma anche se stesso. E’ proprio questo distacco riflessivo che distingue l’umorismo dalla comicità. Nel comico infatti è assente la riflessione perché nasce dal semplice e immediato “avvertimento del contrario”; la risata nasce dall’avvertire che una situazione o un individuo sono il “contrario” di come dovrebbero essere. L’umorismo invece è il “sentimento del contrario” e subentra quando si riflette sul perché quella situazione o quell’individuo sono il contrario di come dovrebbero essere e così al riso si sostituisce il sentimento amaro della pietà. Il passaggio dal comico all’umoristico è quindi il passaggio dall’ avvertimento al sentimento. Fu lo stesso Pirandello a darci la distinzione tra i due momenti del comico portandoci ad esempio la figura della vecchia imbellettata che cito qui di seguito:

“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella signora è il contrario di ciò che una vecchia signora rispettabile dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che forse quella signora non prova nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente si inganna che , parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a se l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre a quel mio primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico”.

Il fu Mattia Pascal
Al tempo in cui uscì il racconto, le reazioni negative non mancarono: critici abituati al metodo della narrativa ottocentesca non esitarono a giudicare assurde le innovazioni di Pirandello. Il fatto che Mattia fugge e, per l’errata identificazione del cadavere, si fa credere morto, è una delle principali accuse per l’inverosimiglianza del romanzo pirandelliano. Per questo quando Pirandello trova più tardi nella cronaca un fatto simile, aggiunge alla ristampa del ’21 un appendice al romanzo intitolata avvertenze sugli scrupoli della fantasia, per sostenere la plausibilità delle vicende raccontate. Così facendo, cioè entrando nel merito della verosimiglianza del racconto, di fatto svuota l’artificio del manoscritto in cui Pascal avrebbe raccontato la propria storia. Un’operazione analoga era stata compiuta anche da Svevo all’inizio de La Coscienza di Zeno, avvisando, attraverso la premessa del dottor S., che quanto sta per raccontare è solo un cumulo di “verità e bugie”. Mentre il narratore ottocentesco intende persuadere il lettore di stare raccontando una verità, il narratore primonovecentesco, a causa della crisi delle certezze che pervade tutto l’inizio secolo, non crede più ad alcuna verità, neppure alla propria, e invita il lettore alla diffidenza e alla sorveglianza critica.
La caratteristica fondamentale dello stile narrativo di Pirandello sta proprio nella sua straordinaria capacità di inventare situazioni, vicende e storie, ora comiche , ora pietose, ora grottesche, ma sempre strane, talvolta assurde. La scelta della vicenda, è il momento più importante della creazione artistica secondo Salinari, perché un sentimento del mondo così disgregato e contraddittorio, una visione della vita in cui domina il caos e l’irrazionale, non può che cogliere nella realtà che lo circonda tutti gli aspetti più assurdi e contraddittori, e metterli a confronto con i dati del senso comune, della società costituita. La trovata è dunque la caratteristica essenziale del suo stile. In questo senso Il fu Mattia Pascal rappresenta il romanzo della svolta.
Inoltre in esso già si applica la poetica dell’umorismo; Pirandello vuole esplicitamente collegare il romanzo al saggio sia tramite le due premesse iniziali e il capitolo XII e XIII che sono veri e propri contributi teorici alla poetica dell’umorismo, sia tramite la dedica del saggio “alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”.

Le premesse iniziali e i capitoli XII e XIII
Nelle due premesse il relativismo moderno e il conseguente umorismo sono fatti dipendere dalla scoperta di Copernico e dalla fine dell’antropocentrismo tolemaico: la rivelazione che l’uomo non è più al centro del mondo ma costituisce un’entità minima e trascurabile di un’ universo infinito e inconoscibile rende assurde le sue pretese di conoscenza e di verità erelative tutte le sue fedi. Secondo Pirandello, che qui si esprime tramite Pascal, le strutture narrative dei romanzi di tipo tradizionale, li rendono incapaci di rappresentare la reale condizione umana successiva alla scoperta di Copernico.
Nel Cap.XII si descrive quanto succederebbe in seguito ad uno strappo nel cielo di carta di un teatrino: l’eroe tradizionale, Oreste, che crede in valori assoluti, che sa distinguere nettamente il bene dal male ed è perciò pronto ad uccidere per fare giustizia, si distrarrebbe di fronte all’imprevisto, all’oltre che gli si spalanca davanti: improvvisamente cesserebbe di vivere e comincerebbe a guardarsi vivere” trasformandosi in una sorta di moderno Amleto e divenendo di fatto un antieroe, un inetto incapace d’azione. Lo strappo nel cielo di carta rappresenta il nostro comprendere di non essere al centro dell’universo, e la consapevolezza della propria piccolezza insignificante nell’economia della storia e dell’universo. Se il cielo si strappasse, all’uomo alimentato da grandi valori, si sostituirebbe l’uomo contemporaneo pensoso, diviso, contraddittorio ed incapace di decisioni e azioni. Questo brano va collegato a quello sull’impossibilità dell’epica e della tragedia nel mondo moderno che abbiamo già trovato nel saggio sull’umorismo. Un’altra parte che l’autore riprenderà quasi integralmente nel suo saggioL’Umorismo, è parte del testo del capitolo XIII sulla teoria del lanternino che ripropongo qui di seguito:

Il fu Mattia Pascal
(il lanternino) sento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua, dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? […] Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di esso, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve ambito dello scarso lume che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre ci rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste.L’umorismo
Spenta alla fine dal soffio della morte, ci accoglierà davvero tutta quell’ombra fittizia, ci accoglierà la Notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà rotto soltanto le vane forme della ragione umana? Se la morte fosse soltanto il soffio che spegne in noi questo sentimento penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve ambito dello scarso lume che ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre ci rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Non è anche qui illusorio il limite e relativo al poco lume nostro, della nostra individualità?

Il fu Mattia Pascal
E se tutto questo bujo, questo enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato?

L’umorismo
Tutta quell’ombra, l’enorme mistero che tanti e tanti filosofi hanno invano speculato e che ora la scienza, pur rinunziando all’indagine di esso, non esclude, non sarà forse in fondo un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se tutto questo mistero, insomma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita?

I temi del romanzo: la lanterninosofia
Gli estratti sopra citati fanno parte del discorso sulla lanterninosofia come la definisce Barilli. Paleari sostiene che la coscienza umana è come un lanternino debole e fumoso che, col suo stesso accendersi, interroga l’intatta continuità dell’Essere, la Notte compatta e uniformemente distesa, generando dubbi e problemi. Solo per un autoinganno l’uomo può ritenere che la luce del lanternino della propria coscienza sia la luce stessa delle cose poiché l’uomo ha bisogno di verità assolute per credere che i propri valori siano certi e che quindi la realtà sia oggettiva.
In realtà queste non sono che proiezioni soggettive da cui ne deriva il carattere illusorio di qualunque certezza, anche di quelle date dalla religione e dalla scienza. A complicare le cose va aggiunto che gli stessi lanternini delle coscienze individuali cessano di illuminare il cammino nei momenti di trapasso e di crisi: infatti essi perdono la luce dei lanternoni, cioè delle grandi ideologie collettive che sono storicamente determinate. Quando questi lanternoni cessano di fare luce a causa dello sviluppo storico che rende improponibili i valori del passato, allora anche i lanternini si spengono.

La libertà
Alla luce delle teorie di Anselmo Paleari, si può dire che uno dei temi portanti è quello incentrato sulla crisi d’identità, ma secondo alcuni critici, tra cui Enzo Lauretta, non rappresenta il motivo principali di fondo come invece è in Uno, nessuno e centomila. Piuttosto quella di Mattia risulta una storia di libertà. Posseduta nella prima parte del romanzo, nella “zona campestre”, la libertà viene persa con il “laccio” del matrimonio e quindi della forma, per poi essere recuperata a pieno, grazie alle infinite potenzialità della nuova vita. Sennonché nel duro confronto con l’esistenza, Mattia comincia a rendersi conto di dover porre “un certo freno alla mia libertà” ”così sconfinata ma anche un tantino tirannica” perché “nella mia libertà sconfinata mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo”. Senza la maschera che portava prima infatti Mattia si sente “sperduto in quella nuova libertà illimitata”.

La famiglia, lo spiritismo, l’inettitudine
Nel tema della libertà abbiamo accennato al matrimonio, visto come “laccio”. La duplicità della famiglia, sentita come nido o come prigione, rappresenta uno degl’altri temi che intercorrono il romanzo. La famiglia iniziale, fondata sul rapporto di tenerezza tra Pascal e la madre è sentita come idillio minacciata dall’avidità dell’amministratore; Il rapporto coniugale con Romilda e quello con la suocera, è considerato invece come una prigione. In questo secondo caso, sembra possibile solo l’evasione. Pirandello comunque tiene distinti il matrimonio e l’amore. Un altro dei temi presenti è quello del gioco d’azzardo che affascina molto Pirandello poiché l’importanza del caso e il potere della sorte contribuiscono a rafforzare la sua teoria della relatività della condizione umana, sottolineando i limiti della volontà e della ragione. Nella stessa direzione va l’interesse per lo spiritismo e per i fenomeni non spiegabili scientificamente, indotto dalla crisi del razionalismo positivista. Interessante è la somiglianza tra la seduta spiritica in casa Paleari con quella che impegna Zeno in casa Malfenti.
Mattia ci si presenta come un “inetto a tutto” con una straordinaria corrispondenza con la figura di Zeno Cosini. Mattia sogna un’evasone che alla fine risulterà impossibile, trasformandosi consapevolmente in un antieroe reso inadatto alla vita pratica dalla sua stessa tendenza allo sdoppiamento, a vedersi vivere.

La struttura
Oltre alla novità ideologica, questo romanzo Pirandelliano propone una novità anche sul piano strutturale. Anzitutto si tratta di una narrazione retrospettiva in prima persona, che inizia a vicenda conclusa e in cui l’inizio coincide con la fine. Il romanzo consta di tre parte che rappresentano tre diversi modelli di romanzo. Negl’ultimi due capitoli e nelle due premesse (che rappresentano i primi due capitoli) il protagonista è il “fu” Mattia Pascal. Egli vive in una condizione di non vita, di acronia, di totale estraneità rispetto all’esistenza, in un tempo fermo e in uno spazio morto (quello di una biblioteca che nessuno frequenta). Siamo in una situazione in cui non si può sviluppare alcuna storia, e il modulo narrativo quindi è quello dell’antiromanzo. Una seconda parte la possiamo individuare nei capitoli III-IV; qui il protagonista è il giovane Pascal e il romanzo è quello idillico-familiare, la “zona campestre”, dove la civiltà industriale moderna penetra a causa dell’amministratore ladro Batta Malagna che pone in crisi il precedente equilibrio. Lo snodo tra la seconda e la terza parte lo troviamo nel capitolo VII, dove Mattia decide di cambiare identità. Comincia a questo punto la terza parte del romanzo dove il modello romanzesco è quello del romanzo di formazione o buildingsroman. Lo spazio cambia ancora, e dalla campagna si passa a quello delle grandi città. Di questa terza parte il protagonista è la reincarnazione (se così è lecito definirlo) di Mattia, Adriano Meis, che cerca di costruirsi un nuovo io senza più obblighi di sorta. Ma in realtà la sua esperienza si risolverà in un fallimento e quindi si potrebbe definire si un romanzo di formazione, ma alla rovescia. A questo punto, giunti agl’ultimi due capitoli torniamo nell’antiromanzo in cui il protagonista, il “fu” Mattia Pascal, decide di restare nel paese natale come “fuori dalla vita”. Ormai Pascal è diventato una maschera nuda, non vive più, ma guarda vivere.
C’è chi vuole vedere nel discorso finale di Mattia, come ad esempio Benedetto Croce, una specie di morale manzoniana sostenendo che “ fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi […], non è possibile vivere”. Ma lo stesso Mattia può obbiettare che, sia pure per circostanze esteriori non gli è affatto accaduto di rientrare “né nella legge né nelle mie particolarità”. Pascal ha capito insomma che l’identità non può esistere, ne, tanto meno, può essere garantita da uno “stato civile” che semmai riduce l’uomo a forma, a maschera.

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